L’amore vero al tempo di Twitter
Ma che direbbe Guy Débord dell’#amourdeuxpointzéro di tigella, un hashtag che raccoglie frasi come “tu ne me retweets plus comme au début de notre histoire” o “il nostro è stato amore al primo ‘visualizza il profilo’”? Che direbbe di questo amore che nasce dal profilo, di questo amore per il profilo?
Guy Débord è l’autore de La società dello spettacolo, un testo del 1967 scritto “con la precisa intenzione di nuocere alla società spettacolare”. Partendo dall’assunto che “lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato da immagini”, Débord aveva evidenziato con lungimiranza il fascino perverso della rappresentazione e si era scagliato contro il pullulare di realtà mediali corrotte e destinate a mascherare il reale delle cose, l’autentico, il “mondo al di sotto”, puro, da guardare con nostalgia.
Tigella è Claudia Vago ed è una protagonista di Twitter. Ha 18000 followers, “racconta storie che vede”; esperta di comunicazione e social network, svolge un ruolo non solo di reporter e produttrice di contenuti, ma anche di social media curator: vaglio delle fonti di informazioni, gestione delle liste, attenzione agli hashtag. Twitter è uno dei canali attraverso cui svolge il proprio lavoro: comunicazione puntuale, dialogo, confronto, e poi anche chiacchera e racconto di sé, divertimento con chi, in questa rete, da follower si è fatto amico.
#amourdeuxpointzéro è la sua “ultima scemata”, come è lei a scrivermi: scherzosa, irriverente, giocosa. Occasione per riflettere: il gioco, e credo in questo stia la sua bellezza e la sua efficacia, è mettere insieme il linguaggio dell’amore, l’autentico per definizione, a una realtà fatta di profili, nickname, tweets, avatar e ruoli.
Chiedersi che cosa ne direbbe Débord è una provocazione volta a porre in rilievo il “mondo come rappresentazione” in una realtà, quella attuale, in cui alle maschere sociali, al vestito, allo stile, alla figura, e dunque all’ineliminabile consapevolezza che necessariamente ci diamo agli altri affidandoci a una mediazione sensibile, si affianca l’ulteriore componente mediale rappresentata dal nostro moltiplicarci in identità virtuali, profili Facebook, account Twitter.
È uscito di recente un bellissimo testo di Barbara Carnevali, Le apparenze sociali. Una filosofia del prestigio, nel quale la filosofa sottolinea la necessità di indagare il rapporto tra essere ed apparire e il commercio con il sensibile, che è quel consente agli essere umani di entrare in relazione.
Il testo parte da una certa tradizione che ha letto nella realtà sociale fatta di immagini una forma di alienazione e corruzione d’uno scambio altrimenti autentico: Débord, appunto, ma anche Rousseau o il tempo perduto di Proust ad inseguire il prestigio.
Restituire con competenza la malia del prestigio descritta nelle pagine proustiane non significa però condividere la nostalgia romantica per l’autentico che attraversa la Recherche, ma più semplicemente offrire esempi del potere delle figure sociali, mostrare come non sia possa liberarsi dalla necessità di darsi una forma o pensare che il codice delle apparenze non strutturi la realtà sociale nella quale ci muoviamo.
La mimesi è fenomeno universale, non riguarda soltanto il desiderio di imitare lo stile, possedere l’oggetto o il comportamento (status symbol) che consenta una sorta di accrescimento ontologico (dal possesso dell’oggetto, come sottolinea Girard in Menzogna romantica e verità romanzesca, ci si attende una metamorfosi radicale del proprio essere), ma anche la possibilità di comprensione del “dentro” dell’altro, peraltro già inscritta nella nostra mente, con i neuroni specchio che ci ricordano il ruolo dell’imitazione nella strutturazione del sentimento di empatia.
Il merito di questo testo, allora, è duplice: non soltanto prendere sul serio il mondo delle apparenze, rivendicando la necessità di indagare la società come fenomeno estetico, ma insieme archiviare il sospetto morale per il quale quel che è virtuale, maschera, profilo, sembra inevitabilmente artificio, menzogna, altro da un presunto sé garante del vero che se ne starebbe al di sotto, nascosto da qualche parte.
Ogni immagine è oggetto di valutazione, ogni giudizio è un giudizio di gusto: il monde, spazio come percepibilità pubblica, è attraversato da un gioco dialettico tra il percepire e l’essere percepiti, tra l’esposizione e l’alienazione, gioco che mette in campo i sensi, l’impressione e la figura, il modo in cui gli individui si offrono allo sguardo dell’altro, attorno a cui si costruisce la reputazione. E tuttavia, come scrive Barbara Carnevali, non abbiamo ancora pensato la necessità – e non l’innocenza – delle mediazioni. Perché amiamo lo spettacolo e non spezziamo le catene delle apparenze? Qual è il nostro rapporto con le immagini che produciamo e che interponendosi tra noi e gli altri costituiscono la nostra realtà sociale, realtà che può anche sfuggire al nostro controllo?
