Gabriele Basilico: la lentezza dello sguardo

14 Febbraio 2013

Nel dicembre 2012 ho presentato a Milano le Lezioni di fotografia di Gabriele Basilico. Eravamo in una sala del Castello Sforzesco affollata e attenta: Basilico parlò, un po’ affaticato, ma lucido, appena emozionato, del suo modo di fare fotografie, dei viaggi, della scelta dei temi, del suo lavoro di trent’anni, di alcune delle sue fotografie più famose, i porti, i paesaggi urbani. La fotografia come quotidiano, e come scelta di vita.

 

Non ho mai troppo creduto a una specificità del medium fotografico; o piuttosto, rivisitandone caratteri, grammatiche, funzioni, lessici, temi, ho scorto sempre nelle fotografie in quanto immagini, illustri o anonime che fossero, un elemento profondamente perturbante nella sua familiarità, e nelle cose ritratte “così come sono” un fantasma, una durezza insospettata, uno sguardo alieno che mi trafiggeva: il lato oscuro delle cose, rivelato come piega ulteriore, come molo per altre partenze.

 

Nella loro apparente oggettività, nel loro magistrale giocare con la sospensione metafisica, le fotografie di Gabriele Basilico mi sono sempre apparse segnate al tempo stesso dal turbamento di un’agnizione – è lui, è qui, è questo luogo – e dalla malinconia di un commiato. Ritraggono luoghi come se non fossero mai stati visti e come non potranno mai essere più visti, proprio perché strappati ormai alla loro quiete indifferente, mi viene da dire alla loro invisibilità, dalla forza dell’immagine. In questa capacità di afferrare l’ombra, il vuoto, il nulla, forse, certo un nulla che ci avvicina alle domande decisive, e anche nel loro aspetto così sorprendentemente insieme cosmico e pedagogico, oggettivo e teatrale, sta tutta la forza dell’eredità di un grande artista del nostro tempo.

 

Il volume Lezioni di fotografia (a cura di Maria Giulia Zunino, Rizzoli 2012), contiene una mia prefazione che qui ripropongo con qualche variante.

 

     

Come si “legge” una fotografia? E come legge un fotografo le sue fotografie? A queste due domande, in qualche modo apparentate e reversibili, Gabriele Basilico fornisce una risposta per niente scontata: leggere una fotografia non vuol dire esercitarsi in un’analisi grammaticale dell’immagine, alla ricerca di quell’elusivo principio formale capace di individuare il punto di contatto tra soggettività e realtà, tra interpretazione e dato di fatto, o al limite di dar conto dei tratti ricorrenti di uno stile. Leggere una fotografia è al contrario, come testimoniano le dodici Lezioni contenute nel suo libro-testamento, un esercizio di intensificazione della natura “impura” del medium, della sua ambivalenza, del suo essere allo stesso tempo documento e astrazione, nodo emozionale e inventario, racconto e testimonianza oculare, segno visivo e testo scritto, per la cui decifrazione è indispensabile convocare tutte le sue possibili ramificazioni culturali, agitare il problema del suo valore d’uso e dipanare le sue più sottili trame allegoriche. Di qui la necessità per il fotografo di estrarre ogni immagine dalla sua dimensione di “messaggio senza codice”, distinguendo metodicamente al suo interno un doppio livello: l’impronta irripetibile, l’indice direbbero i semiologi, di un luogo, di un paesaggio, di una città, da un lato, e il risultato della negoziazione con un’intenzione, un progetto, una committenza, uno sfondo problematico o un’atmosfera emotiva dall’altro, in modo tale che proprio dall’attrito tra queste dimensioni possa sorgere quel valore insieme cognitivo e creativo della fotografia in cui Basilico ha individuato sin dagli inizi uno degli aspetti fondanti del suo lavoro.

 

Pochi fotografi contemporanei hanno saputo saldare la ricerca di una nuova visibilità per architetture e paesaggi – visibilità intesa qui come processo che "porta a vedere", come dispositivo euristico – alla definizione di un approccio poetico individuale che dialoga alla pari con l’insieme delle esperienze delle arti visive della nostra epoca. Confrontandosi con riferimenti che vanno dalla grande tradizione del reportage alla fotografia documentaria di Walker Evans, dalle catalogazioni tipologiche di Ed Ruscha alle serie di “sculture anonime” di Bernd e Hilla Becher, innestati su una consapevole formazione di architetto compiuta negli anni critici del passaggio dal modernismo novecentesco alla stagione postmodernista, Basilico ha rivoluzionato la fotografia documentaria trasformandola in uno strumento di riflessione e di analisi militante intorno alle forme dello spazio urbano e di quello naturale, alle loro complesse e mai neutrali metamorfosi, rafforzandone allo stesso tempo il valore di produzione autonoma, capace di restituire un’interpretazione potente e memorabile dei luoghi, di illuminare la trama di sopravvivenze, ritorni e rimozioni che ne compongono il tableau, la mappa psicogeografica.

