Sulla docuserie Netflix / Effetto San Patrignano
Pare un film intorno a un film, come in una trama distopica: c’è una nazione confinata a casa, al pari di tutto il resto del mondo; durante le feste natalizie, sempre più persone si mettono a guardare un lavoro dedicato alla famigerata storia della comunità di recupero per tossicodipendenti fondata nel 1978 da Vincenzo Muccioli (1934-1995). E più guardano, più restano catturati.
SanPa: luci e tenebre di San Patrignano è costruita come se fosse un docuthriller, che in parte ricorda altre esperienze americane, per esempio la serie Wild wild country (2018) dedicata a Osho, un po’ Making a Murderer (2015), perché narrazione e documentazione si fondono nella ricostruzione “appassionante” di un evento che ha provocato un trauma nell’immaginario collettivo. In SanPa ci sono materiali d’archivio e interviste a persone che hanno vissuto davvero quella storia, alternate alle riprese dei luoghi reali in cui si consumarono gli eventi; questo corpus, però, è dilatato e riconfigurato come se fosse una crime story, piena di colpi di scena, di suspense, e di un sistema di tagli e riprese che punta a lasciare senza respiro il pubblico. SanPa è una docuserie non solo perché è articolata in episodi, ma perché ci affama di serialità: ci avvince attorno al bisogno di consumare ancora narrazione, di sapere come va a finire, in un sistema che più è circolare e più ci appaga, proprio come accade nelle serie che funzionano meglio. Così, l’interesse con cui avevamo cominciato a guardare presto si muta, diventa speciale; come se ci si trovasse, d’un tratto, senza nemmeno essere stati avvisati, a smettere di osservare (come ci chiede di fare il documentario), per sentire, piuttosto, per rivivere quelle vite, e, finalmente, per partecipare a una specie di rappresentazione condivisa e collettiva. Un rito, insomma, perché la visione e la narrazione di SanPa producono qualcosa di ipnotico, di catartico o perfino di espiatorio. Anzitutto perché si riporta alla vista, impressionandola, una storia oscurata a lungo e che non è una vicenda qualunque, ma un pezzo di storia di una società e di un’epoca intere, e che dunque riguarda l’identità e la memoria collettiva (che possono essere cosa diversa dalla memoria pubblica e politica); in più, il senso di compiere un’esperienza insolita dipende anche dalla circostanza che tutto ciò accada, per via del confinamento da Covid, in una condizione, anche fisica e ambientale, che può farci vivere delle stranianti simmetrie. SanPa, infatti, racconta, a persone chiuse in casa a guardarla, senza riuscire a smettere, una situazione di coercizione, chiusura e dipendenza.
Se la verità raccontata da SanPa fosse soltanto quella di Muccioli, o di suo figlio Andrea, o dei genitori disperati, o di chi è rimasto a lavorare in comunità, o di persone come Fabio Cantelli, non si tratterebbe di un testo così potente. La prima qualità di questo lavoro – scritto da Gianluca Neri, con Carlo Gabardini e Paolo Bernardelli, per la regia di Cosima Spender – infatti, è la capacità di lasciare aperte le contraddizioni, e lasciarle fluire in maniera empatica, presentandoci un quadro pieno di tinte controverse che ci sprofonda in una sorta di trance.
Ho guardato SanPa due volte, continuando a trovare aspetti nuovi, talora anche ambigui, motivi attraverso cui ripensare all’importanza e alla narrativa che questa serie restituisce al sistema San Patrignano, come se gli procurasse tridimensionalità, e ci facesse rivedere, ripensare, rivivere, anche indirettamente, la sofferenza degli anni di maggior trionfo di Muccioli. Anzitutto, infatti, siamo davanti alla storia di un capo, un gigante dal corpo massiccio fondatore e detentore di un potere assoluto, e questo aspetto riguarda tanto il carisma individuale (che fonde la violenza del patriarcato contadino con elementi sciamanici della cultura pop), quanto il modo in cui si rappresenta il suo destino, costruendo una parabola romanzesca che asseconda una sintassi balzachiana già nei titoli dei singoli episodi (Nascita; Crescita; Fama; Declino; Caduta). E poi, ma forse anche prima, ci sono i tossici, la droga, il senso di mancanza di respiro che ci torna addosso dalla scoperta, o dalla memoria di quegli anni, anche per chi era piccolo. La droga è stato un fenomeno sociale, anche se di solito è stata trattata, allora come oggi, come una condizione individuale (di colpa, di caduta, di incapacità). E fare la conta di quanti sono morti per eroina negli anni Ottanta aiuta, certamente, a capire l’entità numerica dell’evento, ma non serve abbastanza, per spiegare, anche a sé stessi, la gravità del fenomeno, e il dolore normalizzato che era nell’aria, a vedere una generazione di fratelli e sorelle più grandi, di figlie, di parenti, di amici, “fatti fuori” come se nulla fosse. Corpi traballanti, ovunque, che avanzavano come zombie; corpi che adesso, guardando SanPa, sembrano risvegliati, tornati alla luce, proprio come dei revenants, che vengono a turbarci, a chiederci ragione di uno dei più grandi rimossi della storia d’Italia. Qui sta il trauma, il punto cieco.
