I ragazzi del ’77

4 Gennaio 2012

Vedi scorrere tutti i volti di quell’anno, il 1977 a Bologna, le case, le manifestazioni, l’università occupata, l’immaginazione al potere e le fiamme degli scontri. I ragazzi del ’77. Una storia condivisa su Facebook ora è un librone di oltre 500 pagine con 1272 fotografie. Ma si è formato giorno per giorno, riannodando sul più diffuso social network i fili di una memoria che appariva dispersa se non cancellata.

 

 

Tutto è iniziato il 5 febbraio di quest’anno, quando Enrico Scuro, il fotografo di quel movimento ormai lontano, ha pubblicato sul proprio profilo Facebook la foto dello spettacolo di Dario Fo che concluse il convegno contro la repressione del settembre 1977. Chiudeva, quella manifestazione europea, l’anno iniziato con le occupazioni delle università, culminato con la drammatica uccisione da parte di un carabiniere dello studente Francesco Lorusso in via Mascarella a Bologna e con l’espugnazione della barricate della cittadella universitaria con gli autoblindo inviati dal ministro degli interni Kossiga mentre un pianoforte suonava Chicago.

 

 

Dario Fo recitava davanti a un mare di persone, i cui volti nella foto si distinguevano appena. Eppure in molti iniziano a taggarsi sull’immagine. A dire: io c’ero. E Scuro pensa bene di aprire gli archivi. Pubblica, sempre su Facebook, in un paio di settimane, tre album di fotografie. Si scatenano i commenti, le discussioni, i “mi ricordo” ma anche i tentativi di storicizzare o di provare a riconoscersi per ritrovarsi a distanza di tempo. Si assegnano nomi a facce, si ricostruiscono i cognomi e le provenienze di incontri intensi, durati spesso solo una stagione. Si prova a riportare giovani volti barbuti o riccioluti, fruscianti gonne a fiori con zoccoli a persone diventate adulte, che magari oggi vivono lontane o sono morte. Si scopre che quel Mario Chessa che sventola una bandiera rossa al vento è diventato Dom Ildefonso dei padri olivetani della basilica di Santo Stefano. Si ritrovano amici perduti, gente andata via da Bologna da anni. Si ricostruiscono percorsi.

 

 

Il gioco continua. Dai cassetti di questa comunità virtuale che si ritrova iniziano ad arrivare altre foto, che contestualizzano i momenti più pubblici con squarci di vita privata di anni in cui si gridava per le strade: “il privato è politico”.

Oggi sul profilo di Scuro trovate tredici appendici. Si è formato, subito, già in quel febbraio, un gruppo intitolato “I ragazzi del ‘77”, col proposito di comporre un libro che desse un filo al lavoro di memoria. E ora questo “romanzo Facebook” è arrivato in libreria, grazie a due piccole case editrici bolognesi, Baskerville e Sonic Press, fondate rispettivamente da Maurizio Marinelli e Oderso Rubini, due che in quell’anno c’erano. È un volume rettangolare di grande formato che raccoglie moltissimi degli scatti pubblicati in rete. Il testo è fatto da parte dei commenti apparsi sotto le foto, dalle accese discussioni che si sono innescate online. Non capisci, al primo sguardo, se narra l’epopea di una comunità reale, del passato, che si incontrava tutti i giorni all’università, nelle case, nelle manifestazioni, in piazza, a fare musica, a discutere, ad amoreggiare, a sognare (quella che descrive Enrico Palandri in Boccalone e quella raccontata dal libro collettivo Bologna marzo 77… fatti nostri), o se è una cartina al tornasole di una comunità virtuale di oggi, che guarda al passato con sentimenti contrastanti.

 

 

Nostalgia ce n’è, indubbiamente, per la gioventù, per ideali che gli anni successivi sembrano avere appannato, contrastato, misconosciuto. C’è autocompiacimento, per “come eravamo belli”, per “come erano belle le ragazze” (“Guardandosi oggi indietro, è vero che eravamo tutti e tutte molto belli e forse ciò che ci rendeva tali – non sono certa, ma mi piace pensarlo – è ciò che avevamo appunto in testa” scrive Gianna Curti Clech, il volto che scatena il discorso).

 

 

C’è come un sottaciuto effetto di inabissamento, per cui poco si parla di ciò che quegli anni hanno generato, di cosa si è stati dopo (Qualcuna confessa: “Non ho parlato alle mie figlie di quello che ero, di ciò che pensavo: credo di averlo trasmesso attraverso il mio modo di fare, di essere”). Si tende a ricordare, a ritrovare pezzi e volti del proprio passato. Poi, a poco a poco, dall’effetto ricostruzione si passa a un interrogarsi su cosa ha spezzato quell’esperienza, su cosa si è oggi, saltando quasi a piè pari gli anni di mezzo, la storia della sconfitta degli anni ’80, delle trasformazioni del mondo.

