Il mio nome è Noma

28 Aprile 2013

Ormai manca poco. Domani, durante la finale di “The World's 50 Best Restaurants Award”, l’imponente competizione internazionale promossa dalla rivista britannica Restaurants, verrà proclamato il “miglior ristorante del mondo” per l’anno 2013. E sarà una sorpresa, nel senso che, archiviato il periodo (2006 - 2009) di incontrastato successo di Ferran Adrià con El Bulli, volgerà al termine, anche a causa di uno scandaletto ad hoc, la lunga era del Noma di Copenhagen, vincitore dal 2010 al 2012. Così, mentre aspettiamo il nome del nuovo ristorante chiamato a portare il vessillo di eccellenza della gastronomia internazionale, è il caso di rendere conto dell’esperienza del Noma, convinti che questa stessa esperienza e il suo successo siano esemplari, segno di più ampie e profonde metamorfosi a Nord del Vecchio Continente.

 

Una prima considerazione è che la cucina del Noma, pur essendo stata inserita e lanciata all’interno di un frame spettacolare come quello della manifestazione sopra citata, difficilmente potrà essere archiviata come fenomeno passeggero, “moda del momento”. Anzi, già dalla sua nascita si propone come progetto a lungo termine, collettivo e politico. Il Noma aggancia, infatti, la sua attività a un vero e proprio manifesto gastronomico, che esplicitamente vuole rifondare una “Nuova Cucina Nordica”.

 

Ecco perché, al contrario di Adrià, René Redzepi, chef del ristorante, propone la propria cucina come strumento al servizio di un territorio (con tutto ciò che questa parola, vedremo, può significare) e di una cultura, di cui vuole essere allo stesso tempo interprete e strumento di riscatto. Non è un caso che il progetto abbia avuto inizio a partire dal successo di un altro ristorante, il Babette di Vordingborg , per anni considerato il miglior ristorante danese. Vi ricorderete la storia del film a cui questo secondo ristorante è dedicato. Babette, comunarda parigina sfuggita alla repressione del generale Galliffet grazie a un salvacondotto verso le coste danesi, viene accolta come servitrice in casa di due anziane signore, Martina e Filippa, figlie devote del pastore di un piccolo villaggio luterano. Vi ricorderete anche che in quella storia i danesi mangiano davvero malissimo e che la straniera Babette si cimenta in un fastosissimo pranzo con roba importata a caro prezzo direttamente da Parigi. Ciò al fine di mostrare ai propri dimessi commensali quanto importante sia, nella sua cultura di provenienza, il momento del convivio. Sia nel racconto sia nel film si costruisce così una sorta di dicotomia fra il cibo locale consumato dalla comunità di fedeli, umile e monocorde al limite del disgusto, e il cibo francese proposto come strumento di piacere, rinnovamento e salvezza. Questa dicotomia vede trionfare Babette la quale riuscirà a conquistare i propri commensali, grazie alla magnificenza del proprio pranzo.

 

A partire dal successo del film, si diffondono ristoranti intitolati a Babette, vere e proprie sacche di resistenza al “puritanesimo alimentare” dominante. Questi ristoranti propongono per lo più cucina internazionale e si caratterizzano per il fatto di celebrare il cibo come arte assoluta, alla ricerca di sofisticate suggestioni. Perfino in Danimarca, bersaglio delle critiche di Babette, arrivano ristoranti di questo genere. Tanto che sarà il gruppo che si riconosce intorno al Babette di Vordingborg a tentare l’avventura di una rifondazione della cucina nordica in un linguaggio culinario contemporaneo (ispirato, quindi, agli insegnamenti della tanto amata cuoca rivoluzionaria) ma allo stesso tempo legato al peculiare scenario nordico. Il progetto prende effettivamente corpo grazie all’intervento di personaggi del calibro di Claus Meyer e dello stesso Redzepi (scelto perché allievo di Adrià e di Keller), chiamati per lanciare quello che sarebbe diventato il più importante esperimento di alta cucina del territorio in Danimarca, il primo ristorante del mondo.

