S. Lelio, “Gloria Bell” / Gloria & Gloria
Non credo che il regista cileno Lelio, al suo settimo lungometraggio, possa essere definito soltanto l’autore di un cinema dedicato alle donne. È vero, le sue storie nella maggior parte dei casi mettono al centro una protagonista, come accadeva anche nel lavoro fino ad oggi più bello Una donna fantastica (Una mujer fantástica, 2017, Orso d’Argento per la Migliore Sceneggiatura e Oscar come miglior film straniero), o nella prima versione di Gloria (del 2013, miglior attrice protagonista a Berlino: Paulina García), o, ancora, in Disobedience (2017). Tuttavia la definizione resta riduttiva, generica e paragonabile, per ambiguità o confusione ideologica, alle situazioni in cui si incontra l’espressione “al femminile” (un cinema, una letteratura, una rassegna, un insieme di testi) in risposta a un bisogno di precisare che di solito funziona a senso unico, perché non agisce anche al contrario (non si sente la necessità della determinazione “al maschile” quando registi o autori in gara, in esame, o a convegno, poniamo, sono tutti uomini). Gloria Bell, insomma, ci fa vedere la forza di volontà di una donna, ma questo non significa automaticamente che parli di donne e basta, anzi.
Prima di tutto, forse, Gloria Bell ci parla di un bisogno forte di tornare a costruire sguardi e narrazione intorno a una storia già nota, perché il film è un remake. L’azzardo creativo del film vive proprio di questa fiducia in una rigenerazione e in una riscoperta della visione.
In Gloria Bell, difatti, Lelio rifà un suo film di sei anni fa, cambiando cast e ambientazione ma ripetendo la medesima struttura, a parte minimi interventi (non siamo più in Cile, ma a Los Angeles; Gloria adesso ha una bizzarra madre che ogni tanto si prende cura di lei, non la cameriera). Quasi tutto ritorna: stesse battute, stesso modo di piazzare la macchina da presa per riprendere i personaggi. Come un disco che si ripete. E come la canzone che dà il titolo al film: scritta e interpretata da Umberto Tozzi nel 1979, diventata un successo internazionale, ricantata da Laura Branigan e da lì ripresa in The Wolf of Wall Street e in Tonya. Lo stesso disco, la stessa canzone: lo stesso impasto, per chi ripensa al testo, di volontà euforica e malinconia per una mancanza. E ancora, girando in tondo, la stessa storia, senza soluzione di continuità. Gloria (Julianne Moore), una donna vicina ai sessant’anni, con due figli grandi e autonomi, è una persona piena di coraggio e vitalità, come la Disco Dance anni Settanta che ama ballare (il primo spazio in cui la incontriamo è una discoteca: «Balli da sola?», le domandano. «No, per conto mio» risponde Gloria). Il cognome stesso, aggiunto nella seconda versione, è un nome parlante, anzi risuonante: Bell, “campana”. Gloria non si ferma, non si limita a cantare e ballare, ma “sente la musica”, la fa suonare dentro di sé, e in questa maniera riesce a affrontare e attraversare le sue crisi: il vuoto lasciato dalla famiglia che ha cominciato nuove vite, e, più avanti, il trauma di un nuovo amore che la abbandona. Cosa c’è di nuovo, di originale, di interessante, in questa serie di fatti vista, rivista, e sentita così tante volte, proprio come un disco ballato all’infinito? Si può tentare una risposta paradossale: quello che c’è di originale, in questa musica che si ripete, è quello che non suona, la vita dei sentimenti afoni, senza voce, senza suono.
Se proviamo a fissare una costante forte del cinema di Lelio, ripercorrendo una filmografia composta da sette importanti lavori, un elemento ricorrente, infatti, e che funziona come una sorta di cifra autoriale, è l’indugio della narrazione su quella che si potrebbe chiamare una forma visuale di eloquenza muta. I film di Lelio (e il discorso vale anche per i primi lavori: La sagrada Familia, Navidad, El Año del Tigre), sono pieni di corpi che lottano, scappano, cantano, si spogliano, fanno l’amore, ballano, si picchiano. La scena dà spazio, continuamente, ai corpi guardati e raccontati nella loro fisicità; ma quello che resta di più, oltre la visione, grazie al modo in cui la macchina da presa indugia sui volti, sulle smorfie, sui tempi morti, o grazie alla fotografia e all’uso della penombra, o al montaggio che dilata certe scene facendole durare più del previsto, quello che resta di più, è il senso del silenzio, o, al contrario, ma specularmente, la forza di espressione delle ragioni taciute, delle emozioni non dette, e che allora ci parlano, ci interpellano, in maniera muta, talvolta attraverso la presenza enigmatica di un animale (una tigre, un cane, un gatto). Per raccontarci dunque un mondo che si rompe sempre, e traumaticamente, ma, in un certo senso senza far rumore, aprendo voragini di silenzio nei protagonisti e nelle protagoniste, che a volte ce la fanno, altre volte no, restando allora opachi, enigmatici, ma senza essere, per questo, personaggi meno significativi.
