Il brand pensiero

12 Settembre 2011

 

La proposta di un “nuovo realismo” in filosofia, avanzata da Maurizio Ferraris in molti dei suoi ultimi libri e, poi, in una serie di articoli giornalistici apparsi su “La Repubblica”, che annunciano un prossimo convegno sul tema, ha avuto, fra gli altri, un curioso effetto: quello di far tornare a parlare di “pensiero forte” e, per contrapposizione, di “pensiero debole”. Espressione, quest’ultima, che dopo trent’anni dalla sua apparizione sulla scena filosofica italiana, pochi ricordavano ancora e quasi nessuno utilizzava più.

 

Di che cosa si tratta? Avendo redatto per il dossier “Anni Ottanta” di doppiozero la voce omonima, ho riletto il volume Il pensiero debole curato nel 1983 per Feltrinelli da Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, dove sono presenti anche interventi di Eco, dello stesso Ferraris, di Marconi, Carchia, Dal Lago e diversi altri. Così come ho ripescato su diverse riviste filosofiche, soprattutto “aut-aut”, tutto un dibattito immediatamente successivo all’uscita del volume, dove sono intervenuti praticamente tutti i principali esperti di filosofia del Paese. La prima impressione che se ne ricava è che ognuno portava avanti una tesi diversa, anche a partire da prospettive teoriche e orizzonti intellettuali estremamente variegati: dall’ermeneutica alla semiotica, dalla filosofia analitica all’estetica e così via.

 

Un punto, però, sicuramente accomunava tutti i protagonisti di quel dibattito: l’espressione “pensiero debole” andava presa con ironia, un’ironia sono solo provocatoria ma volutamente antifrastica. Era una questione di retorica, quella stessa (ma ribaltata di senso) che in molti scritti dei ‘debolisti’ veniva invocata come esercizio di costruzione del discorso di potere e della verità come suo strumento basilare. Il problema non era negare l’esistenza della verità, come oggi si sente ripetere con giornalistica semplificazione, ma rivelare, da un lato, i dispositivi linguistici che la pongono in essere e, dall’altro, gli effetti sociali e politici che essa, una volta accampata da qualcuno che se ne fa portatore, produce. Parlare di “pensiero debole” significava additare l’inconsistenza logica di ogni credenza in una realtà presunta oggettiva e in una razionalità sedicente certa. Significava, insomma, mettere in ridicolo il pensiero forte o, meglio, il pensiero che pretende d’esser forte: la cui forza, in ultima analisi, non è altro che una forma di violenza. I ‘forzisti’, secondo i ‘debolisti’, sono anime bulle.

 

Quel che oggi s’è perso, nella ripresa un po’ farsesca del dibattito d’allora, è proprio questo senso d’ironia, questa sottigliezza dell’argomentazione, questo sistematico, elegante sorriso di fondo mirante a seppellire il bullismo filosofico imperante, le sue prepotenze, i suoi esiti autoritari. In un mondo un po’ semplificato qual è il nostro, dove a dettar legge sono i brand e le loro strategie di comunicazione, quel che s’era sbagliato, possiamo dire a cose fatte, era il naming. Come può qualcosa che si chiama ‘pensiero debole’ rivendicare – come pure giustamente faceva – un suo ruolo critico nella cultura e nella società contemporanee? Insensato! Hanno gioco facile, così, le risorte anime bulle nel dire che il “nuovo realismo” (ovvero l’accettazione ingenua del reale così com’è) è militante e barricadero, mentre quello che viene chiamato irrealismo (ovvero la sistematica perplessità circa le versioni del mondo che i poteri ci propongono) è – lo abbiamo letto  – berlusconiano e puttaniere. Pensiamoci, ragazzi, è il mondo alla rovescia.

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