R. M. Pirsig, il Buddha della Qualità

10 Febbraio 2024

Sulla Qualità è una preziosa “antologia da comodino” che raccoglie lettere, conferenze, saggi, aforismi, appunti personali dello scrittore e filosofo Robert M. Pirsig (1928-2017) curata dalla seconda moglie Wendy Kimball, pubblicata da Adelphi (traduzione di Svevo D’Onofrio, Piccola Biblioteca, 2024), con foto di David Lindberg degli attrezzi che l’autore di Lo Zen e l’Arte della Manutenzione della Motocicletta usava non solo per la cura della sua Honda Super Hawk del 1966 (poco più di un motorino se paragonata a un’attuale Gold Wing Tour della stessa casa giapponese), cavalcata per cinque settimane, in un viaggio diventato letterariamente mitico fra Minneapolis e San Francisco, con il figlio undicenne Chris appollaiato sul sellino posteriore.

L’antologia, che l’editore definisce non a torto “la migliore introduzione al pensiero di Pirsig”, ospita – fra scritti su Qualità e Valori, Metafisica della Qualità e Dharma – un chiarificante intervento (inedito per l’Italia), tenuto nel maggio 1974 davanti a una platea di studenti adoranti del Minneapolis College of Art and Design, in cui Pirsig svela il “segreto” della nascita di ZAMM, come gli americani, assetati di acronimi, chiamano Lo Zen e l’Arte della Manutenzione della Motocicletta (tradotto in Italia da Delfina Vezzoli per Adelphi, 1981), libro che, da subito, era diventato oggetto di culto.

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L’idea, racconta lo scrittore, spuntò in seguito a un periodo di grave depressione, quando, per disperazione, era finito a lavorare per una fabbrica di utensili di precisione, «un’azienda seria e all’antica», dove scoprì che «i fabbricanti di quel genere di strumenti, i meccanici, sono dei veri artisti. Sottostanno a istruzioni assai rigide. Non hanno molta libertà. Devono seguire il progetto, ma possono seguirlo bene o possono seguirlo male. Possono produrre un ingranaggio così-così oppure produrne uno assolutamente perfetto». Margini di Qualità che, spiega Pirsig agli studenti, possono sembrarvi appannaggio esclusivo delle arti, ma esistono anche nella tecnologia.

Lo dimostrerà anni più tardi Steve Jobs, perfezionista puntiglioso e certosino, che era solito ricordare che: «per dormire bene la notte, l’Estetica, la Qualità, devono essere presenti fino in fondo in tutto ciò che fai», ribadendo, probabilmente senza saperlo, quanto aveva detto Primo Levi a proposito del lavoro che non è soltanto schiavitù e alienazione, e che, anzi, saperlo svolgere con passione e competenza può addirittura rappresentare una buona approssimazione alla felicità.

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Una cosina semplice, ironica e arguta e il disordine del mondo

Inizialmente, racconta Pirsig agli studenti, il libro avrebbe dovuto essere una «cosina semplice, ironica e arguta». Non fu così. Col tempo il progetto prese praticamente vita propria cominciando a lievitare. Il problema, a quel punto, era tenere traccia (i computer erano di là da venire) dei vari salti di scrittura oscillanti dalla meccanica della motocicletta alla filosofia zen, e viceversa. «Per riuscire ad andare avanti feci una cosa che avevo imparato dalla scrittura tecnica: annotare ogni idea su un diverso pezzo di carta, limitandomi a disporre sul tavolo i miei foglietti e a confrontarli». Rimontarli, buttarli via, riscriverli, spostarli, riorganizzarli in bella forma come avrebbe fatto un maestro di Ikebana nell’arrangiare un mazzo di fiori, al fine di lenire il disordine del mondo.

Agli studenti presenti alla conferenza confesserà: «Tutte le recensioni che ho letto sembrano ritenere il libro il frutto di un intenso atto creativo. Invece si è trattato di un atto intenzionale e sistematico: sotto questo aspetto sono stato creativo quanto un ragioniere». O come un montatore di Hollywood, aggiungeremmo noi, alle prese con una pellicola affollata di flashback e salti narrativi, esattamente ciò che aveva in mente di fare Robert Redford, come spiegò lui stesso a Pirsig andando a trovarlo per trattare l’acquisto dei diritti per farne un film – avvertendolo, per correttezza e per esperienza consolidata per aver lavorato con scrittori gelosi del proprio parto, che: «Comunque venga il film, a lei non piacerà». La storia della trattativa e dell’incontro con l’attore è raccontata in modo lieve e autoironico dallo stesso Pirsig nei capitoli 19 e 20 di Lila, indagine sulla morale, il suo secondo libro (pubblicato in Italia da Adelphi, per la traduzione di Adriana Botini, 1992). 

