Carnet geoanarchico 12 / Appennino imprendibile

15 Aprile 2019

La domanda è semplice: esiste una letteratura appenninica come esiste una letteratura ligure o lombarda, o come si sente parlare di letteratura insulare e alpina? Direi proprio di no. L’Appennino è refrattario alle produzioni dell’immaginario, funziona più come ingombro geografico che come luogo della mente. E non dico che non esistano testi letterari sull’Appennino, voglio dire che per lo più si tratta di testi in transito, scritture che, prima o poi, vanno altrove. Prendiamo ad esempio l’Appennino settentrionale attorno alla sua cima maggiore, il monte Cimone. Siamo nel Modenese, tra il Bolognese e il Reggiano. Includendo il Parmense e il Piacentino è un blocco piuttosto omogeneo da un punto di vista geologico, culturale e paesaggistico, una vera Bioregione Nord-Appenninica, ma si tratta anche di una terra che, pensando alla letteratura, viene sbirciata quasi sempre da lontano. Rutilio Namaziano un accenno, Dante al volo sulla Pietra di Bismantova, Boccaccio un po’ più diffusamente sul Lago Scaffaiolo, una manciata di versi tra Shelley e Heine, un po’ Carducci, un po’ Pascoli.

 

Certamente abbiamo alcuni autori che riconoscono l’Appennino settentrionale come un luogo a parte, ad esempio Lazzaro Spallanzani (Viaggi alle Due Sicilie e in alcune parti dell’Appennino 1792), Antonio Stoppani (Il bel Paese 1874), Lorenzo Viani (Ceccardo 1922), Carlo Linati (A vento e sole 1939), ma sono pagine sparse, attraversamenti, vagabondaggi. Per avere un romanzo tutto appenninico dobbiamo aspettare Guido Cavani (Zebio Còtal 1961) poi, più tardi, verranno Francesco Guccini (Cròniche epifàniche 1989), Raffaele Crovi (Appennino 2003), forse Giovanni Lindo Ferretti (Bella gente d’Appennino 2009) e infine Sandro Campani (Il giro del miele 2017). Per quanto un po’ fuori area, io metterei sempre al primo posto il Dino Campana della Verna. Esisterebbero anche gli autori locali, i membri delle deputazioni di storie patrie, i curati di collina e montagna, i poeti amatoriali. Ma no. Una letteratura appenninica non esiste, e probabilmente non ce n’è mai stato bisogno. Quello che m’interessa, però, è capire perché. Perché questa invenzione mancata di un luogo? Che cosa non va in Appennino? 

 

 

Avevo cominciato a chiedermelo nel 1997 quando, con Francesco Benozzo, abbiamo pubblicato un’antologia di Viaggiatori nell’Appennino modenese tra Ottocento e primo Novecento. La nostra conclusione era giovanile e perentoria: «il paesaggio appenninico non ha fatto nascere un parametro del gusto, un modo peculiare di guardare le cose, uno stile», in primo luogo perché le Alpi hanno esercitato un’influenza abbacinante sulle arti, mentre nel paesaggio appenninico «non c’è grandiosità terribile […] solo delle monotone solitudini […] una terra deserta, desolata, addirittura noiosa che il turista e il grande viaggiatore, dopo le Alpi e in previsione della campagna toscana, senese e romana, non sentono alcun rimorso a ignorare». Poche vedute, insomma, e nessuna visione. Una zona mediana in cui si viaggia per forza e si guarda per caso, un’area transitabile completamente eccentrica, periferica, sottotono. Il figlio di un dio minore, insomma, l’Appennino. Ma perché? Si può dire qualcosa di più preciso su questa massa mancante dell’immaginario?

 

Il problema della percezione è centrale. L’Appennino non è sublime, non è eclatante, ha un tono discreto, a volte proprio dimesso, è difficile coglierne la specificità, un tratto fisionomico caratterizzante, non esiste un canone pittoresco al quale si accordi, la sua estetica, se c’è, è affidata al ciuffo d’erba, al rovo di more, non alla quercia centenaria. Se le Alpi sono un’Eneide, l’Appennino è un frammento di età argentea, un Claudiano, un Postumio, un Rutilio: la gloria repubblicana e imperiale è solo un ricordo e i Simmachi e i Nicomachi, al lume di una candela, si limitano a chiosare. Filologia dello sguardo, insomma.  Eppure chi lo conosce, chi lo frequenta, sa intimamente che dietro quel ciuffo d’erba sta pulsando un Altrove. È come una condizione di permanente crepuscolo, di luce scarsa, in cui la lettura delle forme diventa più difficile, mentre una specie di nostalgia, un senso di omissione, striscia come un’ombra dalle cose. Sembra insomma di avere a che fare con uno stato della materia che ha il sapore dell’estinzione, e se allora le Alpi sono una grande epica italica, l’Appennino settentrionale rimane una ballata celtica, è la torbiera molle dei racconti.

