Addii / Frie Leysen, contro il consumo del teatro
“Ho una gran confusione in testa. Quindi tutto bene!” scriveva Frie Leysen a Romeo Castellucci, riprendendo una frase del regista che iniziava a dare notizia del suo Combattimento (da Monteverdi), che avrebbe presentato al Kunstenfestivaldesarts di Bruxelles nel 1999. La Socìetas Raffaello Sanzio al Festival c’era stata già stata con Giulio Cesare e vi sarebbe tornata con molte delle sue opere successive, a partire dal quarto atto della Tragedia Endogonidia. BR#4Bruxelles/Brussels. Scriveva ancora Frie Leysen:
“Anche nella mia testa c’è una gran confusione, quando si tratta di enunciare e aggregare delle parole sulla profonda impronta che il tuo lavoro incide in me…
Perché questa impronta non ha contorni. È movimento: perturbazione. Emozione violenta e diffusa agitata da domande incessanti, da contraddizioni insolubili.
Dolce luce che racchiude le ombre più spaventose” (ora in Socìetas Raffaello Sanzio / Romeo Castellucci, Epitaph, Ubulibri, 2003).
La lettera di Frie Leysen continuava ponendo domande stringenti a Castellucci su etica e estetica, scrivendo ancora:
“Il teatro come un lavoro di precipitazione chimica, un fenomeno fisico di trasformazione che liquefa la realtà e le sbarre della sua prigione, per liberare l’aria, il respiro, il torrente, l’animale che si rintana sotto le parole, nel cuore della carne”.
Oggi Frie Leysen non c’è più. Non corre più per il mondo in cerca di visioni, processi, spettacoli, pronta a cogliere i fiori più fragili o potenti di libertà, di rifiuto dell’intrattenimento, di invenzione; non scrive più lettere agli artisti, per decifrarne la ricerca, per spingerli a rivelarsi, per capire, per accogliere, per far trasformare. Se n’è andata il 22 settembre. Questa donna straordinaria, nata in Belgio, di lingua fiamminga ma poliglotta, ha percorso tutta l’Europa e il mondo per il centro deSingel che fondò ad Anversa, poi per il Kunstenfestivaldesarts di Bruxelles, altra sua creatura, lasciata poi in più giovani mani nel 2006. In Medio Oriente si dedicò al Meeting Points, fu direttrice di Theater der Welt dal 2008 al 2010, direttrice della sezione arti performative dei Berliner Fespiele e poi della sezione teatro delle Wiener Festwochen per un breve periodo, nel 2013-2014, andandosene sbattendo la porta “contro i dinosauri”.
La si incontrava in tutti i luoghi dove il teatro pulsava, con artisti libanesi che raccontavano i fumi di guerra del loro paese, con quell’inventore di travolgenti paradossi in forma scenica che è Christoph Marthaler, negli incroci tra musica e teatro o tra danza, performance, teatro… Non smetteva mai di cercare, in Cina, in Argentina e in Sudamerica, in Oriente, in ogni parte del mondo, con un metodo speciale.