 

 

Certo, si ricordano i principi di giustizia sociale e libertà che guidavano quel movimento. Si ripercorre la rivoluzione delle radio libere, che a Bologna ebbe quel formidabile laboratorio che fu Radio Alice, esperimento di comunicazione orizzontale, parole e musica in libertà, idee e pratiche che seducevano, interpretavano gli umori. Si ricorda la telefonata di un ascoltatore, che diceva: “Sono costretto a uscire di casa, perché se sto a casa accendo la radio, e dopo non riesco più a studiare..”. Scrive Marzia Bisognin, che fu arrestata quando la polizia chiuse la radio, dopo gli scontri: “…non conoscevo nessun altra di quelle voci. La ascoltavo sempre, di giorno e di notte… E man mano che quelle voci sono diventate persone conosciute, è diventato sempre più uno spazio intimo della vita, intimo e grandissimo al tempo stesso… un po’ come facebook!”

 

 

Nei commenti si riprende la vecchia disputa tra trasformazione rizomatica, che si sviluppa per contagio, per piccoli gruppi, per germinazione interiore, o lotta politica organizzata e magari dura. Si ricorda la fine di tutto, quando lo scontro con lo stato e il terrorismo chiusero gli spazi; quando sulla ricerca di libertà ed esperienze individuali, di “paradisi”, scoppiò come una bomba l’eroina.

 

 

Ma soprattutto nel libro si vedono volti, giovani, di altri tempi, stanze di studenti arredate con fantasia per mezzo di mobili raccogliticci, abbigliamenti composti in mercatini, invenzione di mestieri improbabili per tutelare la propria libertà e autonomia, case come teatrini della psiche, come set di autorappresentazioni in cui ci si combina da dandy, esteriorizzando le ambizioni culturali, spesso distanti dalle condizioni sociali “non garantite”.

 

 

Scorrono eventi politici e collettivi e fatti privati, le manifestazioni, le barricate dopo l’uccisione di Lorusso, gli incarceramenti, ma anche il teatro di strada, i clown che danno l’assalto al palazzo del Comune, i murales, la banda che apriva cortei e feste e che andò anche in Germania. Si narrano i viaggi, Umbria Jazz e l’India, gli affetti, la riscoperta del corpo e della tenerezza dopo gli anni della rigida militanza politica, il femminismo, i fumetti di Scozzari e di Pazienza, la musica dei Gaznevada e degli Skiantos. Scorre quello che è stato chiamato “Carnevale a Bologna”, riferendosi al Carnevale come crogiolo e rovesciamento sociale di cui in quegli anni parlavano Camporesi, Scabia, Celati, sulle orme di Bachtin. Fino agli anni di piombo. Fino forse al compimento degli studi e all’entrata nelle necessità della vita adulta.

 

 

Si racconta di qualcuna, Annarosa, che si trasferì a Roma prima di quel 1977 e poi tornò varie volte a Bologna, della bellissima autista tuttofare dei Gaznevada (“una bellezza fatta di autenticità”, si legge in un commento), della casa aperta di Bifo, il leader, e di altre, disperse in tutta la città, in via San Vitale, via Castiglione, via Fondazza. Di quella in Santo Stefano dove era vissuto, con Giovanni Lindo Ferretti e altri di Reggio Emilia, Alceste Campanile, che sarebbe stato assassinato nel 1975. Di molte altre. Qualcuno scrive: “Fu un periodo unico. Poi la nebbia totale”.

 

 

Nel gioco del ricostruire insieme, Marisa Di Mario si chiede: “Ma quella non sono io?”, e Giuli Idini risponde: “Potrei essere anch’io… anche se non ero a Bologna! Il bello di queste foto è proprio questo: chi ha vissuto quegli anni si riconosce in ogni scatto, anche se non c’è realmente!”.

Si vedono due giovanissimi Enrico Palandri e Claudio Piersanti, che sarebbero diventati scrittori. Gli amici cagliaritani Tognolini (oggi affermato autore per ragazzi) e Cabiddu (regista). Scozzari, Pazienza, Maurizio Torrealta (oggi giornalista per Rai News 24, senza più barba e con pochi capelli), tutti quelli di radio Alice che innalzano una simbolica antenna in piramide umana in piazza Maggiore, feste, bambini che oggi hanno trent’anni, come Amaranta, la figlia di Luciano (che vive in Centroamerica) e Marzia. E poi celerini, macchine ribaltate, le mani ironicamente alzate in segno di resa alla manifestazione del Pci contro la violenza seguita all’assassinio di Lorusso, il funerale dello studente…

 

 

Sembra a volte, lo dice qualcuno in un post, di sentire perfino gli odori di quel periodo, quello penetrante e dolciastro di patchouli, ma anche quello di sudore o di “erba”. E ogni tanto, nel gioco dei riconoscimenti, cade il sasso: lei, Cinzia, è morta, nel 1991. Chiara si è uccisa. Lui se l’è portato via l’Aids.