 

 

Quando si cammina per le sue terre, specialmente lontano dal Crinale, è abbastanza raro raggiungere un autentico belvedere, il panorama è corto, la vista è quasi sempre spezzata da una dorsale anonima, da una gobba boscosa, la finestra su un frammento in declivio si richiude subito con la svolta del sentiero. La condizione psicologica che si vive è quella di un movimento acentrico, non di una sosta, è un vagabondaggio dissipativo non una spedizione mirata. I luoghi si nascondono gli uni con gli altri, il dopo è molto simile al prima, la citazione è allusiva e invadente, il rizoma, l’intertestualità sono più metonimie che metafore. Da un lato quindi una crescente irrequietezza nostalgica, un’ansia di raggiungere qualcosa che non arriva e comunque la sensazione che ciò che si è appena abbandonato continuerà a pulsare ancora davanti a noi, dall’altro un senso di vaga impermanenza, di interruzione lontana. E mentre si camminano gli spazi, è sempre più evidente che si camminano tempi, durate storiche, penombre di epoche che somigliano a vecchie strutture di arenaria abbandonate da una generazione o da millenni. Vestigia, fustaie e rocce come megaliti, ruote di mulino come totem, polle primigenie, nevi preromane. Sono lì. Ma come esumarle?

 

Seamus Heaney ci dà una chiave di lettura. In Inghilterre della mente dice che la Gran Bretagna «di Ted Hughes è un paesaggio primordiale dove le pietre urlano e gli orizzonti resistono, dove gli elementi abitano la mente con un’energia religiosa, dove il ciottolo sogna di “essere feto di Dio”, “dove gli angeli passano fissandoti”». Scrivendo di Hughes, è come se Heaney scrivesse di se stesso: «si affida agli elementi nordici, all’elemento anglosassone pagano e a quello norvegese, e attinge energia anche da una costellazione parallela di miti e vedute del mondo primitivi. [La sua sensibilità] è pagana nel senso originario del termine: egli è cacciatore del pagus, un abitante della brughiera, un selvaggio; si muove tra le macchie al di là dell’urbs seguendo l’istinto; non è né urbano né civile. La sua poesia ha tanto l’odore della tana quanto della biblioteca». Certo, non tutto Heaney è così, ma molta della sua poesia lavora proprio per riconoscere sotto la pellicola rurale del presente le tracce di un’epoca eroica, gli strati carsici di una mitologia immanente. In Mossabaw, parlando della propria infanzia, di un grande faggio, dice: «In quella fenditura stretta avevi la sensazione dell’abbraccio di luce e di rami, eri un piccolo Atlante che reggeva tutto sulle spalle, un piccolo Cerunno, perno di un mondo di corna di cervo». Tra scriptorium e lucus, il suo senso del luogo. 

 

 

Allora ecco. La letteratura appenninica non esiste perché quasi nessuno ha saputo dare voce ai suoi non-morti, ai semidei che, come in un romanzo di James Stephens, camminano assieme agli umani lungo viottoli che non vanno da nessuna parte. Nessuno ha provato a scavare come Heaney mito, rito ed epopea dentro il gesto quotidiano del pastore e della mungitrice, o ha vangato il fianco di un’ondina nella roggia tra le eriche, o sondato nella torba la memoria di una terra intera, raggrumata nelle ossa di un cervo preistorico o in un fiocco di burro centenario. Non c’è stato, per l’Appennino, qualcuno che come Sergio Atzeni, sul modello di Texaco di Chamoiseau, abbia creato un’indimenticabile mitopoiesi sarda. Non ci sono stati né un Ghirri né un Celati lungo la Via dei Crinali. Così l’Appennino resta lassù, pieno di fantasmi, di cori sepolti, di archeologie mancate. Perché una mitopoiesi non si inventa su due piedi. E una letteratura di spettri, ectoplasmi e revenant non è cosa per tutti. Come si prende l’imprendibile? Con quali dita? Quali parole ci vorrebbero?

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