Gloria Bell non è bello come Una mujer fantastica, di cui si riattivano comunque alcune linee forti, almeno tre, tutte presenti già nel film del 2013, in un sistema incrociato di rispecchiamenti (tra Gloria, Una donna fantastica, Gloria Bell, e pure Disobedience) che quasi sembra funzionare come una metafora su cui girare e ballare ancora, senza smettere; un po’ come succede nella canzone di Tozzi/Branigan, dove il nome della donna desiderata, e perduta, scandisce un richiamo sempre più insistito, quasi l’ossessione per un’assenza. Anzitutto, infatti, anche in Gloria Bell torna la focalizzazione su un’identità in cambiamento, che muta proprio mentre vive, in maniera conflittuale, un amore proibito, ovvero impedito e negato da un sistema circostante soffocato da regole e convenzioni; poi, la scelta di rappresentare questa trasformazione inscenandola dentro una situazione di perdita, ma guardando reagire i personaggi lasciandoli più silenziosi che si può, senza dare loro le parole per dire; e, infine, l’attenzione a far esistere, cinematograficamente, l’elaborazione di un lutto, ora reale, ora simbolico, costruendo la storia dentro una vicenda essenzialmente normale, comune. Tant’è vero che in Gloria Bell, in un certo senso, sembra non accadere nulla fino agli ultimi venti minuti. La macchina da presa segue le solitudini della protagonista, documentando i suoi gesti quotidiani (prendere i sonniferi per dormire, andare al lavoro, cantare mentre guida, fumare al buio distesa sul tappeto), la sua normalità: precisamente la normalità di qualcuno che di solito sta ai margini e che invece il cinema di Lelio mette al centro, ma facendolo stare lì, facendolo vedere agire senza una particolare enfasi.
Ecco allora che, rispetto a queste scelte di sguardo, la definizione di Gloria Bell come un cinema che racconta le donne convince anche meno; perché, a pensarci meglio, il personaggio di Arnold (John Turturro), vale a dire dell’uomo che comincia una storia con Gloria ma che, di fatto, non ha il coraggio di ricominciare una nuova vita, e così scappa, in un certo senso facendosi fuori, non è meno intenso. Anzi, forse, nel suo dolore senza parola, è la figura più sfuggente e struggente di tutte, e sembra quasi contenere la verità più segreta del film, come la ragione stessa di un rifacimento che, da un certo punto di vista, sembra il gesto disperatamente vitale di qualcuno che ha bisogno di raccontarci la stessa storia, o lo stesso cerchio di malinconia. È vigliaccheria quella di Arnold, che fugge da Gloria pur amandola? Non possiamo dirlo, perché il film mostra il personaggio solo lavorando sulle sottrazioni e le mancanze, senza dire. Gloria Bell non racconta solo un’identità femminile che rielabora un trauma e rinasce: questa, forse, è solo la vicenda più evidente, ma non è detto che sia la più complessa. Di certo non è l’unica, perché Arnold indossa un modello di mascolinità, e, come anche negli altri film di Lelio, un modello di paternità fantasmatica che ci lascia non riconciliati, anche fuori dal cinema. Come se il punto di strappo fosse lì: sul suo volto incapace di spiegare. Arnold, mentre tutti parlano, è sempre più ammutolito dallo strappo senza elaborazione tra il suo io passato e la sua identità e i suoi desideri presenti (lo racconta il particolare dell’operazione per la perdita di peso, o quello della riconversione della sua professione di soldato in gestore di un parco giochi di combattimento). Con le sue figlie obese e nullafacenti che stanno soltanto a casa, con la madre, e telefonano al padre per colpevolizzarlo e chiedergli di tornare, Arnold rimane, scenicamente e drammaturgicamente, in uno spazio di soglia da cui non sa emanciparsi, senza riuscire né a tornare indietro completamente, né ad andare avanti. Come il suo alter ego fantasmatico, che non vedremo mai, vale a dire il vicino di Gloria che, dalla casa di sopra, prende a pugni le pareti e urla da solo contro una donna che lo avrebbe rovinato, Arnold impersona un maschile bloccato all’azione, infragilito da una forma di femminilità chiusa tra le pareti domestiche, insaziabile e bisognosa, che è anche il risultato e il riflesso mostruoso di una virilità patriarcale, che ci si trovi in Cile o in Nordamerica cambia poco, abituata storicamente a identificarsi solo nella guerra e nel comando.
Gloria Bell è pieno di padri: oltre a Arnold, l’ex marito della protagonista, il figlio, il fidanzato della figlia. Continuamente questo film traccia, senza riempirle mai, figure possibili di nuovi padri. L’attesa, come la malinconia, non è finita.