Collezionare capolavori / I marmi Torlonia
“Innanzi tutto, c’era una promessa. E poi c’è un racconto”. Con le due parole chiave “promessa” e “racconto”, Salvatore Settis, curatore della mostra insieme a Carlo Gasparri (l’archeologo che nel 1976 fu incaricato dal Pretore di Roma di verificare le condizioni delle sculture della collezione della famiglia Torlonia e, tuttora, uno fra i pochi ad aver visto la raccolta nella sua interezza), introduce l’attesissima mostra I marmi Torlonia, col significativo sottotitolo Collezionare capolavori. Sospirata non solo per l’opportunità di vedere finalmente le opere classiche di raffinata bellezza, ad oggi ammirate solo da pochissimi eletti, ma anche per il rinvio da aprile a ottobre, dovuto alla pandemia covid-19, e perché pianificata ben quattro anni fa, a conclusione di un duro percorso giudiziario, andato avanti senza esclusioni di colpi. Infatti, chi ha seguito fin dall’inizio la genesi di questa mostra, sa che essa parte da lontano, dagli anni Sessanta. Ma anche chi non la conosce, immediatamente intuisce che dietro c’è “qualcosa”. Una storia piuttosto complessa e intricata, che sembra giungere, con questa mostra, a quella che alcuni hanno giustamente chiamato una “win win situation”.
E, come in molte storie con i toni di un giallo, nonostante sembri facile individuare il “colpevole” in Alessandro Torlonia (1925-2017), in realtà ci sono diversi protagonisti altrettanto “responsabili”. Al punto che, per non continuare a portarla avanti per ulteriori decenni, nel 2016 si giunse alla “promessa”, come la chiama Settis. Per l’esattezza un accordo tra la nobile famiglia romana, nella persona di Alessandro Torlonia prima, e suo nipote Alessandro Poma Murialdo poi, e lo Stato – Ministero per i Beni Culturali, inizialmente col direttore generale della antichità Gino Famiglietti, in seguito col ministro Dario Franceschini. In sintesi, tutto ha inizio allorquando Alessandro Torlonia chiede e ottiene l’autorizzazione per effettuare dei lavori di sistemazione del tetto del palazzo di via della Lungara. Attenzione, lo stesso palazzo cha dal 1859 accoglieva le 620 sculture distribuite nelle 77 sale di quello che, nel 1875, diventerà il Museo di Scultura Antica della leggendaria collezione Torlonia. Leggendaria perché il principe si riservava la possibilità di concedere o meno l’opportunità di visitarla, a volte non autorizzando neanche celebri studiosi (è noto l’originale stratagemma messo in atto dal famoso archeologo Ranuccio Bianchi-Bandinelli per accedere alle sale). Lavori che poi si sono rivelati una vera e propria trasformazione del palazzo in 93 miniappartamenti, col conseguente smantellamento del Museo, e relativo accatastamento alla bene e meglio delle opere in tre stanzoni dei magazzini al piano terra del palazzo, e l’accusa, da parte dello Stato, di abuso edilizio (sul palazzo c’era un vincolo già dal 1948).
Iniziano a fioccare denunce (tra cui quella di aver trattenuto reperti archeologici rinvenuti durante campagne di scavo anziché consegnarli allo Stato, come previsto dalla normativa entrata in vigore nel 1909) e controdenunce, accuse (tra le tante, che alcuni pezzi fossero usciti dai confini italiani per approdare negli Stati Uniti, nonostante ci fosse un vincolo già dal 1910), recriminazioni (tra gli eredi di Alessandro Torlonia, che hanno contribuito non poco a complicare ulteriormente la situazione), fino ad arrivare alla disposizione, da parte della Pretura, del sequestro, ciò che spiega l’entrata in campo di Carlo Gasparri. Sotto il governo Berlusconi fu addirittura avanzata l’offerta di acquistare l’intera raccolta ad un prezzo (si può anche dire, giustamente) rifiutato dalla famiglia. Mentre, nel 2002, c’è stata perfino la proposta di una confisca preventiva della collezione che (ugualmente, si può dire giustamente) cadde in prescrizione come, alla fine, la causa stessa. Finché a suon di documenti e marche da bollo, si arriva al noto accordo del 2016, stipulato con la neonata Fondazione Torlonia, istituita da appena due anni. Cosa prevede l’accordo? Per sommi capi, impegna la Fondazione ad esporre la collezione, di proprietà dei Torlonia, in una mostra temporanea (prima a Roma e poi all’estero, con tappe ancora non individuate, soprattutto per le restrizioni dovute al covid-19); in seguito, l’esposizione permanente, in un edificio pubblico a Roma; di contro, impegna lo Stato ad individuare un edificio idoneo ad accogliere la collezione e la sua relativa custodia e salvaguardia. Da tempo si parla del palazzo Silvestri Rivaldi, che si affaccia su via dei Fori Imperiali, ben noto per la sua vivace storia passata, ma nulla è ancora stabilito. Di certo ci sono due cose: che lo Stato ha stanziato 40mln di euro per la ristrutturazione del palazzo, a prescindere dalla sua destinazione finale; e che qualsiasi edificio identificato quale possibile museo, sarà scelto sempre e solo in accordo con la Fondazione.
