Speciale

Insegnare le parole / La lettera sovversiva. Da don Milani a De Mauro

22 Dicembre 2017

Come spesso avviene nel confronto con una figura importante, dalla vasta eco e dagli effetti di lungo periodo, è un libro di storia che può dipanare un groviglio discorsivo e polemico intricato. Il che è tanto più vero se i nodi sono la scuola, l'impegno personale e collettivo e la storia dell'emancipazione delle classi subalterne e se incrociano comunismo, cristianesimo e i processi di trasformazione della società dagli anni Sessanta in poi, per poi detonare con potenza in quel Sessantotto di cui ci apprestiamo a rammemorare il 50° anniversario.

Così Vanessa Roghi, storica del tempo presente, della visualità e dell'immaginario, ha scritto La lettera sovversiva. Da don Milani a De Mauro, il potere delle parole (Laterza, 2015): «la storia di Lettera a una professoressa e della battaglia per la trasformazione della cultura da strumento di oppressione a elemento indispensabile per l’evoluzione democratica e civile del nostro Paese». Una storia culturale e sociale, degli intellettuali e dei movimenti, storia di testi, contesti e s/fortune da cui difficilmente si potrà prescindere.

 

Il libro, scritto con energica freschezza e un alto tasso di leggibilità, induce a riconsiderare una serie di visioni e convinzioni, talvolta infondate, sbagliate, disoneste, che hanno fatto di don Milani un simbolo abusato.

Il primo ripensamento è relativo alla figura santinizzata e oleografica di Lorenzo Milani. Non un fungo alieno spuntato su una montagna remota, come talvolta capita di sentire raccontare, ma il diamante grezzo e scheggiato di un più vasto giacimento minerario, venuto alla luce in seguito a sconvolgimenti tellurici. Nello specifico, una figura che emerge dallo sfondo familiare e geografico, le cui vicende si incrociano con altri protagonisti della realtà fiorentina e toscana del dopoguerra: il tempo difficile della ricostruzione e delle promesse mancate, del radicalismo sociale legato allo sviluppo del mondo contadino e operaio, dei La Pira e dei padre Balducci. Nel contesto e al centro di una rete di relazioni, si staglia la figura di un sacerdote cattolico militante, di provenienza intellettuale e alto-borghese, animato da sentimenti anti-classisti, nemico dei ricchi e anticomunista, disobbediente e ostile al bellicismo e all'autoritarismo, ingombrante per l'istituzione di cui era rappresentante. Un uomo che poteva essere duro, con tratti anche antipatici e autoritari, consumato dall'amore per i poveri, animato dallo spirito di missione che accomuna molti cristiani radicali, ebbri del divino.

 

Negli anni del boom di produzione, consumi e comunicazioni di massa, comincia la trasformazione antropologica dell'Italia e si attua la riforma della scuola media unica (1962) con le sue lentezze e contraddizioni: a Barbiana, il borgo misero e isolato in cui è stato confinato dal 1954, Lorenzo Carlo Domenico Milani Comparetti scopre l'analfabetismo dei poveri e il loro mondo ruvido e sofferente. Da qui, dalla fondazione di una scuola alternativa per emarginati e dai tanti bisogni a cui cerca di essere una risposta, nasce Lettera a una professoressa, pubblicata nel 1967 quando Milani, malato da tempo, è già morto. Quel libro è il racconto di un qui ed ora che nasce da un disagio e dalla protesta per le ripetenze nella scuola, bocciature seriali ascrivibili a differenze di partenza e privilegi di nascita, e si fa denuncia per l'ingiustizia che consiste nel «far parti uguali tra disuguali». Ha scritto Fortini che «quel che ci fa tenere il fiato è quel passaggio [...] al tema della rivoluzione salvezza. Dico subito: è un salto non un passaggio. Al posto del passaggio c'è un uomo, una disperazione, una “mano tesa al nemico perché cambi”, la coscienza delle disuguaglianze, la coscienza. C'è una precettistica stupenda, una retorica di forza classica. Una fede e una letteratura. Non una politica». È dunque una dichiarazione di guerra di classe, non un intenzionale manifesto politico né un organico programma pedagogico.