La conobbi al Festival di Santarcangelo. Era il 1998. Ero stato chiamato da Silvio Castiglioni come condirettore dopo che Leo de Berardinis aveva abbandonato la guida della rassegna all’inizio del suo secondo triennio. Creammo in poco tempo, in emergenza, un programma che prevedeva tra le altre cose un focus sul teatro siciliano, che era in una fase molto creativa. Una sera, in uno spettacolo per altro non troppo affollato di spettatori della coppia Scimone-Sframeli, mostruosamente bravi e corrosivi ma parecchio emarginati dai circuiti importanti, ci fu annunciata la presenza di una direttrice di festival straniero. Era lei, con i suoi ricci, che qualche volta distendeva in una pettinatura liscia, le unghie sempre laccate rosso fuoco, gli occhi celesti e il largo sorriso (con un retrogusto di tristezza) interrogante, sempre con una sigaretta in mano e spesso con un boccale di birra, con la sua auto. Con quella, un’utilitaria, attraversava i monti e il continente o portava da un luogo all’altro di Bruxelles durante il suo festival, a vedere prove, a discutere con gli artisti che produceva, a interrogarli, a spronarli, pronta a rimandare un debutto se qualcosa non funzionava, se sentiva un’incertezza. Portava a vedere spettacoli, di grandi nomi internazionali o di giovani o di interessanti compagnie locali, importanti per il territorio (quanti si sono ispirati a questo metodo!); sempre veloce come una freccia, con slalom nel traffico, senza cinture di sicurezza, con una guida spericolata, “napoletana”, con i sedili ingombri di cose, con domande continue, curiosità, pensieri lanciati nell’abitacolo durante il viaggio per capire, per dipanare…
Ecco: il suo metodo di selezionatrice, infallibile, era quello di guardare di persona, macinando chilometri, in macchina, in treno, in aereo, con ogni mezzo, intrecciando reti con altri operatori, andando a conoscere di persona i creatori, nei luoghi più sperduti, cercando di cogliere i segnali nascenti, di dialogare con gli artisti, di approfondire il lavoro. Sfidarli e sfidarsi al rischio di nuove produzioni, per rompere i confini, accettando visioni e dispositivi insoliti, che rompevano le regole della buona creanza e diciamo pure del conformismo teatrale e politico. A Bruxelles ogni spettacolo era sottotitolato perlomeno in fiammingo e in francese (e molte volte anche in inglese), perché per lei le divisioni delle due comunità belghe, i nazionalismi, non avevano senso. Bisognava mettere in relazione, aprire, far conoscere, far capire. Far sognare. I suoi festival erano pieni di incontri o di formati fuori dall’usuale. Ne ricordo uno con Alejandro Tantanian, “teatrista” argentino, regista, attore, scrittore, cantante, proprio in questi giorni scoperto da Emilia Romagna Teatro che mette in scena una sua drammaturgia. Era forse il 2003: portava in un viaggio nel tango e nella città di Buenos Aires.
Scimone e Sframeli da quella serata senza troppo pubblico arrivarono a Bruxelles e poi al Festival d’Automne di Parigi, e poi un testo di Scimone alla Comédie Française. Frie mise in moto tutto, presentandosi all’improvviso in quel teatro di provincia. A Bruxelles portò Teatrino Clandestino, che poi coprodusse col Festival Iliade. E, come si diceva, si vide tanta Socìetas Raffaello Sanzio, la passione di Frie, in un dialogo continuo.
In un seminario per il Festival Crisalide a Forlì nel 2017, in una conversazione con Catia Gatelli, questa grande signora della scena rivendicava il suo ruolo di programmatrice e non di curatrice, come si usa oggi. Diceva a Simone Azzoni, che la intervistava per “Artribune”:
“Sono una programmatrice, ossia colei che ha il compito di essere antenna e captare ciò che preoccupa gli artisti. A partire da questi bisogni il programmatore mette al centro gli artisti e il loro lavoro. Il curatore invece mette al centro sé stesso, il tema, e solo in un secondo momento cerca quegli artisti che possano dimostrare la sua intelligenza e il suo buon gusto”.
In questo modo, cercando, ascoltando, provocando, rilanciando, con allegria e passione, con un pizzico di rigorosa follia, apriva strade che oggi dopo di lei molti percorrono. E quando lavorava ai suoi festival scopriva spazi nuovi, creava équipe di lavoro: ha formato varie generazioni di programmatori, curatori (ebbene sì, anche loro), organizzatori, sempre proponendo come base del pensiero teatrale, alla fine, una forte visione etica, incapace di accontentarsi di concezioni quietiste.
