Disincanto / Il lieto fine di Michael Haneke
Quando mesi fa è iniziata a circolare la notizia che il nuovo film di Michael Haneke sarebbe stato una storia ambientata tra i migranti di Calais e che si sarebbe chiamato Happy End non si poteva non pensare a un’astuta forma di presa in giro. Temi sociali e finali accomodanti sono forse due tra le cose più lontane che si possa immaginare appartengano all’universo filmico di Haneke. E infatti anche questo Happy End – sorta di sintesi filosofica del pensiero del registra austriaco – non fa eccezione. Il film inizia con delle stranissime immagini di pessima qualità riprese da uno smartphone da parte di quella che scopriremo essere una delle protagoniste del film, l’adolescente Eve: vediamo la madre che si lava i denti e che va in bagno e la figlia che la riprende commentando la stanca routine del genitore con cinismo e distacco; poi vediamo un criceto in gabbia a cui Eve somministra dei medicinali che lo fanno rimanere stecchito; e infine la madre – sempre filtrata attraverso uno smartphone – “finalmente zittita” a causa di un avvelenamento, sdraiata su un divano con la figlia che commenta: “ora chiamo un’ambulanza”. È uno sguardo quello del mondo dello smartphone di Eve che non vede le cose passivamente, ma in un certo senso le anticipa e le determina. Ne è sempre in qualche modo responsabile anche in una forma crudele e cinica, dove nemmeno la madre e il proprio animale domestico – normalmente parte dell’universo affettivo di un’adolescente della sua età – vengono risparmiati.
Da sempre un cinema del disincanto com’è quello di Haneke – un cinema cioè che non crede nelle possibilità dell’immagine di esprimere una verità, ma che anzi ne vuole sempre sottolineare impossibilità e mancanze – si deve misurare con una delle domande più insidiose delle propria filosofia implicita: se davvero lo sguardo non può mai essere innocente, chi ne è dunque il colpevole? Chi ne è il responsabile? Molti critici si limitano a ridurre il cinema di Haneke a una sorta di generalizzazione cinica della colpa e della responsabilità con il rischio di liquidare un pensiero rigorosissimo del cinema in una sorta di blanda sociologia del contemporaneo. Haneke è regista troppo colto e troppo raffinato per potere cadere in una trappola del genere, e niente come questo film all’interno della sua filmografia lo mostra in modo così chiaro. Quando in una delle prime sequenze del film noi vediamo un cantiere edile dove improvvisamente avviene un crollo che uccide – poi sapremo – un operaio e ne ferisce diversi altri, il problema è proprio stabilire la posizione soggettiva di questo campo visivo. Chi è che sta guardando la catastrofe che abbiamo di fronte agli occhi? La macchina da presa attraverso cui vediamo la scena è una telecamera a circuito chiuso: è cioè un punto di vista vuoto che non viene occupato da nessuno. Chi ne è dunque il responsabile? Non siamo forse ormai giunti a un regime dell’immagine dove le immagini “si guardano” senza che vi sia più nessuno che se ne possa assumere davvero la responsabilità?
Lo sguardo disincantato del contemporaneo – ci sembra voler dire Haneke – non ha ormai più alcun soggetto. E infatti il film è letteralmente popolato da personaggi morti o che sono sull’orlo del suicido, anche quando sono ancora temporaneamente in vita. La famiglia attorno a cui ruotano gli eventi di Happy End è composta da una donna in carriera (interpretata da Isabelle Huppert) che sta per vendere l’azienda famigliare decaduta a delle banche inglesi (che segue il cinismo della decadenza economica capitalistica), un fratello medico (Mathieu Kassovitz) che invece è preso da tre donne che non ama – una moglie da cui si è divorziato e da cui ha avuto una figlia, una compagna attuale che non ama, e un’amante che non è in grado di soddisfare – e poi da un’adolescente come Eve e un vecchio patriarca preso da una demenza senile che sembrano gli unici che riescono davvero a percepire il disincanto brutale del mondo che gli circonda. Non c’è bisogno di aspettare una rivelazione a metà del film per capire che quello che abbiamo di fronte agli occhi è un vero e proprio sequel di Amour, dato che i personaggi sono interpretati dagli stessi attori (Jean-Louis Trintignant e Isabelle Huppert) e che è proprio la generazione di mezzo, quella cioè del fratello e della sorella, che è troppo dentro alla catastrofe per riuscire davvero a “vederla”. Sarà allora una strana alleanza tra il nonno demente e l’adolescente anaffettiva ma nascostamente violenta che mostreranno come l’unica possibile posizione soggettiva sia proprio quella della contemplazione e della consapevolezza della catastrofe. Dall’assunzione definitiva di come ormai non vi sia più alcun soggetto vero e proprio dietro allo sguardo: lo sguardo dello smartphone appunto come testimonianza ormai di una “visione senza soggetto”, o per meglio dire di uno sguardo senza essere umani.
Il pessimismo di Haneke non ha allora più nulla della morale, ma è ormai diventato ontologico: il disincanto non appartiene più a una scelta ma a una condizione del nostro stare al mondo dalla quale non possiamo più sfuggire. Si tratterà allora di abbracciarla fino in fondo senza illudersi di essere dei soggetti, ma solo dei supporti di uno sguardo che non ha ormai alcuna agency, esattamente come quello di uno smartphone mentre andiamo lentamente verso la deriva.