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Expo 2015: un trionfo?
Expo è stato un successo? Ecco una domanda che opprime, più che i venti e passa milioni dei suoi visitatori (dichiaratisi sostanzialmente soddisfatti), tutti gli altri che da scranni diversi si dilettano da tempo a interpretarne le sorti magnifiche e progressive. Domanda stupida, per certi versi, dati appunto i numeri che alla sua chiusura son stati immediatamente vantati da organizzatori & Co., e dalla rinascita dell’immagine di Milano che da essi logicamente è conseguita. Ma intrigante per altri, dato che, ammettiamolo, a un tale boom quantitativo non è corrisposta, su quello qualitativo, un’analoga acquisizione cognitiva circa il senso profondo di uno slogan come “nutrire il pianeta” né una concomitante azione pratica in direzione di quell’altro suo volet poetico che è “energia per la vita”. La specchiata Carta di Milano è stata seppellita dalle cartacce untuose che custodivano le patatine belghe a doppia frittura, così come la riprogettazione globale dei nostri stomaci in disordine ha finito per soccombere nelle epiche code dinnanzi a tutto e il suo contrario, dai padiglioni presupposti esotici agli stand immensi di Coca-Cola e McDonald’s, come anche ai baretti dove prendere un banale cappuccino. Così, mentre già si sviluppa l’interminabile discussione sulla destinazione urbanistica delle trovate architettoniche mal ammassate le une sulle altre (nessuno ci aveva pensato prima?), e cioè sul destino materiale del sito e sugli eventuali ricavi dei fiumi di denaro necessari per produrlo, varrà forse la pena di riflettere parallelamente sulla questione, diciamo così, civile e morale, estetica forse, che è legata alla recente, pietosa chiusura dei tornelli di Expo.
Gli studiosi e gli storici del fenomeno ci hanno avvertito da tempo: un’esposizione universale espone innanzitutto se stessa, mostra i muscoli di un capitalismo euforico che prova a celare le sue ingiustizie sociali in un esorbitante culto del più classico feticismo delle merci. Nel recente, prezioso volume diretto da Alberto Abruzzese e curato da Luca Massidda Expo 1851-2015 (leggi qui), per esempio, viene chiarito molto bene: l’obiettivo delle esposizioni è sempre stato quello di stupire il loro pubblico, di meravigliarlo con invenzioni tanto imprevedibili a priori quanto quotidiane a posteriori, di far splendere i prodotti di massa di un’ammirazione innanzitutto visiva, di modo che fra il contenitore-padiglione e il contenuto-merce c’è un rapporto di contiguità ideologica più che di supporto architettonico.
Solo che – e potrebbe star qui il problema – Expo 2015 non è stata un’esposizione come tutte le altre. Per una ragione molto semplice: il contenuto esposto, questa volta, era il cibo, che da elemento visivo diviene per forza di cose, per natura potremmo dire, roba letteralmente dilapidata, ingurgitata, fatta propria. Materiale che, nel bene come nel male, diviene parte di noi, diviene noi. Come dire che, per quanto retorico possa sembrare, il cibo non è una merce come tante. Da un lato, lo è di più, dato che, essendo il bene di consumo per antonomasia, è quello su cui il mercato fa perenne affidamento per incrementare i profitti. Ed è perciò soggetto a ogni tipo di trasformazione, positiva o negativa a seconda dei casi, pur di raggiungere i frigoriferi e le tavole dei consumatori. D’altro lato, in quanto processo oltre che cosa, segno identitario oltre che sostanza nutritiva, il cibo non si lascia del tutto esaurire a questo ruolo di merce. Resiste, esonda, rilancia, reagisce. Il famigerato colpo d’occhio, mezzo e fine delle Expo storiche, è stato sostituito così, se non da una stomacata sempre in agguato, da un’esperienza variamente e intensamente sinestetica, dove il cibo ha finito per prevalere in tutte le sue forme e dimensioni, annessi e connessi.
Conseguenze? Parecchie. A Expo 2015, potremmo innanzitutto dire, l’Erlebnis gastronomica ha profondamente trasformato il flâneur benjaminiano nell’erede inconsapevole dell’abitante di Cuccagna. Niente più passeggiate distratte a strusciare vetrine in mezzo a una folla altrettanto blasé, ma gozzoviglie strapaesane tra rudi spintoni (“e llevati!”) e urla di richiamo intra- ed extra-familiari (“ahò, siamo qua!”), mentre i picnic improvvisati dappertutto sembravano fare il verso a una convivialità irrimediabilmente perduta, e dove gli stomaci dilatati rendevano impossibile ogni altra attività vagamente corporea. Nemmeno il passeggiare a caso tra Decumano e Cardo, magari a fotografare nipponicamente, aveva più un qualche senso: se non per smaltire l’ennesimo assaggino di troppo – a cui, peraltro, non si poteva dir di no. D’accordo spettacolarizzare il cibo, o quanto meno provarci; ma s’avvertiva sempre e comunque una distanza abissale fra i penosi giochi d’acqua e di luce intorno al cosiddetto Albero della Vita e il richiamo ancestrale della gola, somma virtù in epoca di sacra gastromania qual è, da tempo, l’attuale. Le sedute distribuite qui e là per accogliere i corpi stracchi sembravano mettercela tutta per far assumere loro pose a dir poco inguardabili, ineducate, irriverenti. Il vecchio Bruegel ce lo aveva mostrato secoli fa.
Dall'alto: Pieter Bruegel il Vecchio, Il Paese della Cuccagna (1567); Milano, Expo 2015, 25 ottobre
Ma c’è stato probabilmente un altro esito interessante di questa monumentale esposizione dedicata al cibo, che l’ha differenziata da tutte quelle che l’hanno storicamente preceduta. Se in queste ultime il desiderio di universalismo si trasformava surrettiziamente in bieca predominanza del modello capitalistico occidentale, economico come estetico, qui il livellamento etnocentrico ha dovuto fare fiasco. Al di là degli stereotipi turistici d’ogni singolo paese, orribilmente mimati nelle soluzioni architettoniche dei loro padiglioni, dei souvenir kitsch d’ordinanza, dei tristi cappellini asiatici e dei grembiuloni post-contadini dell’Est Europa, delle danze folkloriche da dopolavoro automobilistico accompagnati dalle musiche distorte di improbabili altoparlanti vintage, la facevano da padrone, a conti fatti, i sapori e i sentori irriducibilmente diversi delle realtà locali. La globalizzazione, qui, non ha potuto funzionare in tutto e per tutto: alla biodiversità glorificata dalla collina finale di Slow Food si accompagnava per ogni angolo della fiera una gloriosa, irrinunciabile etnodiversità. Il trionfo del glocal, insomma, in nome di una gastronomia pop, caricaturale talvolta, patetica talaltra, ma comunque vincente. Expo 2015, almeno in questo, è stato un successo.