Una (piccola) questione privata

25 Aprile 2014

“non è questione di pazienza, ma di pelle”.
Beppe Fenoglio


“Resistere” contiene la particella re, addietro, e sistere, con il raddoppiamento della radice di stà-re, star fermo, star saldo. E per farlo, deve essere chiaro ciò che si è, da dove si parte, dove si vuole andare e, soprattutto, cosa non si vuole diventare.


I miei Venticinque Aprile si sono assomigliati per molti anni. Sì svolgevano tutti lì, in Piazza XX Settembre, a Melara, di fronte a quella torre campanaria che era stata un pezzo di un castello che ora non c’è più, mezzo edificio fortificato, mezzo luogo religioso, con mio padre in fascia tricolore che faceva il discorso dopo la messa in memoria dei caduti. Dopo venti anni di mandato come sindaco, era un habitué.

 

Eppure, il 25 aprile era un giorno faticoso per lui, che con la Seconda Guerra mondiale aveva un conto aperto, una questione privata: mio nonno, volontario in Albania, scelse un convoglio postale per tornare nell’Agosto del ’43, sia per il compleanno della moglie Egle, sia, soprattutto, per conoscere il primo e unico figlio. I convogli postali erano i più sicuri. La nave finì sul fondo dell’Adriatico e mio nonno nell’elenco dei caduti della II guerra Mondiale. In quei discorsi da sindaco però mio padre aveva sublimato tutto questo: ci metteva solamente la dimensione pubblica: il senso civico, il valore della giornata, forse la più importante del calendario.

 

Valeria Verdolini, Melara

 

Le parole erano scelte e misurate, ora le citazioni dei Costituenti, ora brani della Costituzione. Era un omaggio, un riconoscimento, il suo, per quello Stato che era finito a fare le veci della famiglia che era venuta a mancare tra le pieghe della storia. Ogni volta, conclusa la cerimonia, mentre tornavamo a casa a pranzo, lui evocava la vicenda di Livia Bianchi, partigiana del paese, medaglia d’oro della Resistenza, che, spostatasi in Piemonte, vedova di guerra con un figlio piccolo, aveva scelto di lasciare il bambino ai nonni e di unirsi alla lotta antifascista.

 

Livia era diventata “Franca”, staffetta nella 52esima Brigata Garibaldi. Nel 1944, per sfuggire alla cattura insieme ai compagni, si rifugiò in una baita all'Alpe vecchio. Riuscirono a sopravvivere fino a metà gennaio 1945. Stremati, scesero a valle rifugiandosi in casa di un antifascista loro conoscente. Una soffiata portò all’arrivo dei militi. Alla compagna “Franca” fu offerta la grazia e la libertà poiché donna e madre. La questione pubblica era più forte della questione privata. Livia Bianchi rifiutò, per la sua dignità di donna e di partigiana, restando unita ai compagni e accettando la fucilazione. Mio padre ha sempre criticato la scelta della partigiana compaesana, perché sapeva bene il significato di quell’assenza, il prezzo del volontarismo. A me, tuttavia, ha sempre affascinato questa figura, la lapide sottile in fondo al cimitero, dove ogni tanto l’8 marzo qualcuno porta la mimosa.

 

Quella scelta deliberata di far prevalere la dimensione politica sulla vita, sul futuro, è una scelta che non so se avrei fatto, ma della quale vivo le conseguenze e la suggestione. E non può essere altrimenti, perché per me il 25 aprile è sempre stato un insieme di storie e, soprattutto, una lenta, graduale costruzione del senso civico. Perché io ho vissuto un’unica grande esperienza nei miei trentadue anni: la democrazia; ed è stata un’idea quasi scontata, qualcosa di endemico, un pezzetto del mio vissuto.

 

Valeria Verdolini, Melara

 

Negli anni si è sedimentato un forte senso di rispetto per la giornata, che mi ha portato a celebrarla in tutte le città in cui ho abitato, raccogliendo i pezzetti degli avvenimenti del nostro paese, prima la forza e il vigore con cui la liberazione è stata declinata a Bologna, sulle colline di Montesole e Marzabotto tra percorsi di pace, memoriali e salamelle; poi nel rigore di Milano, che ha dato lo spunto per la data. In quel corteo che parte da Porta Venezia c’è sempre quella sottile tensione, c’è sempre un momento in cui ti volti indietro per intravedere, da lontano, piazzale Loreto. Non solo.

 

Il 25 aprile si è accresciuto di significato quando ho iniziato a visitare quei luoghi in cui la libertà difetta: le carceri, gli ospedali psichiatrici giudiziari, i CIE, dove è sempre un 24 aprile, dove ogni volta manca qualcosa a completare il percorso di tutela e di garanzia dei diritti. Il 25 aprile è diventato imprescindibile in tutti quei momenti di questi anni in cui la Costituzione e le istituzioni sono state strattonate, in cui le battaglie di civiltà sono state insabbiate da forme bigotte di controllo e discriminazione dei cittadini e delle cittadine, dei migranti, degli esclusi. Sono stati giorni in cui la repressione è stata esercitata come mero esercizio discrezionale del potere, giorni in cui il calendario indietreggiava, al 20 Aprile, al mese di Marzo, rendendo il progetto democratico qualcosa di lontano, opaco.