 

    

Chi scorre con gli occhi le sue fotografie non può non rimanere colpito dal senso di silenziosa immanenza, dalla scalatura grandiosa di città, fabbriche, porti, litorali, tutti trasfigurati in un senso che potremmo definire fisiognomico: gli edifici, i segni del lavoro umano, i resti del passato e le tecnologie, il generico e l’eccezionale, sono composti in veri e propri corpi di cui Basilico esplora minuziosamente le articolazioni mettendo al tempo stesso a punto uno sguardo lento che li abbraccia collettivamente. Un effetto raggiunto con mezzi espressivi estremamente controllati: l'allineamento impeccabile delle verticali, l'individuazione istintiva, e al tempo stesso studiatissima, di quinte e cerniere spaziali che guidano l'occhio verso la profondità, il senso di "spalancamento" del piano orizzontale, il tutto-a-fuoco che avvicina e rende in senso tattile gli oggetti, l'aspetto brunito, solenne, delle stampe in bianconero, l'atmosfera trasparente di quelle a colori. Uno stile altamente personale, precocemente classico in un certo senso, e al tempo stesso, per le sue medesime costanti, facilmente "campionabile" e di fatto riproducibile quasi per automatismo, la cui traccia affiora spesso nella fotografia urbana, italiana e internazionale, degli ultimi decenni.

Il grande paesaggio Le Tréport (1985) rappresenta in questo senso un manifesto della volontà del fotografo di costruire un’inedita sintesi tra la grande tradizione della pittura occidentale e l’esigenza tutta contemporanea di far emergere la natura contraddittoria del mondo visibile, la sua struttura storica, il palinsesto, la concrezione di immaginari che vi appare rappresa, e l’eccesso “mistico” e cosmico che al suo interno seguita tenacemente ad abitare. La profonda veduta a volo d'uccello, con i suoi echi molteplici, da Altdorfer ai pittori della Hudson River School, più che una topografia prende il valore di una versione secolare e autoconsapevole, e al tempo stesso intimamente partecipata, di questo dissidio.

 

    

Quando fotografa, si potrebbe dire che Basilico operi come un architetto che costruisce, anziché edifici, nuove domande di senso, nuove ipotesi di lettura gettate sullo spazio abitato e quello naturale, sfidando la supposta "trasparenza" e oggettività della fotografia per evidenziarne il potenziale di competizione nei confronti dell’esperienza visiva, la sua natura di processo essenzialmente creativo, destinato a modificare le sue stesse condizioni di partenza proprio come il lavoro architettonico tende a modificare l’esperienza collettiva dello spazio. C’è quest’idea trasformativa alla base della scelta di comporre “serie” omogenee (per luogo o tipologia) e anche di presentare a scopo didattico il suo lavoro servendosi dell’utensile metaforico del foglio di provini a contatto, su cui annotare osservazioni, mettere in evidenza tracciati, suggerire affinità, recuperare il racconto latente nelle immagini, presentarle come fotogrammi di un film. Serie e “strisce” servono al fotografo per aggregare e riconfigurare il visibile e per riflettere a posteriori sulla sua genesi accidentata, per portare in superficie il loro inconscio ottico, il perturbante che le abita come una traccia latente, pronta a essere attivata dal nostro sguardo.

 

Ecco perché se fotografare equivale sempre per Basilico a ri-apprendere la natura ibrida del reale, ri-guardare le proprie immagini significa riproporsi il problema di come e quando si è visto, di quali condizioni reali hanno generato l’immagine, e soprattutto di come questa, al suo apparire, ha modificato irreversibilmente lo stesso sguardo che le ha generate, rivelando l’ombra insieme reale e metaforica del fotografo trattenuta al suo interno. È grazie a questa valenza autoconoscitiva che la fotografia di Basilico può divergere, senza abbandonarlo, dal suo compito documentario e trasformarsi in uno strumento artistico che opera sul e attraverso il visibile per costituirne nuovi indici di visibilità, nuove aggregazioni di forma-senso il cui valore è insieme estetico e politico, nel senso di un rinnovamento della percezione e di un approfondimento del senso di interdipendenza tra singolarità e contesto, tra individui e comunità.

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