All’inizio, a Pirsig non è ben chiaro che, accettando l’accordo, avrebbe perso il controllo artistico dell’opera, ma è tentato. I soldi sono molti. In un primo tempo dice a Redford: «I diritti sono suoi». Ma prima di firmare, conoscendolo, amici, agenti, consulenti, lo sconsigliano di farlo ricordandogli che cinema e libri appartengono a universi diversi: il primo alla sfera sociale, il secondo alla sfera intellettuale, due mondi incompatibili che, raramente, finiscono con un “...e tutti vissero felici e contenti”. Il suo avvocato fu perentorio: «Se ci tiene al suo libro, non lo venda a Hollywood». Alla fine, così sarà. 

Qualità, conoscenza mistica e attacchi di panico

Dunque, ZAMM è un tortuoso pellegrinaggio iniziatico, nato come una vacanza con «più voglia di viaggiare che non di arrivare in un posto prestabilito», atipico romanzo filosofico, uscito negli Stati Uniti nel 1974, anno di cambiamenti, personali per Pirsig, sociali per il Paese che, perplesso, prendeva atto delle dimissioni del presidente Nixon travolto dallo scandalo Watergate. 

Un itinerario della mente “alla Voltaire” che si dipana lungo le poco frequentate –spesso di cemento, spesso sterrate – Strade Blu del nord-ovest americano (il colore si riferisce al modo in cui erano rappresentate sugli atlanti stradali di una volta). Un long seller come pochi questo ZAMM – entrato nel Guinness dei primati come il libro più venduto (ben oltre cinque milioni di copie) e, allo stesso tempo, quello più rifiutato dal maggior numero di editori (121) – trionfalmente entrato nell’immaginario collettivo al pari dei viaggi di Ernesto “Che” Guevara su una Norton 500, di Jack Kerouac su una più comoda quattroruote Hudson Commodore, o di Humbert Humbert e Lolita a bordo di un’anonima Ford. 

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Era il 1968, tempo in cui l’occidente stava conoscendo gli effetti della rivoluzione hippie, con i suoi «mutamenti culturali che stanno rimodellando tutta la nostra prospettiva sulle cose», annota Pirsig che, novello Candide, innamorato del Walden di Thoreau, decide di partire, nel luglio di quell’anno, con il figlio per passare con lui quella condizione astratta che genitori più o meno assenti, divorziati o molto impegnati, chiamano, a propria giustificazione, Quality time. 

Ed è proprio alla Qualità, in veste di categoria dello spirito – estetica, ma anche etica e logica – che va il pensiero di Pirsig, in modo sempre più ossessivo. Tema che, come confermano anche alcuni estratti “mirati” di ZAMM, ripubblicati in Sulla Qualità, lo tormenterà come un tarlo per tutta la vita («Ognuno trova la Qualità svolgendo il proprio lavoro», era solito ripetere), e che gli creerà talmente grave ansia e depressione, fino a portarlo al ricovero psichiatrico.

Qualità che è il leit-motiv dei suoi due libri: ZAMM, appunto e Lila, uscito dieci anni più tardi: ancora un viaggio letterario, questa volta in barca a vela, ancora alla ricerca del significato della Qualità, della sua conoscenza mistica e metafisica e, ancora una volta, in compagnia di Fedro, il suo onnipresente, fantomatico alter ego.

Un cammino filosofico ostico quello di Pirsig, che si dipana in parallelo alla biografia di questo precoce maestro di scacchi dall’elevato quoziente d’intelligenza che a quindici anni studiava chimica, ma che si laureerà in filosofia, conseguirà un dottorato di ricerca in studi indù all’Università di Varanasi, conseguirà un master in giornalismo, insegnerà filosofia pur non essendo portato per l’insegnamento (anni dopo, ricorderà ancora gli attacchi di panico che lo assalivano ogni mattina mentre andava al lavoro fino a farlo star male fisicamente). Lascerà l’incarico di docente di filosofia e retorica allo State College di Bozeman, Montana, per proseguire febbrili studi sulla Qualità all’Università di Chicago. «Arrancando in uno dei programmi accademici più impegnativi del paese», ricorda la moglie, «finendo incapace di lavorare, studiare, da ultimo persino di parlare. Molti anni dopo, ricorderà poco dei ricoveri e delle terapie di elettrochoc [come quelle descritte da Ken Kesey in Qualcuno volò sul nido del cuculo] che seguirono, a Chicago e in Minnesota». 