 

Poi è arrivata la Tunisia. Anche quest’anno, come l’anno scorso, passerò il mio 25 aprile qui, senza canti, discorsi, polemiche e salamelle. Il 25 aprile tunisino si chiama 14 gennaio 2011. Sono passati solo tre anni. Tutti sanno dove si trovavano quel giorno. Ieri sera un ragazzo mi diceva che quel giorno “ è come se un’energia fortissima avesse scosso il paese dopo la partenza di Ben Alì. Sentivamo tutti una forza nuova, un senso di positività”. Quell’energia in questi anni non è bastata a fare di questo paese una vera democrazia. Ed è vero che potremmo parlare per ore di cosa significa essere una vera democrazia, dei modelli, dei rischi delle valutazioni.

 

In questi casi si agisce per somiglianza o per differenza. Ed io qui vedo un processo costituente (terminato a fine gennaio, con la votazione velocissima degli articoli della Costituzione che ricordava tanto la tombola alle feste di paese) che fa pensare a una democrazia legittima. Vedo l’introduzione della libertà di espressione, diritto civile assolutamente nuovo e inebriante, altro punto di connessione con l’idea di democrazia. Ho visto le elezioni libere il 23 ottobre 2011. Ci sono state procedure, formalismi, e poi campagna elettorale, candidature, code ai seggi e impronte digitali. Questo non basta. Perché scacciare il dittatore, obiettivo insormontabile, si è rivelato essere solo la punta dell’iceberg. C’è tutto un paese da ascoltare, da capire. C’è una pratica del rispetto dei cittadini, un apprendere a essere cittadini e a vivere la politica come spazio di crescita e non come momento di timore, che manca, che non c’è mai stata negli ultimi 150 anni.

 

Valeria Verdolini, Melara

 

La Tunisia è stata sempre governata da forme autoritarie: prima il protettorato francese, poi la dittatura illuminata di Bourguiba, poi gli anni durissimi di Ben Alì, le torture, la paranoia, il controllo costante di tutto e di tutti. Tre anni non bastano. Tre anni non sono bastati per impedire i due omicidi politici del 2013. Tre anni non sono bastati per smantellare l’apparato e le pratiche fasciste di uno stato di polizia, che continua ad arrestare, imprigionare a farsi corrompere, impermeabile al cambiamento politico e alla nuova carta costituzionale. Tre anni non sono bastati per aprire una vera transizione, per sistemare la storia, per offrire dignità alla memoria di un paese che dal 1954 ha visto i propri cittadini costantemente vittime delle istituzioni. Se il preambolo della neonata costituzione invoca il sangue dei martiri, il 12 aprile 2014 la Corte d’Appello del tribunale militare di Tunisi ha rivisto le pene e alleggerito le posizioni dei poliziotti e militari ritenuti responsabili dei decessi durante le manifestazioni. Impunità, ma non solo. “Non è una questione di pazienza, ma di pelle”. Tre anni tunisini che raccontano come il diritto, anche il migliore dei diritti, non può essere da solo un’arma sufficiente per arginare le pratiche illecite e gli abusi di potere.

 

Tre anni che narrano di come vi sia uno scollamento forte tra la liberazione e le pratiche di libertà, “che saranno successivamente necessarie affinché quel popolo, quella società e quegli individui possano definire per se stessi le forme ammissibili ed accettabili della loro esistenza o della società politica”. E non escludo che questo processo potrà avvenire in Tunisia. Credo che sia necessaria però una vera liberazione culturale, l’unica in grado di smantellare anni di violenza sistemica e politica attraverso le prassi, lo studio, il rispetto, la dignità. A questo penso oggi.

 

Penso a come il 25 Aprile non sia stata per noi la fine, ma sia stato soprattutto l’inizio di quelle pratiche di libertà, che proprio per questo, oggi più di ieri, dobbiamo continuare a proteggerle, sceglierle, definirle, costruirle Non c’è bisogno di essere eroi, semplicemente ricordarci di essere cittadini, ed arrabbiarci di fronte alle violazioni.

 

Penso a come non possiamo sentirci esenti o esclusi, o tutelati dal nostro passato, perché non basta. Il diritto, i diritti non sono sufficienti se non sono connessi con le quotidianità, con le relazioni con le questioni pubbliche e le questioni private, con gli esercizi di rispetto delle istituzioni e delle persone. A questo dobbiamo star saldi, resistere, “sentendo com’è grande un uomo quando è nella sua normale dimensione umana”. Buon 25 Aprile.

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