 

La Lettera è scritta in modo cooperativo e collettivo dai ragazzi di una scuola full-time e pluriclasse disagiata di montagna, su un modello che Milani ha appreso da Mario Lodi: è la sua forma dunque, oltre al contenuto, a determinarne la fortuna e a trasformarlo in un programma metodologico e politico. Da Barbiana, grazie a un profilo di attivismo pedagogico che Milani condivide con altre esperienze di scuola pubblica e democratica, risuona ancora oggi l'invito alla dimensione collaborativa, in cui il talento e l'intelligenza di tutti riescano a essere complementari e a costruire socialità e discorso. Non il 6 politico né la mediazione al ribasso nel gioco dei veti incrociati, ma il fatto che insieme si veda qualcosa che da soli non si riusciva a vedere. Come ha ben sottolineato Franco Lorenzoni, la dimensione collaborativa nella scuola è centrale, contrasta il primato dell'individualismo e della logica della performance che sta nella dimensione agonistica e competitiva della scuola gentiliana, incentrata sulla soggettività-maestra del docente, e neo-liberista, che insegna a primeggiare e a inseguire le logiche del ranking.

 

 

Il libro di Vanessa Roghi ricostruisce la storia degli effetti (e degli affetti) di questo «libro che produce comportamenti nuovi»: Lettera a una professoressa è un messaggio in una bottiglia incendiaria che suscita da subito entusiasmi, dubbi e critiche, rimescola carte e schieramenti e diviene presto il testo “cinese” e movimentista che viene letto anche per quello che non è, trasformato in manifesto in cui il movimento studentesco riconosce una chiamata alle armi dell'impegno. Come ha scritto Alfonso Belardinelli si tratta di «un libro sulla scuola che si trasforma in pamphlet antiborghese, in un manuale di morale cristiana militante, in un trattato sull'uso della lingua e della cultura scritta che è considerata la più sorprendente invenzione saggistica della seconda metà del secolo». Un libro che attira cattolici e comunisti, studenti, docenti, educatori e pensatori sociali di tutto il mondo (Freire e Anders ad esempio) al punto da essere tradotto in molte lingue, e che magnetizza in definitiva chiunque sia interessato all'educazione cooperativa e anti-autoritaria. Un capitolo del libro è dedicato proprio a questa ricezione extra-italiana che porta aria fresca in un dibattito spesso stereotipato.

 

Non da oggi infatti molti opinionisti parlano di scuola quasi sempre a partire dal loro liceo classico d'antan e da qualche episodio di storia familiare, trascurando i dati della ricerca storico-sociale e la letteratura specialistica. Il libro di Roghi è un'antitesi di questo, frutto di un lavoro di ricerca che riporta con sensibilità storica e documentaristica le recensioni, le lettere e gli incontri tra persone che sono legate all'esperienza di Barbiana. La Lettera diventa così il caleidoscopio per vedere la comunità che lo ha prodotto e le soggettività che lo hanno recepito e usato: si tratta dunque non solo di un lavoro di inquadramento ben informato ma di una storia dell'educazione nell'Italia repubblicana, un felice esempio di storia culturale recente per la tessitura di documenti fatti interagire.

 

Il cuore pulsante de La lettera sovversiva è nel suo portato politico: fare una storia dell'educazione cooperativa, collaborativa e anti-autoritaria significa anche mostrare la tensione verso la piena formazione della personalità dentro la comunità garantita a tutti, sancita dalla carta costituzionale.

