Diario 10 / Il fruscio di settantamila pensieri

19 Agosto 2020

Ho visto un documentario in tv sui due più veloci risolutori al mondo del cubo di Rubik: un ragazzo australiano e uno americano. L’australiano si chiama Feliks Zemdegs ed è stato il più longevo campione di Speedcubing. Il suo trono ora però è insidiato da Max Park, il nuovo fenomeno della specialità. Max è autistico, e nel documentario conosciamo la sua storia e quella dei suoi genitori. Tra Feliks e Max nasce un’amicizia profonda che trascende la rivalità. I due sono capaci di risolvere il cubo di Rubik in poco più di quattro secondi, muovendo le mani e la mente a una velocità inconcepibile. Riescono a manipolare il cubo anche con una mano sola, e dopo aver memorizzato la posizione iniziale delle varie facciate sono in grado di risolverlo bendati, nel tempo che io di solito impiego per versarmi da bere. Ho letto che la velocità con cui viaggiano le informazioni nel cervello è superiore ai quattrocento chilometri orari. Ogni giorno un essere umano riesce a elaborare settantamila pensieri. Feliks e Max spendono gran parte dei loro settantamila pensieri giornalieri per elaborare gli algoritmi che servono loro a risolvere il cubo. Io spendo i miei per maledire i rumori della mia mente.

 

Al cospetto della natura, Hölderlin fa dire a Iperione: “Tutto il mio essere ammutolisce e sta in ascolto”. Ripensando ai giorni trascorsi in montagna rifletto sui rumori dell’essere. Se mi concentro profondamente riesco a sentire il fruscio di fondo che fanno i miei settantamila pensieri, gli effetti che questi pensieri hanno sul mio organismo, i loro boati. Ogni essere umano è una città viva che emana dei suoni. Ma questi suoni, quando il corpo è posto davanti a uno spettacolo placido e grandioso, tacciono all’improvviso. Il silenzio che ricompongono è simile a quello di uno stormo di uccelli chiassosi nella fronda di un albero che segue il rumore di uno sparo. Nei sentieri di montagna, uscendo da un fitto bosco per ritrovarmi di fronte alla maestà di un alpeggio, la mia città interiore si acquieta. Come Iperione, tutto il mio essere compie un atto di ossequio nei confronti della natura, si pone in ascolto e non chiede altro che pace. 

 

 

Sulla mia testa si sono due enormi pini che si ergono dal giardino del condominio adiacente. Sui pini ci sono colonie di cicale che d’estate cantano furibonde per tutto il giorno, cantano sulla mia testa mentre lavoro in giardino. A volte tra i rami dei pini si posano dei pappagallini verdi. Sono parrocchetti dal collare, una specie originaria del Sudamerica. Si dice che siano arrivati a Roma nel 1999, quando all’aeroporto di Fiumicino ne furono sequestrati un migliaio di esemplari. Non sapendo dove sistemarli, qualcuno li liberò. I parrocchetti che vedo io devono essere i discendenti di quel sequestro. 

 

Quando poi le cicale tacciono all’improvviso, dopo ore di canti indemoniati, solo in quel momento mi accorgo che esistono le cicale.

 

Ad agosto mi piace correre nei quartieri spopolati, abbandono la ciclabile e mi infilo nel dedalo dei marciapiedi. Le strade sono così vuote che riesco a non fermarmi neppure quando i semafori pedonali indicano rosso. Correre fantasticando è l’unico modo che conosco per non sentire la fatica, il caldo, gli odori nauseanti della città che ribolle in una conca d’afa. Ieri mi sono addentrato nel quartiere Flaminio, ho lambito il Villaggio olimpico, le sue schiere di palazzine a quattro piani, il più berlinese dei quartieri romani. Nel campo da basket dove di solito porto a giocare mio figlio c’era un’intera comunità di immigrati del sud-est asiatico, uomini e donne, qualcuno tirava a canestro, la maggior parte piluccava cibo, sorseggiava da un bicchiere, ascoltava musica, prendeva il sole. In tutta la città il campo da basket è l’unico luogo vivo. Forse ne ho visto solo un altro altrettanto vivo: lo skate park sotto al Ponte della Musica. In questi giorni perfino Ponte Milvio, dove di solito s’affollano giovani coppie in cerca di un autoscatto memorabile, è deserto. Attraversando il ponte mi sono fermato al centro della balaustra per godermi la vista del fiume un’ora prima del tramonto. L’acqua compatta formava una lastra d’ardesia su cui galleggiava il riflesso di gonfi cumulonembi vegetali.

 

 

Combatto costantemente un nemico: la distrazione. Mi sforzo di restare concentrato per la maggior parte del tempo. Ma la distrazione, che è il nemico della concentrazione, non mi dà tregua. È una mosca che mi ronza intorno, si posa sulla fronte, sul collo, sulle braccia, sulle mani, mi ricorda in ogni istante la sua presenza. La distrazione è l’essenza con cui trascorro le giornate. Mentre scrivo, cerco di restare non solo con la mente nella cosa che scrivo, ma anche con il corpo. Stare con la mente e con il corpo dentro la cosa che scrivo innesca uno stato di tensione. La distrazione allora dev’essere una risposta difensiva sviluppata per via genetica in millenni di evoluzione. La mia natura umana difende me stesso dalla tensione derivata dalla concentrazione, e quindi, nel mio caso, difende me stesso dalla scrittura. Essendo la concentrazione una disciplina del pensiero, riguarda la nostra vita interiore. La distrazione è invece il richiamo a una conoscenza puramente materiale del mondo. È come se tra vita interiore e realtà del mondo ci fosse un unico collegamento rappresentato dalla distrazione. La distrazione è ciò che ci salva dalle prigioni del pensiero. Se si potesse scrivere non più nella vita interiore, ma nella realtà del mondo, se la scrittura si concedesse come un atto naturale, entro i confini dell’universo sensibile, e quindi al di fuori del dominio della concentrazione, potrei vivere nella distrazione e al contempo stare con la mente e con il corpo dentro la cosa che scrivo, e la scrittura sarebbe un fatto di natura come lo sono l’impollinazione, le maree, i tramonti, le migrazioni. Invece sono condannato a questa lotta eterna, a entrare e uscire da questa soglia, costretto all’afasia, al mutismo, al silenzio, all’impresa di non lasciarmi trascinare nel mondo. 

 

Qualche volta, per lo più quando mangio, o meglio quando penso a me che mangio (perché di solito non mi guardo mangiare), provo tenerezza per me stesso. La provo in genere quando mi prendo cura di me. Quando mi impegno a non morire, o a farlo il più tardi possibile.

 

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