Interviene qualcuno che quegli anni non li ha vissuti: “Forse potrei dire io, nato nel ’79, da quali fonti ho appreso quel poco che conosco sui ragazzi del ‘77”, scrive Diego Pipi, e elenca gruppi musicali, Area, Stormy Six, Gaznevada, Confusional Quartet, vecchi numeri di “Frigidaire”, filmati reperibili su YouTube, tra cui il documentario Nudi verso la follia di Angelo Rastelli, da immagini di Alberto Grifi. E conclude: “Il mio è un punto di vista ricavato dalle non molte informazioni a me disponibili, ma credo che sia interessante non solo per capire ‘chi eravate’, ma anche per capire come vi vedono i vostri figli”.

 

 

Ai figli è dedicato un capitolo, come alle osterie dove ci si trovava, Trebbi, Picci, la Vigna… (Le rivoluzioni affogano negli spezzatini), alle gonne lunghe, ai viaggi, a Bologna rock, al raduno poetico di Castelporziano, al concerto di Patti Smith, all’orgoglio omosessuale. Tutto quello che è avvenuto, in quella comunità dai confini mobili, tra il 1976, quando nasce Radio Alice, e il 1978 viene documentato, insieme ai nomi di chi ha portato fotografie o memorie, e quest’ultimo elenco riempie quattro fitte pagine.

 

 

Si potrebbe dire che la chiave di questo volume è il narcisismo generazionale, la riscoperta, oggi, di un’accentuata valutazione del sé che era stata depressa dal crollo delle promesse, dei sogni, dell’autostima in fondo. Quella del ’77 è stata una delle ultime tornate di baby boomers, già sull’orlo dell’abisso: c’era stata la prima crisi petrolifera e qualcuno iniziava a parlare di “non garantiti”, non immaginando quanto sarebbe diventata profonda e devastante la precarietà in anni successivi. Quei “ragazzi del ’77” credevano (credevamo, perché chi scrive era di quelle tribù) di cambiare il mondo e pensavano di essere l’ombelico di quel mondo. O almeno volevano diventarlo, un qualche centro, nel loro ambito.

 

 

Col ’77 inizia a vacillare la fiducia nelle sorti progressive propria del novecento (anche le certezze del socialismo, con la rottura della sua vetrina buona bolognese): i crolli sono ancora lontani, ma dietro l’angolo. Inizia, proprio tra i giovani protagonisti di questo libro, lo scontro tra militanza politica proiettata verso un progetto futuro e cura del sé e del gruppo dei vicini, che si sarebbe detta, qualche anno dopo, con qualche spostamento e in altri contesti, “edonismo”. Inizia la nostra postmodernità.

 

 

Nel libro tutto questo riemerge, anche se per l’origine degli scritti (dei post), Facebook, non si arriva mai a un pieno approfondimento. È evidente la voglia di persone che hanno ormai hanno attraversato le delusioni degli anni di riannodare fili. “Ci si è ritrovati in piazza, per così dire, per fare un rammendo collettivo alla memoria”, scrive Marzia Bisognin, che con Paolo Ricci ha aiutato Scuro a comporre il volume. E la piazza a cui si riferisce non è più quella delle manifestazioni, degli scontri, dell’ironia, degli spettacoli, degli incontri e dell’affettività diffusa di tempi ormai lontani, ma quella nuova, virtuale, dove tutti navighiamo, dove si può contrabbandare la propria immagine con una foto di trent’anni fa. Là, con Facebook, cercano di ritrovare storie perdute, giocandoci, ironicamente, con la nostalgia. Anche con quel titolo, che evoca “I ragazzi del ‘99”, i reduci vittoriosi loro, quelli del ’77 con poche vittorie da celebrare. Ironia canaglia!

 

 

Traspare nostalgia, certo, ma anche la voglia di chiedersi: “Quanti eravamo allora! Perché eravamo là? Cosa ci muoveva? Dove ci troviamo oggi?”. Posta, nelle prime pagine, Dom Ildefonso Chessa: “Eravamo sicuramente (senza smentite) giovani, adolescenti e pieni di immaginazione, di voglia di fare. La rivoluzione ci sembrava dietro l’angolo, anzi dietro qualsiasi ostacolo che incontravamo. Siamo stati, ma il tempo è andato avanti e si è svelato e rivelato. Siamo stati ma adesso siamo. Siamo stati ma adesso siamo il risultato di quello che eravamo, la somma delle nostre emozioni, dei nostri sogni, delle nostre certezze. Non amo la nostalgia! Potrebbe diventare una brutta prigione”. E Paolo Ricci, nell’ultimo capitolo, suggella: “Credo che il lavoro di questo momento sia proprio cercare di capire quel che della nostra esperienza di quegli anni era davvero buono, succoso, vitale, separarlo dagli errori e dagli orrori, e portarlo nuovamente alla luce”.

 

 

Si parte da questo documento storico e antropologico di quando Bologna, la supposta capitale del comunismo democratico, fu l’epicentro di un esperimento politico ed esistenziale vitale e controverso. Si ricomincia da questo romanzo - Facebook, atlante di facce, costumi, rabbie, progetti di un passato cancellato troppo in fretta dalla storia, dalle rughe sul viso, dalle delusioni del cuore.

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