Parigi Danilo Kiš / Homo poeticus, malgrado tutto

31 Ottobre 2019

Il 15 ottobre del 1989, all’età di cinquantaquattro anni, moriva a Parigi Danilo Kiš, romanziere yugoslavo e europeo, uno degli autori fondamentali della seconda metà del XX secolo.

Era nato a Subotica, da padre ebreo ungherese e madre montenegrina. Nel 1942, in seguito al massacro avvenuto a Novi Sad degli ebrei e dei serbi ad opera dei fascisti ungheresi e alla deportazione del padre, si installa in Ungheria, dove compone le sue prime poesie. Poi, dal 1947 al 1954, è in Montenegro, a Cetinje, il villaggio natale della madre. Qui frequenta il liceo, apprende a suonare il violino e comincia a tradurre versi dall’ungherese, dal russo, dal francese. Dopo il diploma va a vivere a Belgrado, dove ottiene la laurea in letterature comparate. Il suo primo viaggio a Parigi, di cui ci ha lasciato uno splendido reportage, è del 1959. 

 

Nel 1962 escono in un unico volume i suoi due primi brevi romanzi, Mansarda e Salmo 44 (non ancora tradotti in italiano), dove si trovano in nuce i temi autobiografici e storici di tutte le opere successive. Dal 1979, dopo aver soggiornato durante gli anni ’60 e ’70 a Strasburgo, Bordeaux e Lille come lettore di serbo-croato, si stabilisce a Parigi, dove vivrà fino alla morte. 

Le sue opere maggiori, cioè il “trittico familiare” incentrato sulla figura del padre deportato ad Auschwitz di Giardino, cenere (1965, trad. it. Adelphi, Milano, 1986), Dolori precoci (1969, trad. it. Adelphi, Milano, 1993) e Clessidra (1972, trad. it. Adelphi, Milano, 1990), quel tragico e parodico monumento eretto contro la Storia che è Una tomba per Boris Davidović (1976, trad. it. Adelphi, Milano, 2005) e le nove novelle di Enciclopedia dei morti (1983, trad. it. Adelphi, Milano, 1988), sono ormai conosciute in molti paesi europei e negli Stati Uniti. 

 

 

Nonostante questo la grandezza artistica di Kiš è ancora quasi tutta da scoprire. Penso che ciò sia derivato da un certo isolamento dell’autore, cioè dalla sua particolare posizione politica quanto dal suo originale modernismo estetico. Può sembrare paradossale parlare di posizione politica per un romanziere che per l’intera vita ha condannato attraverso la sua opera tutte le oppressioni totalitaristiche (nazismo, stalinismo) che vogliono ridurre l’uomo alla sola dimensione di zoon politikon, di homo politicus. Solo che Kiš, che non era né un dissidente né un rifugiato, ha emesso questa condanna in tempi in cui l’arte, sia a Occidente che a Oriente, veniva considerata come un’estrema appendice della politica. Kiš rivendicava la ricchezza e l’unità culturale della tradizione europea, la riflessione metafisica, la sensibilità di homo poeticus sia contro la scuola realista di Belgrado che contro l’engagement di Parigi.

La sua “posizione” politica isolata derivava, dunque, dalla sua “posizione” estetica. Quanti potevano comprendere a Belgrado un autore cosmopolita che si rifaceva non solo a Rabelais e a Flaubert, ma anche alle grandi innovazioni formali dei teorici del Formalismo russo e di Borges? E quanti intellettuali, nella Parigi degli anni ’60 e ’70, potevano comprendere questa “rarità etnografica” che citava come autorità della letteratura europea non solo Nabokov, Babel’, Pil’niak, ma i suoi maestri jugoslavi, Andrić, Krleža, Crnjanski?

 

L’originale e ambizioso progetto estetico di Kiš di riconciliare, all’ombra del progenitore del romanzo moderno, Rabelais, l’anima balcanica con il senso della forma e del concreto della letteratura centroeuropea, non poteva trovare, dunque, né Est né a Ovest, l’attenzione che meritava. Ma penso che sia necessario aggiungere qualcos’altro se si vuole comprendere come la sua opera anche nel corso degli ultimi trent’anni, in questa nostra epoca di apparente rielaborazione dei grandi lutti del secolo, non abbia avuto che pochi lettori. 

 

A differenza della letteratura di testimonianza, a differenza anche di autori come Primo Levi o Solženicyn, Kiš è stato il solo, nella seconda metà del ’900, che ha osato utilizzare gli strumenti formali più sofisticati – straniamento, costruzione rallentata e polifonica della narrazione, ricostruzione fittizia di documenti storici – per sottoporre all’esame romanzesco i drammi cruciali del secolo, i Lager nazisti e i Gulag staliniani, Auschwitz come la Kolyma. È stato il più moderno dei romanzieri che ha esplorato il mondo più refrattario alla memoria storica: un mondo di milioni di esseri la cui esistenza non è stata altro che una marcia silenziosa verso il nulla. Ma non è tutto. 

“Colui che afferma che la Kolyma è qualcos’altro da Auschwitz, mandalo al diavolo”, consigliava a un giovane scrittore. Al di là di ogni apprezzamento sul Male assoluto, da romanziere Kiš ci rivelava una possibilità esistenziale: da quell’identica sparizione di corpi senza tomba l’uomo potrà essere trattato come un anonimo rifiuto biologico, ridotto a puro zoon, privato di ogni dimensione politica e poetica. A noi, uomini politici e poetici, di verificare se questa ipotesi appartiene solo al campo della “realtà non reale” che per Kiš è la letteratura.   

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