Sfilano dunque nelle pagine di Roghi i tanti protagonisti del Movimento di cooperazione educativa, Gianni Rodari, Mario Lodi, Bruno Ciari, Emma Castelnuovo, Dina Bertoni, Lucio Lombardo Radice, Carla Melazzini, il gruppo GISCEL le tesi per la linguistica democratica e Tullio De Mauro (ma la lista è incompleta) e, silenziosamente, migliaia di maestre e professoresse, il meglio della vocazione al cambiamento della scuola italiana degli ultimi cinquant'anni.

In questo senso le pagine di Roghi testimoniano contro il movimento di opinione variegato, conservatore e reazionario nei fatti, che a partire dagli anni Novanta in poi ha attribuito in un vago “donmilanismo” la responsabilità della (presunta) decadenza della scuola rispetto al bel tempo che fu. La Lettera è stata infatti anche un pretesto per fustigare costumi e regolare conti con la storia. La tesi è nota: la decadenza della scuola è fatta risalire alla cultura libertaria del Sessantotto che avrebbe cancellato il senso del dovere, della fatica e del merito. È opinione di chi scrive che, al contrario, quel periodo abbia costituito un argine importante contro pratiche didattiche autoritarie e deteriori, che hanno prodotto gli analfabeti funzionali adulti di oggi e i cui echi non sono peraltro scomparsi. «Come se la scuola sia stata la causa dell'ampliarsi di un certo analfabetismo e non il rimedio», scrive Roghi.

 

Sono tanti i detrattori della Lettera secondo cui l'“egualitarismo” di don Milani, Rodari, De Mauro e l'attenzione pedagogica agli aspetti sociali dei processi cognitivi avrebbero “distrutto” la scuola italiana. Un mondo mentale che per limiti psicologici, ideologia o malafede sembra incapace di vedere il legame tra scolarità e democrazia e di cogliere l'ingiustizia che vede ancora in molti, troppi, contesti la scuola come un luogo di trasmissione delle disuguaglianze tra le generazioni e di riproduzione delle differenze sociali di origine. A maggior ragione nel presente in cui la mobilità sociale possibile è quella verso il basso e in cui la scuola è nuovamente una realtà che, nelle sue linee di tendenza, crea eccellenze e ghetti sulla base della provenienza socio-culturale. Sono tanti i dati che lo confermano, tra tutti quelli sui percorsi di scelta dalla scuola dell'obbligo alle scuole superiori e sulle iscrizioni all'università

 

Dunque, barbianamente, quello di Roghi è un libro sulla responsabilità politica: un «voler male a qualcuno o a qualcosa» che diventa «una mano tesa al nemico perché cambi». E anche un invito a pensare la scuola come luogo in cui «ognuno» impari a essere «responsabile di tutto». Una classe e una scuola, docenti e ragazzi, sono soprattutto un laboratorio di democrazia e di convivenza. È qui che si impara cosa è ingiustizia e cosa si può fare per riparare il torto; oppure si impara a a ignorarlo. Ne va dell'inclusione più ampia possibile e della possibilità della partecipazione allo spazio comune che la scuola deve saper insegnare e promuovere. Ne va della dimensione etica e di risposte che devono sapere essere collettive: «il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia», leggiamo nella Lettera.

La lettera sovversiva è quindi una professione di sincera filologia, in senso letterale: il vero oggetto del libro è il potere della parola e, il suo insegnamento, come programma democratico. «Tutti gli usi della parola a tutti, […] perché nessuno sia schiavo», sintetizzava Rodari, e il lavoro di Roghi, sulla base del programmatico «agire sulla parola per cambiare i rapporti di forza tra esseri umani», espande le tante declinazioni di quel motto: insegnare la parola a chi parole non ha, usare la parola come fosse usata per la prima volta, dare il tempo di cui le parole necessitano, togliere la vergogna dei subalterni nel prendere parola, difendere le parole dalla degradazione del linguaggio nella sfera pubblica, avere cura delle parole e avere caro chi le insegna. 

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