I contemporanei: Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi
Se qualcuno vuole sapere cosa è il cosiddetto “contemporaneo” non ha che da visitare la mostra di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi aperta all’Hangar Bicocca di Milano: Non non non (fino al 10 giugno). Sono tre installazioni site-specific.
La prima s’intitola La marcia dell’uomo: 32 fotogrammi della durata di due secondi in cui si vede, virato in giallo, un nègre che cammina, tratto da Etienne-Jules Marey, che ha fissato un gruppo di uomini del Senegal: è il 1895, nascita del cinema. Nel secondo si scorgono dei “selvaggi” cui gli etnografi impongono pizzi, cappelli a cilindro e l’uso della forchetta. Il terzo, virato in rosso, risale agli anni sessanta del XX secolo: ragazze africane a seno nudo posano per un uomo occidentale che le paga per la loro prestazione. La musica di Keith Ulrich sospende il tutto in una sorta di vuoto pneumatico.
La seconda installazione è all’interno di un immenso spazio; alle pareti tre grandi teloni su cui vengono proiettati, con cadenza lenta, ma inesorabile, sequenze preordinate di film. Frammenti elettrici; un film sui Rom girato dopo il genocidio nazista in Lombardia; scene del Vietnam, opera di un ufficiale francese; indigeni della Nuova Caledonia e poi film amatoriali che hanno per oggetto il posteriore femminile. Segue Vision of the Desert: il Sahara nel 1920 virato in rosa, ocra e verde; un trittico composto da immagini di un’operazione su una donna ferita alla testa nella Prima guerra mondiale, visioni dell’esodo armeno dalla Turchia, la cucina del futuro vista dagli americani negli anni Cinquanta, una prigione staliniana, la Palestina e il Muro del Pianto all’inizio del Novecento e infine la scena di una trance femminile con un prete. In conclusione appaiono le immagini di due film, paesaggi e persone: Terrae Nullius e Topografie, quest’ultimo mostra ciò che si scorge da bordo di un aereo militare della Grande Guerra: terreni sottostanti innevati con fortificazioni e uomini incolonnati.
Perché guardando queste immagini, a metà tra il film d’avanguardia e l’installazione artistica, si può capire cos’è il contemporaneo? Gianikian e Ricci Lucchi sono due cineasti indipendenti che si sono sempre mossi tra un’arte e l’altra, il cinema e la pittura. Vivono da quarant’anni a Milano in una sorta di clandestinità, mentre sono riconosciuti, e assai stimati, all’estero, in Francia, negli Stati Uniti, dove espongono in Fondazioni e grandi musei. Il loro lavoro consiste nell’esplorare gli archivi di tutto il mondo e rifilmare vecchie pellicole, documentari, film scomparsi o invedibili.
Lavorano cioè su una sfasatura: quella che esiste tra il nostro presente, l’attualità in cui viviamo, e il passato, la memoria. Sono artisti inattuali, e proprio per questo capaci di afferrare il proprio tempo, di rivelarcelo. Chi si ferma a osservare questi filmati, rifatti con tecnica artigianale, e macchine inventate ad hoc - la “camera analitica” che riprende i particolari di una pellicola, o di un singolo fotogramma - si ha la sensazione d’assistere alla manifestazione palese di ciò che la psicoanalisi chiama “inconscio”. Gianikian e Ricci Lucchi hanno fotografato e animato l’inconscio stesso della cultura occidentale; l’hanno trasformato in un elemento fisico, il film, visibile lì, davanti a noi. Non l’inconscio singolo, ma quello collettivo; il rimosso dell’intera cultura occidentale con i suoi fantasmi scorre su quegli schermi.
Come ha scritto all’inizio del XX secolo il sociologo Fritz Mannheimer, il contemporaneo consiste nella relazione singolare con il proprio tempo: vi aderisce, e al tempo stesso se ne discosta. Quando si guardano i film più famosi di questa coppia d’artisti – lui armeno di origine, lei romagnola –, Dal Polo all’Equatore e Oh, uomo, si ha la netta sensazione di ricevere in pieno viso la luce stessa del presente, i fantasmi che s’agitano nella nostra contemporaneità: guerre, genocidi, violenza, sopraffazioni, ingiustizie; e questo senza che sia proiettata alcuna violenza palese sullo schermo stesso.
Tutto è alluso, rallentato, tutto reso fluido, mediante un flusso continuo d’immagini molli, flessibili, plastiche. Si tratta dell’emergere di ciò che un filosofo, Georges Didi-Huberman, chiama “anacronismo”: un errore cronologico, uno spostamento di date. Si è entrati nel crepaccio che esiste tra passato e presente, una sospensione che ci permette di guardare meglio la nostra stessa attualità. Uscendo dalle grandi volte dell’immensa cattedrale dell’hangar meccanico, si osservano le persone per strada con un occhio diverso, con attenzione e sensibilità differenti.
All’inizio della mostra, che espone anche gli acquerelli di Angela Ricci Lucchi, e un potentissimo ritratto filmico della collezione di giocattoli di Gianikian, c’è una sorta di manifesto, da cui il titolo della mostra: “Non pulito, non estetico, non educativo, non progressivo, non cooperativo, non etico, non coerente: contemporaneo”. Come ha scritto Roland Barthes, il contemporaneo è l’intempestivo. Una mostra che ci comunica l’essenza di quello che siamo stati e saremo.
Questo articolo è apparso su La Stampa.
Il 31 maggio Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi dialogheranno sul loro lavoro con Marco Belpoliti e Paolo Mereghetti presso Hangar Bicocca.