Piccolo salto indietro: chi sono i Torlonia? In generale, tutti conoscono questo nome e l’importanza del loro casato, soprattutto per le numerose tracce presenti nella capitale (tra cui villa Albani Torlonia; Romavecchia/villa dei Sette Bassi-villa dei Quintili-Statuario-villa di Massenzio; Porto; villa Albani, al cui allestimento aveva collaborato il noto studioso Johann Winckelmann e dove nel 1870 venne firmata la resa di Roma da parte dello Stato Pontificio; villa Torlonia, nel cui Casino dei Principi dimorò Benito Mussolini, dal 1925 al 1943), ma non guasta un breve excursus. Innanzi tutto l’origine della famiglia è francese. Il capostipite è Marin Tourlonias (1725-1785) che arriva a Roma al seguito dell’abate Charles Alexandre de Montgon; diventa poi cameriere particolare del card. Troiano Acquaviva. È grazie al cardinale che inizia la fortuna della famiglia, perché lascia, alla sua morte, una discreta rendita con la quale Marin Tourlonias apre una piccola bottega di sartoria in piazza di Spagna affiancata dall’attività di prestito di denaro, fino all’apertura di un Banco (un ramo della famiglia è, infatti, quella del Fucino, legati non solo al prosciugamento dell’omonimo lago, ma anche all’omonima Banca), divenendo successivamente banchieri di Papi e di Napoleone. Nel mentre Marin Tourlonias si sposa e italianizza il suo nome in Marino Torlonia e, quando muore, viene sepolto nella chiesa di San Luigi dei Francesi.
È nel 1814, col papa Pio VII, grazie all’istituto di surrogazione, che Giovanni Raimondo Torlonia (1754-1829) acquisisce il titolo di Princeps, divenendo il vero e proprio iniziatore del casato. A questo punto, oltre ad accreditarsi con azioni caritatevoli (aperture di scuole, ospedali, conservatori, e così via), costruisce la propria reputazione nella borghesia romana con l’acquisto di palazzi, ville, possedimenti degni del livello nobiliare ormai raggiunto. I Torlonia diventano proprietari di un vecchio magazzino-mulino in via della Lungara, dove impiantano inizialmente un lanificio (principalmente erano mercanti di stoffe e sarti) e la residenza di famiglia; di un palazzo a piazza Venezia (palazzo Bolognetti-Torlonia, che ospitava la collezione fino ad allora costruita compreso il gruppo marmoreo Ercole e Lica di Canova e fu demolito nel 1903 per la sistemazione scenografica della piazza e una visione aperta sul Vittoriano); del palazzo Giraud, nell’odierna via della Conciliazione; del palazzo Nuñez-Torlonia; della distrutta villa Costaguti, nell’attuale via XX settembre, oggi sede dell’ambasciata Britannica, e delle sopra menzionate ville, solo per citare i possedimenti più conosciuti, e di cui raccontare passaggi e modifiche, richiederebbe un saggio a parte.
Tuttavia, il merito più grande di questo tortuoso percorso è stato, non solo quello di aver trasformato la collezione in un sorvegliato speciale ma, soprattutto, di averla sottoposta a un attento esame storico-scientifico che ha consentito di ricostruire passaggi, storie, modalità, prassi, sfatare leggende metropolitane e giungere, a volte, a delle conferme, altre volte, a delle interessanti scoperte. Ed ecco allora che inizia il “racconto”, la seconda parola chiave individuata da Salvatore Settis. Di fronte a quella che tuttora è designata come la più grande collezione privata di marmi antichi al mondo, composta ufficialmente da 620 pezzi (tra busti, rilievi, statue, sarcofagi ed elementi decorativi), lo sforzo scientifico è stato quello di collocare storicamente le sculture, pure alla luce dei diversi documenti, e di individuare in che modo sono entrate nella raccolta Torlonia. E, come nelle migliori tradizioni, si può redigere una lista di conferme e smentite.