Non sapeva stare senza teatro. Dopo Santarcangelo 2003 avrebbe dovuto recarsi come ogni anno ad Avignone. Il Festival saltò per lo sciopero dei lavoratori precari, gli intermittents, e allora si diresse, sempre con quella sua macchina improbabile, a Castiglioncello, a visitare una rassegna principalmente italiana, a conoscere nuovi territori della scena, in un amore smisurato per la provincia artistica, per l’incognito.
Ci mancherà, Frie Leysen, con il suo sguardo dialettico e incisivo, con la sua capacità non tanto di capire subito un percorso quanto di cercare di coglierlo nelle sue ragioni profonde, rendendolo un problema interessante per il teatro e per la società. Lei fu insignita nel 2014 del premio assegnato dall’Associazione Ubu per Franco Quadri, intitolato al critico di “Repubblica” e fondatore della Ubulibri, suo grande amico scomparso. La motivazione, tra le altre cose, recitava:
“Spericolata nel percorrere paesaggi inesplorati, è capace di intercettare le onde creative al di là delle barriere linguistiche o geopolitiche. Libertà e rigore attingono alla medesima fonte nel suo tracciare orizzonti trasversali che nutrono e irradiano la scena, che la interrogano e la offrono alla condivisione pubblica: cammino di ombra e luce in cui Frie Leysen indica e mantiene salda la ricerca di un fulcro vitale e perturbante, in una messa in gioco di sé totale. Il premio Franco Quadri coglie in questo suo operato ‘dietro le quinte’ la grammatica di un vero e proprio atto d'arte”.
Atto d’arte era il suo operare, il suo far esistere, guidato sempre da domande incalzanti, da curiosità vivacissima, da profondi principi. Nello stesso anno aveva ottenuto in Olanda uno dei più prestigiosi riconoscimenti, il Premio Erasmus. Ci congediamo, con dolore, da lei, dalla sua “confusa” lucidità rivelatoria, riportando il discorso di accettazione, nella traduzione di Luigi de Angelis di Fanny & Alexander, per gentile concessione dell’Associazione Ubu per Franco Quadri:
Discorso di Frie Leysen ad Amsterdam in occasione del conferimento del Premio Erasmus
Vorrei partire raccontandovi una storia, quella di Seong-Hee Kim, un’amica e collega sud-coreana: «Circa alcune migliaia di anni fa, i primi animali si sono spinti fuori dall’acqua per raggiungere la terraferma: prima sono diventati dei rettili e in seguito dei mammiferi. Ma a un certo punto, presentendo il grande choc del meteorite, uno di loro, senza dubbio una renna, ha respirato a fondo ed è saltata di nuovo in mare. Pensava che le sue possibilità di sopravvivenza sarebbero state maggiori lì. Ed ecco la balena. Uno degli animali più grandi, più intelligenti e i più dotati d’empatia sulla terra. Uno dei pochi mammiferi marini. Questo è un esempio del fatto che una marcia indietro non significa necessariamente una regressione, ma che può rivelarsi come una buona decisione».
Questo Premio mi viene consegnato per le ragioni che sono state appena evocate. Mi è stato annunciato mentre stavo lavorando a Vienna, al Wiener Festwochen, e stavo ingaggiando una dura battaglia per difendere precisamente queste idee e questi valori. Era un periodo difficile per me, la combattività andava di pari passo con dubbi intensi e inquietudine profonda. Si trattava di un combattimento che non potevo vincere in fin dei conti: non si può combattere contro i dinosauri. Non bisognava più disperdere la propria energia. Dopo nove mesi, ho rotto il mio contratto di quattro anni e ho abbandonato il festival, alla fine della mia prima edizione.