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Il Buddha, il Divino e gli ingranaggi del cambio della moto

Qual è, si chiedeva Pirsig (cito dal risvolto di copertina di ZAMM), la differenza fra chi viaggia in motocicletta sapendo come la moto funziona e chi non lo sa? In che misura ci si deve preoccupare della manutenzione della propria motocicletta? Domande che oggi, con tutta la sofisticata elettronica impiantata sulle due, come sulle quattro ruote, non avrebbero senso, a meno di non essere un ingegnere con uno specifico dottorato di ricerca ottenuto, magari, al MIT. Ma all’epoca le “cose meccaniche” erano facili. Come quando Pirsig si inventa di riparare le manopole della moto di un amico che avevano cominciato ad allentarsi, inserendo uno spessore ritagliato da una lattina di birra. 

Così, mentre guida tra «smaglianti prati blu di fiori di lino» una risposta balena all’orizzonte: «Il Buddha, il Divino [ovvero la Qualità] dimora nel circuito di un calcolatore o negli ingranaggi del cambio di una moto con lo stesso agio che in cima a una montagna o nei petali di un fiore». Apparentemente la stessa folgorazione che aveva colpito Jack Kerouac di cui parla ampiamente nel suo Some of the Dharma. Non a caso, in una rara intervista rilasciata al Guardian, Pirsig confessava di essere stato un attento lettore di Kerouac. 

Folgorazione che aveva abbagliato anche moltitudini di americani (ma non solo) che in preda a vaghe idealizzazioni avevano preso a “praticare il Dharma”, cantare il Nembutsu in omaggio a Amida Buddha, o il Daimoku del Sutra del Loto, ammirare i Bodhisattva ed eseguire prostrazioni buddhiste a prova di lombalgia: teniamo presente che lo “spirito dell’epoca” era quello dell’Era dell’Acquario”, lo Zeitgeist che partorirà quella forma di controcultura spirituale conosciuta come New Age, la Nuova Era, il cui sguardo è rivolto a antiche, arcane discipline orientali di sapore iniziatico. O, per lo meno, è ciò che si percepisce in superficie. 

Non era magari quello il caso di Pirsig – e questa nuova “antologia da comodino” adelphiana, sciccosa e benvenuta, lo conferma – ma il suo predicare un non proprio involontario buddhismo Zen laico ha comunque finito per fare breccia fra un buon numero di suoi lettori, fors’anche fra coloro che avevano acquistato il libro pensando che fosse un vero manuale di come prendersi cura della propria Harley Davidson. 

«L’opera di Pirsig è, come gran parte della letteratura classica americana, manichea», ebbe a scrivere sul New Yorker, un recensore d’eccezione come George Steiner, studioso di mistica ebraica. «È costruita su dualità, su opposizioni binarie, su presenze, valori, codici espressivi in conflitto (...); leggenda di una grande caccia alla ricerca dell’identità, della salvezza della mente e dell’anima dall’ossessione, dove chi insegue è inseguito; una narrazione ripetutamente interrotta e rallentata da protratte meditazioni sui particolari caratteri contraddittori e tragici dell’uomo americano». In pratica, ZAMM come Moby Dick. Pirsig come Achab.

La Qualità non è colpire il bersaglio, ma la perfezione del tiro 

Prima del libro di Pirsig, lo Zen aveva avuto i suoi momenti di gloria editoriale a seguito della pubblicazione, nel 1948, in Germania, di un libretto sull’arte del Kyudo, il tiro con l’arco, Zen in der Kunst des Bogenschießens, scritto da un professore di filosofia, Eugen Herrigel, insegnante a Heidelberg che nel 1924 era stato invitato a insegnare all’Università Imperiale di Sendai, in Giappone, dove aveva conosciuto Awa Kenzo, uno dei più famosi e rispettati maestri di Kyudo, al quale chiese di essere introdotto a quella disciplina fatta di “capacità acquistata attraverso esercizi spirituali e che mira a colpire un bersaglio spirituale”. Lo Zen e il tiro con l’arco, in Italia è pubblicato da Adelphi nella Piccola Biblioteca, tradotto da Gabriella Bemporad.