 

Da una simile genesi, una serie di conseguenze. Si capisce che la nuova cucina nordica di Meyer e Redzepi può essere letta come un caso veramente originale di re-invenzione della tradizione: essa nasce come risposta alla fiction di Babette, e si propone come canone che non ha paura di rifondarsi, introducendo nel lessico culinario locale ampi spazi di innovazione, nuovi modi di stare a tavola, nuovi piatti, nuovi ingredienti. La originalità di un simile tentativo va nella direzione di un traghettamento della cucina tradizionale locale, che gli storici dell’alimentazione chiamerebbero “sintetica”, verso una più moderna cucina “analitica”. In questa rivoluzione culinaria (che nel resto d’Europa avviene a partire dall’Illuminismo) a cambiare è il modo stesso in cui le pietanze vengono create, servite e consumate. Da indecifrabile amalgama di ingredienti, il piatto si trasforma in segno di se stesso, “sinfonia di sapori” che sollecita interpretazione e discussione. I piatti del Noma si propongono come composizioni pronte a essere decostruite dai commensali che, dal canto loro, fanno di questa attitudine un status, cimentandosi in riconoscimenti sempre più complessi e articolati. Prendiamo a esempio il caso dell’Øllebrød, porridge tradizionale consumato nei paesi scandinavi, ed esibito come esempio di disgusto nel film. Ebbene, esso ritrova una nuova vita e un nuovo appeal nel menu del Noma, non appena riproposto secondo le regole compositive della cucina analitica. Eccolo nel Pranzo di Babette:

   

   

Ed eccolo servito al Noma:

   

   

Ma c’è di più. La nuova cucina nordica non si limita a “reinterpretare” i piatti della tradizione ma ne propone di nuovi. Questi sono accomunati dal possedere una caratteristica fondamentale, quella di esser preparati con ingredienti locali. Banale, verrebbe da dire, se questa idea di rivalutazione del territorio non fosse più radicale delle varie retoriche del terroir. Tutta la cucina del Noma è il tentativo di risposta a una situazione a dir poco assurda che possiamo porre in questi termini: come può una cucina del Nord d’Europa, inserita in un ambiente geografico peculiare, pensare in termini mediterranei? La ribellione, si capisce, è contro lo schema culinario più tradizionale, che emerge come simbolo di inculturazione a opera di “civilizzatori” responsabili d’aver importato un’idea di “buono da mangiare” impossibile a certe latitudini. Oltretutto negando ogni legittimità culinaria a ciò che spontaneamente avrebbe potuto essere raccolto e mangiato in loco.

 

Il Noma con la sua attività culinaria interroga allora i suoi ospiti: chi dice che muschi e licheni non possano essere altrettanto buoni dei fichi che Babette esibisce durante il suo famoso pranzo? È proprio su questo aspetto, quello della sperimentazione di ingredienti come muschi e licheni, ritenuti non commestibili, che lavora ormai da qualche anno il Mad Symposium, happening estivo che raccoglie appassionati gourmand da tutto il mondo, nato dal gruppo e dall’esperienza del Noma. E anche qui l’analogia è possibile. Ecco Babette raccoglie verdure selvatiche nella campagna danese:

   

  

Ed ecco Redzepi al lavoro:

     

   

C’è un’avvertenza. Perché questa re-invenzione possa davvero funzionare bisogna ritrovarsi in una condizione esistenziale peculiare: quella dello straniero. La cucina di Redzepi, immigrato macedone di seconda generazione, così come quella di Babette, suo doppio finzionale, nasce da uno sguardo estraneo costretto a orientarsi in un mondo insignificante. Lo straniero non può cullarsi nella prevedibilità del sapore conosciuto. Deve giocoforza assaggiare. Passeggiare e assaggiare la verdura selvatica offerta dal territorio, anche sotto casa, come propone Redzepi e come fa nel film la stessa Babette, è il vero gesto rivoluzionario della nuova cucina nordica. Solo così facendo gli uomini del Nord potranno riconoscere la loro terra e ricostituirsi come gruppo. Oltre gli inutili steccati delle cucine nazionali.

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