Speciale
Francesco Tullio Altan. Tunnel
Francesco Tullio Altan ha appena pubblicato presso l’editore Gallucci un volume dal titolo Tunnel (pp. 245, € 16,50), che raccoglie le vignette disegnate per “L’Espresso” e per “La Repubblica” negli ultimi anni. Una perfetta cronaca socio-surreale del nostro Paese, riflessioni di natura morale ed etica che pescano più a fondo nella stessa natura umana. Altan fa ridere e fa pensare, entrambe le cose; non si sa bene se prima l’una oppure l’altra (oppure entrambe insieme?). Il settimanale “L’Espresso” mi ha chiesto di scegliere e commentare otto di queste fulminanti vignette. Un breve commento, come si fa con un testo letterario, oppure una canzone, o una fotografia. Li ripubblico qui con il permesso del settimanale (che ha dedicato la sua seconda copertina ad Altan stesso).
Dalla prossima settimana pubblicheremo, grazie ad Altan, per alcune settimane, altri disegni tratti dal libro, e lasciamo ai lettori il compito di pubblicare dei loro commenti, magari seguendo la falsariga dei miei, oppure variando, ma sempre in modo pertinente e illuminante. Chiediamo solo di non superare le 500 battute.
Crollo? No, nessun crollo. A cosa allude il funzionario dal viso verde che corre affranto dal Cavalier Banana per comunicargli che è “l’inizio di un crollo?!” Ma quale crollo? In effetti, quello del funzionario (alto funzionario ministeriale? deputato del Partito? consulente mediatico? sondaggista?) in giacca e cravatta. La risposta del Cavaliere è perfetta: “Macché! La baracca della libertà è solidissima”. Non Casa, come dal nome del partito, bensì Baracca, parola con cui il Banana esprime tutta la cialtroneria e il pressapochismo della costruzione politica cui ha atteso. La baracca è abitazione precaria. Ma anche “far baracca”, come si dice in certe regioni del Nord, per indicare feste con alcolici, divertimento, assembramenti maschili, e magari qualche ragazza. Baracca sta per Casino? Lo sguardo scivola inevitabilmente sulla banana impugnata dal cavaliere: quasi uno scudiscio, una frusta dal colore giallo. Banana fallica? Si, ma afflosciata. La baracca è solidissima.
Altan psicologo? Sembrerebbe di sì. Distinguere tra depressione e infelicità non è molto facile, però... I due pensionati seduti sulla tipica panchina verde dei giardini pubblici si lasciano andare a confidenze personali. Quello che chiede: “Depresso?”, conosce evidentemente il senso di questa malattia dello spirito e dell’anima. Come dargli torto? Immerso nella condizione di pensionato, uomo inutile, il settantenne col basco operaio (il copricapo di Nenni, leader socialista) guarda la vita davanti a sé e il destino del proprio paese, l’Italia, e pronuncia la domanda. Lui ha buone ragioni per essere depresso. L’altro, quello con il fazzoletto annodato ai quattro angoli, gli risponde in modo più profondo: “Magari! Infelice”. L’infelicità è qualcosa di più radicale della malinconia? Se la depressione è “un’alterazione del tono dell’umore verso forme di tristezza profonda con riduzione dell’autostima e con forte bisogno di autopunizione”, come dicono gli psicologi, l’infelicità è qualcosa di più ampio e definitivo. Altan come psicologo è implacabile. Ci fa sorridere. Tutto cade su quel: “Magari!”. Si sorride per questo. E poi si capisce: “Infelice”.
L’annunciatrice, perché tale è la signora, o signorina, che appare in abito rosso e capigliatura del medesimo colore ai telespettatori della sera, fa un annuncio che è un incrocio di linguaggi diversi: interferenze, divulgare, sondaggio Fatima. Le interferenze che si vogliono evitare sono senza dubbio quelle che stanno a cuore al padrone delle TV, il quale in altre vignette di Altan compare munito di ombrello. A lui allude poi il sondaggio che in una sorta di crasi diventa “il terzo sondaggio di Fatima”. Sondaggio? No segreto. Il terzo segreto di Fatima, come si sa, fu rivelato dalla Madonna ai tre pastorelli durante una delle sue apparizioni nella campagna portoghese, e per decenni custodito dai Papi di Roma dentro una busta. Si diceva che contenesse una terribile profezia. Ora Altan fa slittare sondaggio su segreto per suggerirci, nella combinazione con Fatima, che i sondaggi possiedono qualcosa di religioso e che la loro essenza è il segreto. Se ce ne fosse ancora bisogno, questa vignetta – disegno più parole – rivela il genio linguistico dell’autore. La confusione delle parole rivela i pensieri reconditi e ci fa ridere. Di chi? Di noi stessi. L’annunciatrice è indubitabilmente una di noi. Nessuno sfugge alla stupidità del potere.