Ritorno al mare…
Era in atto una dualità sorprendente. Piena di dubbi e ricompensata allo stesso tempo. Cosa significa allora questo Premio in relazione a tali circostanze? Cosa significa per me, e per le idee e i principi che difendo? Ha senso che io abbia un posto nella lista dei laureati del prestigioso Premio Erasmus? Ne dubito fortemente. Questo premio ha ricompensato spiriti brillanti e artisti geniali. Io non sono né l’uno né l’altro. Considero l’attribuzione del Premio di quest’anno come un segnale di allarme. Siamo coscienti di quello che stiamo perdendo in questo clima di svolta a destra, di nazionalismo e di mercificazione?
Questo Premio mi è consegnato dal Re Willem-Alexander d’Olanda.
Maestà, il vostro Paese è diventato un luogo
– dove le arti possono a stento respirare;
– dove si fa ancora con difficoltà distinzione tra arte, cultura e industria del divertimento;
– dove sono stati brutalmente tagliati i budget delle arti e della cultura. Il paesaggio teatrale ha subìto una vera e propria epurazione. Tutte le proliferazioni e altre cattive erbe sono state sarchiate. Peccato, poiché è proprio da queste crescite che provengono l’innovazione e il cambiamento…;
– dove i luoghi di creazione artistica, gli atelier, i laboratori e altri centri di ricerca sono stati eliminati;
– dove il conservatorismo prospera;
– dove l’arte è qualificata come «hobby di gente di sinistra»;
– dove la circolazione internazionale degli artisti e delle loro opere è ridotta all’osso;
– dove quasi tutti i teatri, a eccezione di qualcuno, propongono la stessa cosa: una programmazione impersonale, dove ce n’è per tutti i gusti, il cui obbiettivo principale consiste nel realizzare delle cifre. Col risultato che il pubblico le ha disertate per la più parte;
– dove il pubblico realmente interessato dalla cultura resta crudelmente affamato.
In breve, un paese dove l’arte e la cultura e il loro pubblico sono sottomessi a serie pressioni. Ma questo non è solo appannaggio dell’Olanda, dappertutto in Europa si attenta all’arte e alla cultura. Da poco, anche il mio paese, il Belgio, distribuisce i suoi colpi bassi.
Qualcosa mi sfugge: il Belgio e l’Olanda fanno parte delle regioni più ricche del pianeta e in entrambi i paesi la crisi è rimasta limitata. Fino a poco tempo fa, entrambi i paesi portavano avanti una politica culturale stimolante e molto in vista. Come può questo Governo, con un solo colpo di spugna, eliminare tutti questi investimenti? Non lo comprendo. E rifiuto di comprenderlo.
Il cambiamento del clima politico è una cosa. Ma come vuole il vecchio adagio, è sempre facile spazzare davanti alla propria porta… Questo ci obbliga a interrogarci: le arti subiscono la logica politica, economica e diplomatica, forme di oltraggiosa seduzione? Non abbiamo fatto da marciapiede alla politica per risolvere problemi sui quali non si viene a capo, come l’esclusione sociale, l’immigrazione, il razzismo? Problemi ai quali le arti non possono e non devono trovare soluzione, anche le arti così in voga come «le arti partecipative» o il «tutto il mondo è artista!».
Il mondo intero non è interessante, e tutto il mondo non è certamente artista. Non ci siamo troppo giustificati, a botte di cifre e argomenti economici, invece di restare sul terreno del contenuto artistico? Non ci siamo ridotti a degli intrattenitori di gallerie che seguono saggiamente le regole dei manager, degli esperti in marketing e dei contabili, invece di essere rimasti gli elementi perturbatori e le fonti d’ispirazione che dovremmo essere? Non dovremmo, così come la balena, tornare al mare, alla ricerca di un biotopo più adatto per ritrovare la nostra forza combattiva?
Altro segnale d’allarme. Io considero questo premio soprattutto come un’arringa a favore di una zona franca per gli artisti e il loro lavoro. Una zona franca dove gli artisti possono liberamente sviluppare la loro visione e il loro talento, analizzare la società in maniera critica, mettere il dito dove fa male, e ispirarci, noi, il loro pubblico. Una zona franca dove la pressione politica, economica, sociale ed estetica non è all’ordine del giorno. È di questo che si tratta. È quello che rappresenta il mare.