È il sospetto romantico: le immagini ci fanno esistere fuori di noi e possono esserci sottratte, da qui il bisogno sempre crescente di pubblicità, che non è altro, come scrive Barbara Carnevali, che la valorizzazione della percettibilità soggettiva nella sfera estetica.
Agire sul sensorio, manipolare la percezione collettiva diventa allora un modo non tanto per avere i nostri cinque minuti di popolarità, ma per essere i creatori della Marylin che siamo: oggi l’esposizione pubblica può essere trasformata nella forma attiva di rappresentazione di sé non solo attraverso l’abito che scelgo di indossare o il gesto, ma anche attraverso l’immagine profilo, i like o i retweet.
Comunicare, conoscere, e insieme sedurre e farmi desiderare: “lo sguardo dell’altro ci perseguita nella forma di un pensiero”.
“Nessuno di noi rimprovera alla pelle di non essere il cuore”: prima di gettare le maschere allora, o prima di pensare che sia necessario farlo, dovremmo assumere su di noi la certezza che non ci diamo che attraverso di esse e prendere in considerazione lo scarto e l’inevitabile alienazione che ogni espressione, ogni segno, porta con sé.
Dovremmo cioè guardare alla società nella sua essenza estetica, poiché sono la misura e le modalità di tale alienazione che devono essere indagate: i fenomeni di estetizzazione sono fenomeni strutturali. Nella società democratica di massa la differenza rispetto alle società aristocratiche del passato allora, come è detto con chiarezza da Barbara Carnevali, risiede da un lato nel fatto che tutti rivendicano il privilegio di apparire, e dunque che tale massificazione della cultura impone nuovi contenuti volgari e una trasformazione dei criteri di definizione del gusto; dall’altro che questo capitale simbolico assume un potere economico sempre più determinante.
Il potere agisce anche per via estetica, attraverso il dominio della dimensione immaginale che genera desiderio e amore, la sottomissione volontaria del suddito, alienato dall’illusione e ammaliato dall’aura.
Siamo iscritti nella rappresentazione del mondo, lo comprendiamo attraverso i segni esteriori.
Smarcarsi dall’eredità platonico-cristiana che condanna la società delle apparenze esprimendo rimpianto per un originario autentico, significa darsi la possibilità di comprendere questa “costellazione di percetti” che si impone tra i soggetti e media il loro rapporto, così che si possa avere coscienza del ruolo e del potere che diamo all’Altro in questo desiderio di esserci e essere visti: “se io mostro di non percepirti tu non esisti”.
Il rischio e la sfida sono sempre quelli di essere afferrati e travolti dalla fascinazione dell’Altro. Copia, imitazione, quel che Stendhal denomina vanità e che ritiene responsabile di sentimenti come invidia e gelosia: il desiderio secondo l’altro è sempre desiderio di essere un altro.
Credo che questa sia la riflessione che più ci riguarda oggi, quando anche le forme del disagio contemporaneo ci mettono di fronte allo strapotere della realtà esterna, mostrandoci maschere identificatorie e desoggettivate che realizzano il soggetto come indiviso, cristallizzato. Maschere-corazza per dirla con Wilhem Reich.
Come scrive Massimo Recalcati ne L’uomo senza inconscio, la stessa arte femminile dell’abbigliarsi si basa sulla differenza tra l’essere del soggetto e il suo sembiante sociale: si può giocare con la maschera solo se questa non coincide con l’essere del soggetto.
Il punto allora è avere coscienza della misura della propria, inevitabile, alienazione, valutare il desiderio di riconoscibilità e di esposizione che mettiamo in atto sui social network o standone fuori (dal momento che “fare il contrario degli altri è un modo di imitarli”, come dice Tarde).
Dovremmo imparare a giocare con la nostra visibilità sociale come con i vestiti e con le foto profilo. E soffriamo pure se qualcuno ci unfollowa senza ragione. In questo universo di flussi mimetici, in gioco è il nostro effetto sociale. Come ci dice #amourdeuxpointzéro, l’amore è anche amore per quel velo che ci protegge e rivela, come un abito.
Se le apparenze sono costitutive, è opportuno servircene come una possibilità per iscriverci nella realtà sociale, relazionarci agli altri, e, talvolta, anche solo con piccoli scarti, stupirli.