Secondo alcuni il proverbio “comandare è meglio che fottere” sarebbe di origine mafiosa; un motto siciliano che è stato fatto proprio dai politici italiani della Prima come della Seconda Repubblica. Il personaggio di Altan fa fare un altro giro alla frase. A cosa allude? Alle recenti disavventure del Cavaliere, alle note vicende di escort in Sardegna e ad Arcore? A parlare non è lui, il protagonista, ma il solito italiano dalla faccia verde (verde di rabbia?) che con il cinico sguardo di chi ne ha viste di tutti i colori (maglione rosso e calzoni indaco, su poltrona a spicchi verdi) pronuncia la sua sentenza: la nostalgia di quando comandare era meglio che fottere. Nostalgia, appunto, perché il rovesciamento del proverbio mafioso – ma anche democristiano, se non ricordo male – è l’effetto di un eccesso. Troppo fottere e poco comandare. Il comando come sostituto del sesso è sceso a patti col sesso come sostituto del comando. Sino all’esaurimento. Per questo l’uomo di Altan è verde di rabbia. Ha perso qualcosa, e non può più farci niente.
Dio è un vecchio signore etereo e biancastro come una nuvoletta con tanto di barba e capelli lunghi, e il triangolo giallo della trinità cristiana sul capo. La sua affermazione – pensiero che gli sfugge – è sarcastica: “Mi domando: cosa mi è venuto in mente di inventare la religione”. Una riflessione amara, eppure fondata teologicamente. Dietrich Bonhoeffer, il teologo protestante impiccato da Hitler, in una delle sue lettere dal carcere, dove attendeva la messa a morte, formulò un’idea fulminante: bisogna cominciare a fare a meno di un Dio tappabuchi. Ovvero, bisogna pensare la religione in modo non religioso. Il Dio dubbioso di Altan ci dice la medesima cosa. Poggiando la mano destra sulla guancia sinistra, e sostenendo il peso del capo, medita e riflette. Sta ponderando. La religione come invenzione. Non male. E se ne attribuisce pure la responsabilità. Una debolezza, forse, quella di aver voluto un gregge di fedeli che lo onora e lo adora. Tuttavia la religione è incompatibile con lui stesso, almeno a questo punto. Troppi disastri ha provocato. La domanda che ci si pone davanti alla riflessione divina è: a quale religione si sta riferendo? Al cristianesimo o a tutte le religioni? Qui comincia la malizia di Altan.
Traduco. Non vedo niente, dice l’uomo che avanza bendato con il bastone e il piede sospesi nell’atto di appoggiarli a terra con fare incerto. Mi serve uno che spieghi cosa c’è dietro, dice. La dietrologia è uno degli sport nazionali degli italiani: mafia, massoneria, servizi segreti, Cia, poteri occulti, e chi più ne ha più ne metta. L’uomo che pronuncia la frase – un italiano tipico – è bendato, ovvero non può vedere. Ma chi l’ha bendato? Non lo sappiamo, di certo non si toglie la fascia dagli occhi. Preferisce stare così: non vedere. Altan ci indica il double bind in cui ci troviamo: siamo bendati e vorremmo vedere meglio attraverso la dietrologia. Il dietrologo è come l’astrologo, uno che prevede non il futuro, bensì il passato, ovvero il presente. La parola “tubo” ha un etimo incerto. Un dizionario etimologico suggerisce che ci sia una antica radice latina, per cui verrebbe da tubus, e a sua volta da tufus, che viene da tob, che significa “burrone”. Ultima possibilità: il tubo non è nient’altro che il tubo catodico, cioè la tv.
Siamo noi a possedere gli oggetti o piuttosto, come suggeriscono i sociologi, noi a essere posseduti dagli oggetti medesimi? Il nuotatore immerso nell’acqua sino alla cintola, con la regolamentare cuffia da piscina, esibisce il suo cellulare – qui chiamato con il nomignolo consueto di telefonino – e dice la sua battuta: il record tutto italiano per cui ogni cellulare possiede un italiano. La passività è uno dei luoghi comici dei disegni di Altan. Passività che arriva sino al masochismo più ostentato (l’italiano è per Altan più masochista che sadico, smentendo in questo la relazione inscindibile tra le due perversioni così come si presenta nella lettura freudiana). Ma qui non si tratta di masochismo, bensì di statistica. Altan rovescia il luogo comune, quello che ci rivelano le pagine dei quotidiani e delle gazzette, e ci mostra come siamo noi italiani a essere degli oggetti e i cellulari (i telefonini) dei soggetti. Lo sguardo languido del bagnante – o nuotatore – il suo aspetto dolente, e insieme cinico (si osservino le labbra rosse e turgide, quasi femminee), fanno il resto. Il record è pur sempre un record.
L’ombrello. Il famoso ombrello spinto nel didietro dell’italiano tipico: nasone, ciuffo in cima al capo, maglione rosso e calzoni verdi, un poco flesso per accogliere il corpo estraneo. Rassegnato. “Soffro”, dice rivolto al Cavalier Banana, che se ne sta ben assiso sui suoi tacchi rossi, in giacca e cravatta, e tiene il medesimo ombrello per il manico, rosso pure quello. La battuta di risposta del Banana è una di quelle che s’ascoltano alla radio, durante il bollettino meteorologico, ma con un piccolo slittamento semantico. Dalla umidità reale a quella percepita, diventa, in questo caso, “l’ombrello percepito con quello reale”. Il verbo che regge tutto è perfetto: “confondere”. Un altro slittamento semantico, uno dei tanti, della propaganda del Cavaliere in questi vent’anni. Come l’ultima battuta all’assise internazionale: la crisi non c’è, perché i ristoranti e gli aerei sono pieni. La crisi percepita e quella reale. L’ombrello è una metafora, ma come tante metafore fa davvero male. Soffriamo.