Ferdinando Tartaglia: mettere a soqquadro il mondo
Ha i colori dell’inizio, il 1946.
La “primavera” vagheggiata nell’ “inverno” dell’occupazione nazista dal partigiano Francesco in “Roma città aperta” di Roberto Rossellini (“tornerà la primavera, e sarà più bella delle altre, perché saremo liberi”), la “primavera” è tornata.
In un paesaggio di macerie ci si addestra all’ avvenire. Ora, la speranza corre lungo il paese, agita i cuori. E forse promette più di quanto possa mantenere. Ma consente di vivere. Mostra che Il buio è finito, e si comincia a intravvedere una luce.
Durerà poco quel fascio di luce, quel fermento di forze. Nel giro di qualche anno si smorzerà nel grigio, impantanandosi nell’inerzia. Ma nel ’46 la luce è piena, al culmine della sua intensità.
Si muove in quella luce un giovane prete, che dal ’43 ha preso casa sulle colline sopra Firenze. Porta un nome dal suono antico: Ferdinando Tartaglia (“nome di maschera”). In quell’angolo di mondo, limitato da prati, punteggiato da vigne e ulivi, c’è il rifugio di Tartaglia, una stanza spoglia, un letto, un tavolo sgangherato e quattro sedie malferme. Qui, il giovane prete, trent’anni, apre una tumultuosa avventura dello spirito, applicandosi, con ostinato furore, a pensare ciò che sfugge al pensiero: il nuovo. Sente che il mondo è a una svolta, chiede dunque una “trasmutazione dell’uomo”, e di Dio, e della religione che sostiene la sua idea. Occorre abbondonare tutto, “distruggere” – dice. “Con esattezza e impeto”.
Nell’Italia del primo dopoguerra l’impeto di Tartaglia fa scalpore, riempie piazze e teatri. Poi l’oblio, Per trent’anni, fino alla morte nel 1988.
Alla Chiesa di Pio XII quell’impeto non piace, e non piacciono gli azzardi mentali, i funambolismi verbali, le geometrie argomentative sempre tortuose, e l’eloquenza incantatoria del giovane prete. Non piace la sua libertà, e neppure le sue frequentazioni, l’amicizia con i comunisti, mentre ci si avvicina alle contrapposizioni del ’48, e con l’eretico Ernesto Buonaiuti (“uno dei rarissimi che nel fascio delle contraddizioni, riuscisse talvolta a portare l’anima più avanti della pianta decretata”, dirà Tartaglia). Gradisce poco il fitto via via di giovani universitari che, in bicicletta, spinti dall’entusiasmo lungo la strada del Galluzzo raggiungono via Campora, mettendosi in cerchio attorno a Tartaglia, o andando ad ascoltarlo, una volta alla settimana, alla chiesa evangelica metodista di via dei Benci 9.
Una volta alla settimana, in quella chiesa ospitale, davanti a un pubblico traboccante, Tartaglia mette a soqquadro il mondo, getta un colpo di spugna su dogmi consolidati, scuote le convinzioni più diffuse, fracassa idoli. Distrugge “con esattezza e impeto”. Senza alcun riguardo. “Memoria non è verità”, sentenzia, disponendosi a seppellire le tradizioni più radicate, quella cattolica anzitutto, ma non è tenero neppure con quella protestante. Al comunismo poi riconosce di essere la “scossa d’avvio”, ma lo liquida come “il male del male borghese”, anche se con i militanti comunisti continua a parlare, e a incontrarli nelle case del popolo.
Quel prete, che usa le parole come fossero armi, facendo risuonare i suoi pensieri come verdetti, confonde e disorienta, ma attrae. Evidentemente non dispiace l’idea di azzerare il mondo, cancellando quello che è stato pensato fino a quel punto della Storia. Dalla Storia è necessario uscire, liberarsi di tutta la sua zavorra, e rimettersi sulla strada, ricominciare.
Nel ’46 l’Italia vuole ricominciare. E Tartaglia appare, per una breve stagione, come l’autorevole interprete di quel desiderio. La sua lingua labirintica sembra sfiancarsi, e spesso perdersi, attorno a ciò che ancora non ha nome.
La granitica gerarchia ecclesiastica non apprezza le scorribande filosofiche di Tartaglia, e la sua irrequietezza spirituale. Fa muro. Nel ’44 gli viene vietata la celebrazione della messa, l’anno successivo gli sarà proibito d’indossare l’abito talare. Nel giugno del ’46 l’epilogo: con un decreto del Sant’Uffizio, come vent’anni prima era accaduto a Ernesto Buonaiuti, viene dichiarato eretico vitandus. È il giudizio più grave, perché non colpisce solo la dottrina, ma la persona. Il Santo Uffizio intende negare ai fedeli anche la semplice possibilità di accostare l’eretico. Si vuole contenere l’infezione. Attorno a Tartaglia la Chiesa stringe un cordone sanitario.
Il nostro prete non s’impressiona. Al contrario, in tranquillità d’animo, quasi distaccato, pare fornire una giustificazione alla disposizione vaticana, “dato l’atteggiamento di opposizione sostanziale che sono venuto assumendo nei confronti del cattolicesimo”. E dunque va avanti, incurante della scomunica. A capofitto, per almeno un decennio, attento a quello che si muove nella società italiana. Guarda al nuovo che, in ambienti diversi, si affaccia sulla scena: idee e movimenti. Partecipa all’irrequietezza tellurica che ha investito il Paese, ma che presto si acquieterà. Si avvicina ad Aldo Capitini, il filosofo del non-violenza. Con lui percorre un tratto di strada nel “Movimento di religione”. Sono anni frenetici, ma il “nuovo” predicato da Tartaglia si estende come una terra sconosciuta ai limiti delle possibilità d’espressione, e a molti sembra indecifrabile.
Nel 1954 Tartaglia fonda un “Centro per la realtà nuova”, ma appare come un arroccamento più che un’apertura. Scrive in solitudine, lasciando dietro di sé una lunga scia di parole, 50.000 pagine manoscritte si dice, ora conservati in un archivio fiorentino, abbozzi di una revisione dell’intero scibile umano. L’impresa lo impegna negli ultimi trent’anni della sua vita. Ma non vedrà mai la luce. Tartaglia lo impedisce. Non vuole, operando continui rimaneggiamenti.
Nel 1988 la scomunica rientra, e Tartaglia torna a far parte della Chiesa, come d’altra parte desiderava, felice di poter tornare ad assistere al rito della Messa, senza nascondersi. Il “Nuovo” scivola nell’ombra.
Tartaglia muore nell’estate del 1988 a 73 anni. Chiede un funerale cattolico, vuole essere sepolto a piedi nudi, “in segno di umiltà”, e per “desiderio di correre”.
Da tempo, il suo pensiero ha smesso di “correre”, oppure possiamo immaginare che continui a procedere, come una talpa, lungo tortuosi e accidentati sentieri sotterranei, e un giorno imprevedibilmente torni alla luce per dire l’“inizio”.
Fonti:
Ferdinando Tartaglia, “Tesi per la fine del problema di Dio”, Milano, 2002.
Sergio Quinzio, “Ferdinando Tartaglia e la profezia del puro dopo”, in “Lettere dal monastero di Montebello”, Urbania 1973.
Anna Scattigno, “Favole d’inizio: Ferdinando Tartaglia”, in “Annali dell’Istituto storico italo-germanico”, Trento 1999.
Cesare Garboli, “Tartaglia giullare di dio”, in “L’Unità”, 18.2.2002.
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