Nella colonna conferme vanno annoverati: il numero dei pezzi della collezione, come riportati nelle edizioni del catalogo redatto da Pietro Ercole Visconti (1876) e da I monumenti del Museo Torlonia di sculture antiche riprodotti con la fototipia (da notare come il principe fosse pienamente al passo coi tempi, utilizzando la nuova tecnica della fotografia anziché l’incisione) di Carlo Lodovico Visconti (1884, tradotto anche in francese e in inglese); il nucleo iniziale è formato dall’acquisto del lascito dello Studio Bartolomeo Cavaceppi (1800) e della collezione Giustiniani; diverse sculture furono acquistate sul mercato antiquario romano; molte furono quelle ritrovate nei loro possedimenti e durante l’intensa attività edilizia postunitaria; una buona parte dei pezzi proviene da altre collezioni, giunte ai Torlonia allorquando le famiglie aristocratiche romane, non potendo onorare i loro debiti, saldavano i prestiti con le opere antiche date come garanzia, andando così a formare una collezione di collezioni (Cavaceppi, Giustiniani, Orsini-Savelli, Cesarini, Albani). Nella colonna smentite: i pezzi della collezione non sono stati venduti all’estero (sconfessata la vendita al Getty Museum di Los Angeles); nella collezione non sono presenti reperti recuperati da indiscriminate campagne di scavo perpetrate nel Novecento. È attraverso questi elementi che il duo curatoriale Settis/Gasparri costruisce il racconto, selezionando 92 opere tra quelle che erano esposte nel Museo Torlonia, elencate nel catalogo del 1876. Quindi, il racconto è sì quello della collezione Torlonia ma, al tempo stesso, è il racconto di come si sia formata e di come si collezionava a Roma, già a partire dal Quattrocento; del confronto con le grandi collezioni del Vaticano e del Campidoglio, divenute un modello cui guardare; del gusto e delle mode delle famiglie patrizie romane nel corso dei secoli, di come arredassero le proprie residenze, il loro rapporto con l’antico, nonché il concetto che avevano dell’antico; il legame con le antichità della città.
Emblematiche sono le scoperte emerse durante i recenti restauri compiuti anche in vista della mostra. Innanzi tutto si è consolidata la prassi di restauro del passato, che non teneva conto delle diverse provenienze dei pezzi, ma, essenzialmente, considerava quello che il pezzo doveva rappresentare (è più che noto il caso della statua di Ercole, nella quale sono stati rinvenuti ben 125 pezzi diversi). Oppure con interventi di integrazioni, realizzati da artisti dell’epoca: è significativa la definitiva conferma dell’intervento di Gian Lorenzo Bernini nel cosiddetto Caprone Giustiniani, nel quale è intervenuto realizzando la testa. Oppure del cosiddetto Rilievo di Porto, dove sono state rinvenute tracce di colore. Mantenendo l’impianto innovativo di Alessandro Raffaele Torlonia, che aveva esposto le sculture in base ai soggetti e allo stile. Tenendo fede alla promessa di realizzare una mostra a Roma, in uno spazio pubblico, si è colta la palla al balzo per allestirla negli spazi appena ristrutturati della Villa Cafferelli al Campidoglio, riaperti dopo cinquant’anni. Ambienti con poco respiro, suddivisi in quattordici sale, raggruppate in cinque sezioni, che sviluppano un percorso a ritroso nel tempo. Un allestimento che ha voluto evocare, nelle diverse sezioni, i colori delle epoche a cui le sezioni afferiscono. Nella prima sezione, con un rosso pompeiano e una decisa evocazione del Museo Torlonia, trovano posto l’unico bronzo della raccolta (Germanico, I sec. d.C.), i famosi ritratti di Fanciulla (50-40 a.C.), quello sorprendente per il suo prepotente realismo di Eutidemo (fine III-inizi II sec. a.C.) e il cosiddetto Vecchio da Otricoli (50 a.C.), cui fanno da sfondo i venti busti di ritratti imperiali o creduti tali (tra cui Silla, Pompeo Magno, Livia, Vespasiano, Tito, Adriano, Marco Aurelio, Commodo, Caracalla, Plautina).
La seconda sezione (XIX secolo) è dedicata a una selezione delle opere provenienti dagli Scavi Torlonia (col sopramenzionato Rilievo di Porto). La terza (XVIII secolo) presenta opere raccolte nel Settecento, principalmente da Villa Albani e dallo Studio Cavaceppi (con l’imponente Tazza con Fatiche di Ercole, 50-25 a.C.; la statua di Ulisse sotto il montone, I sec. d.C.). La quarta (XVII secolo) con pezzi provenienti dalla collezione Giustiniani (col citato Caprone, il Guerriero inginocchiato, II sec. d.C.; Afrodite accovacciata, I sec. d.C.; Satiro in riposo, replica di originale di Prassitele, II sec. d.C.). Ultima sezione (XV-XVI secolo), con pezzi che, di collezione in collezione, a partire dal Quattrocento, sono giunti in quella Torlonia (col bellissimo Sarcofago strigilato con leoni, 260-270 d.C.). E il percorso non poteva non concludersi con una copia del volume redatto da Carlo Lodovico Visconti, I monumenti del Museo Torlonia di sculture antiche riprodotti con la fototipia, del 1884, con l’eloquente prefazione: “Non è omai persona colta, la quale non conosca, o di vista di fama, il museo Torlonia, presso la porta Settimiana. Dopo circa 40 anni di larghissimi dispendi e di cure, il principe Alessandro Torlonia, seguendo le gloriose tradizioni di altri magnanimi patrizi romani dei secoli passati, è pervenuto a formare una sì vasta collezione di antiche sculture, che superando a gran pezza qualunque altra raccolta privata, può essere paragonata soltanto coi più nobili e celebrati musei pubblici che si ammirano a Roma, o in qualunque altra delle più cospicue e potenti metropoli di Europa”.
I marmi Torlonia – Collezionare capolavori
Roma, Villa Caffarelli – Musei Capitolini
dal 14 ottobre 2020 al 29 giugno 2021