Tornato in Europa, dopo la guerra, Herrigel scrisse della sua esperienza di apprendimento del Kyudo in cui racconta il difficile tentativo di avvicinamento di un filosofo occidentale allo Zen e alle filosofie orientali, e spiega come la “Qualità” non si raggiunga nel colpire il bersaglio, ma nella perfezione del tiro, nel “lavorare” sul proprio spirito, nel diventare più cavallereschi, pertanto più umani. Senza perseguire, come annotava il filosofo e storico delle religioni Daisetz T. Suzuki nell’introdurre il libro di Herrigel, alcun fine pratico o piacere puramente estetico, bensì avvicinandosi alla Realtà Ultima grazie al tirocinio della coscienza. 

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Gli epigoni Zen e gli Spaghetti Western (Se incontri Sartana)

Nel tempo c’è stato chi ha sollevato il dubbio che Robert Pirsig avesse copiato l’idea per il titolo del suo ZAMM proprio da Lo Zen e l’arte del tiro con l’arco. Forse sì, forse no, forse non ha nessuna importanza, né senso. Quello che invece fa senso è lo sbocciare di tutta una serie di epigoni che hanno cercato di capitalizzare il facile gioco di declinare l’espressione “Lo Zen e...”. 

E così ecco spuntare in libreria: Lo Zen e l’arte di aprire una porta aperta, Lo Zen e l’arte di allevare galline, Lo Zen e l’arte dei ghirigori, Lo Zen e l’arte della manutenzione dei social, Lo Zen e l’arte del bagnino, Lo Zen e l’arte del minigolf, Lo Zen e l’arte di sbattersene il ca**o.

In pratica, allo Zen è accaduta la stessa cosa che era capitata, nel quindicennio 1964-1978, al filone cinematografico degli Spaghetti Western. Il capostipite “di Qualità”, Per un pugno di dollari, era stato un tale successo, improvviso quanto inaspettato, che tutti, a Cinecittà, si misero a fare western “americani”. Nacquero, come funghi, personaggi che si chiamavano Ringo, Sartana, Django, Dinamite Jim, Djurado, El Cisco, Navajo Joe, Johnny Oro, Sabata, Provvidenza, Alleluja, Mezzogiorno, Tresette, Cipolla Colt, Mannaja, Keoma, Ramon, Bang Bang Kid, Cjamango, Kitosch, Lola Colt, Tepepa. 

Visto, poi, che i dollari nel titolo del film di Sergio Leone avevano avuto fortuna, ecco spuntare: 5000 dollari sull’asso, i Tre dollari di piombo, i 5 dollari per Ringo, i Per mille dollari al giorno, i Per pochi dollari ancora, i Quattro dollari di vendetta.

In quel Texas fuori porta c’erano un po’ tutti: Giuliano Gemma (che dette il volto ai vari Ringo), Franco Nero (il primo Django), Rita Pavone e Lucio Dalla (Little Rita nel West), Sandra Milo (T’ammazzo, raccomandati a Dio), Gina Lollobrigida (E continuavano a rubarsi il milione di dollari), Pier Paolo Pasolini (Requiescant). 

La pietra tombale del western all’italiana arrivò con i film della serie “Trinità” e la coppia Carlo Pedersoli–Mario Girotti (americanizzatisi in Bud Spencer e Terence Hill), diretti da E.B. Clucher, ovvero Enzo Barboni. 

L’epitaffio spettò a Sergio Leone: «Noi cineasti italiani siamo degli abili costruttori sulla sabbia, facciamo castelli senza fondamenta che poi ci crollano addosso, anche perché l’arte di arrangiarsi ci è propria e quindi, individuato un filone, lo sfruttiamo fino a esaurimento. Nei cinque anni seguenti a Per un pugno di dollari, sono stati prodotti 480 western il che significa cento western l’anno. È stato lo sfacelo, con il pubblico che, avido di vedere questo genere di pellicole, sul momento, non faceva distinzione, ma quando film come Se incontri Sartana digli che è un uomo morto venivano parafrasati in Se incontri Sartana digli che è uno stronzo, significò che il genere era già smitizzato, che il pubblico era stanco, si era già scocciato».

Chissà se i tristi epigoni di ZAMM, che ancor oggi imperversano, hanno chiara la metafora. 

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