Poche narrazioni hanno provato a non usare la tossicodipendenza come un cliché romantico, per restituire, invece, il senso di cosa fosse l’eroina in quegli anni, in Italia (penso a I giorni della rotonda, del 2009, di Silvia Ballestra, a Piccola città, 2018, di Vanessa Roghi; al bellissimo film di Claudio Caligari Amore tossico, 1983). Erano i sommersi, gli irrecuperabili, i drogati, appunto, di cui nessuno, tra le istituzioni, voleva occuparsi. E così arriva anche un terzo aspetto per cui ci sentiamo così coinvolti dal racconto di SanPa, che non testimonia, ma interpella le emozioni, tanto più in una situazione in cui le vite di tutti sono così infragilite dalla minaccia della malattia. La domanda che continuamente si costruisce, trattandola in senso drammatico, e senza cercare risposte chiuse, o responsabilità chiare, è, infatti, più o meno questa: fino a che punto una persona che sta cercando di salvarti può agire sulla tua vita e sulla tua volontà, usando controllo e coercizione? È il problema delle istituzioni totali, così come era stato discusso anche da Goffman, da Foucault, e, in Italia, da Franca Ongaro e Franco Basaglia. Colpisce, infatti, che il 1978, l’anno di fondazione della comunità di San Patrignano, sia il medesimo della Legge 180. Perché in quel momento Basaglia e Muccioli, oltre che modelli culturali opposti, non erano esperienze paragonabili; ma adesso, in prospettiva, lo diventano eccome, perché è come se la visione di Basaglia parlasse al passato (in quanto esperienza da superare) tanto quanto Muccioli parlava al futuro (non come progresso, ma come modo in cui sono andate le cose).
Ascoltando il giornalista Luciano Nigro, o Delogu, braccio destro di Muccioli, quando ci raccontano che ai duemila “ospiti” di San Patrignano corrispondevano migliaia di amici parenti e solidali che avrebbero votato Muccioli, diventa quasi scontato pensare che se fosse accaduto – se accadesse oggi – quello era già un partito. Perché un altro aspetto che si capisce molto meglio guardando SanPa è che la vicenda giudiziaria di Muccioli non è stata una tappa, un incidente in una storia più ampia, ma la cassa di amplificazione per la conquista definitiva di un protagonismo mediatico. La testimonianza di Paolo Villaggio, quando al processo disse «gli schiaffi di Vincenzo Muccioli sono gli schiaffi che noi padri progressisti non abbiamo mai saputo dare» ci impressiona, oltre che farci male, perché funziona non solo come capitolazione (di un genitore, di una cultura), ma anche come assegnazione a Muccioli, proprio da parte di “Fantozzi”, dell’alloro di icona pop. E non si tratta di una suggestione, perché il montaggio inserisce delle immagini cinematografiche che ci chiedono esplicitamente di compiere questa sovrapposizione. Ecco, infatti, uno degli aspetti più significativi di SanPa: il lavoro, straordinario, del montaggio, a tutti i livelli (immagini, suono, dialoghi). Venticinque testimonianze, centottanta ore di interviste e immagini tratte da cinquantuno differenti archivi sono ricomposti in un mosaico dove tutto è compatto e tutto sfugge a una definizione ultima.
Il corpo del racconto è fatto di tante voci, anche molto diversamente orientate, ma che, guardando all’insieme, parlano a nome di un’anima complessiva che è la coralità di esperienze votate al sistema assoluto di appartenenza a San Patrignano. Per sempre, forse, per come certe vite sono state segnate, o come accade nel tempo interiore delle esistenze spaccate da un trauma e che, anche quando vanno avanti, conservando tra gli abissi sotto la coscienza, là dove lavora il simbolico, una sorta di livello parallelo. Proprio di una presenza che persiste anche in assenza, di un non-luogo interiore abitato dallo squilibrio perenne, parla, così espressivamente, anche la camera d’albergo anonima, con la luce in penombra, da cui si rivolge a noi Fabio Cantelli, appoggiato sul bordo estremo di un letto su cui lo guardiamo e soffriamo per tutto il tempo, aspettandoci che possa cadere. C’è un passaggio, per esempio, in cui ci spiega non solo un’esperienza, ma il senso complessivo dell’operazione compiuta da SanPa: «l’illusione – dice Cantelli – è che (la droga) sia un problema che tocca il tuo corpo. Quello che invece non accetti, è che queste droghe sono entrate nella tua anima, cioè hanno cambiato la tua personalità. Per il tossicodipendente la droga è la vita; vuol dire che non basta disintossicarlo, vuol dire costruire un mondo alternativo alla droga che lo interessi, che lo coinvolga, che lo appassioni, che piano piano gli faccia scoprire una dimensione dell’esistere diversa da quella che ha perseguito attraverso la droga». San Patrignano è stato un mondo altro e totale, con al centro un salvatore. Nel coro di discorsi, solo la voce di Vincenzo parla a titolo individuale, ed esiste, come accade già nelle prime scene del primo episodio, perché è destinata e rivolta agli altri, al bene degli altri, come “verbo”, insomma. Il lavoro di montaggio, allora, non è solo mezzo, ma significante potente, forma perfetta di mimetismo del divismo avvincente di Muccioli.
Non c’è mai una voce extradiegetica che ci riporti a un mondo fuori campo. Anche per questo chi guarda sprofonda in un’esperienza filmica immersiva. Come un mare che ti promette un altrove ma che ti incorpora nel flusso indistinto di una corrente che ti porta via. Come una droga, la prima volta che ti fai: «Mi son ritrovato, io che ero di destra, assieme al fascista, al comunista, al brigatista: eravamo tutti in fila per prendere la nostra dose» (Walter Delogu, SanPa, episodio 1). SanPa non è un processo a Muccioli, e non è neppure unicamente un’esperienza di regressione. È un effetto paradossale pieno di luci e di tenebre; ed è pure, anche in maniera ambigua ma a maggior ragione significativa, una disperante richiesta di socialità, in questo inverno di solitudini.