Questo Premio difende gli artisti e il loro lavoro, che sono minacciati di soffocare in un mondo meschino, borghese e artificiale, fatto di glamour, di soldi, di potere, di pettegolezzi, di prestigio, di mercificazione, di narcisismo, di compromesso, di carrierismo a oltranza e di vanità. La Disneyland artistica del XXI secolo.
Questo Premio difende anche la circolazione degli artisti e delle loro opere nel momento in cui l’Europa, e anche l’Olanda, minaccia di nuovo di chiudere le sue frontiere e dove l’autoreferenzialità regna sovrana. Ho nostalgia dei Ritsaert ten Cate di questo paese.
Questo Premio è anche una ricompensa per le nuove generazioni d’artisti e per gli artisti dei quattro angoli del mondo che non conosciamo ancora ma che ci offrono una prospettiva totalmente differente sulla nostra epoca e sul nostro mondo. Ma solo se gliene diamo l’opportunità.
Questo Premio è un omaggio al pubblico critico, curioso, esigente e avventuroso, il partner imprescindibile dell’artista. Delle persone che sentono il bisogno di confrontarsi ad altre visioni e opinioni, a caccia di nuovi linguaggi e espressioni artistiche, disdegnando il consumo commerciale e l’avanzata della cosiddetta industria culturale.
Questo Premio riguarda la quintessenza del nostro lavoro, gli artisti e le opere, riguarda la messa in gioco, l’assunzione di rischi, la radicalità e il cambiamento. Riguarda la nostra missione di ripensare le strutture e i modi di lavoro e di adattarli ai bisogni attuali.
Nella mia vita, ho costruito qualche nuova struttura – deSingel a Anversa, il Kunstenfestivaldesarts a Bruxelles e Foreign Affairs a Berlino –, su misura, in vista di realizzare le mie idee e i miei valori. Ma mi è sembrato ugualmente cruciale abbandonare queste strutture al momento giusto, trasmetterle alla generazione successiva. C’è ancora del posto per delle nuove strutture oggi? Il paesaggio nel frattempo non è troppo denso? Non ne sono sicura. Il fatto è che intanto le strutture e le case delle arti rivendicano un valore d’eternità, che gli è stato d’altronde conferito. Si vedono raramente emergere delle iniziative di natura provvisoria. Ma ogni nuova vita è condannata a morire un giorno. Si fa molta fatica ad accettare la nostra finitezza. Ci vuole più spazio, mentale e politico, per cambiare le strutture dall’interno. Nuove generazioni devono potersi appropriare delle Istituzioni esistenti, ribaltare tutto, ripensare tutto e tutto rimodellare secondo le proprie concezioni.
Sul piano politico e economico, l’Europa non rappresenta più niente nel mondo globalizzato di oggi. Ma la nostra cultura e la nostra arte continuano ad avere un ruolo di primo piano sulla scena internazionale. È per questo che bisogna continuare a battersi, contro la tendenza a ridurre tutto a conservazione museale del nostro passato, occorre insistere e investire sul futuro, e questo in un clima artistico vivente, animato, aperto e innovativo.
Questo Premio saluta le idee, i principi e i modi di lavoro che sono sottomessi a una fortissima pressione nella costellazione attuale, non solo a Vienna o in Olanda, ma in tutta l’Europa. Lo condivido con chiunque contribuisca a difenderli: artisti, colleghi, spettatori, e anche qualche depositario dell’autorità pubblica.
Oso e sogno che questo gesto possa incitare il mondo a riflettere sull’orientamento che suggerisce di dare alle arti: a chi indirizzarlo, in quale modo e per quale ragione? Ecco perché propongo, signore e signori, che ritorniamo tutti nel mare!
Frie Leysen,
Amsterdam, 2014