Il pensiero delle pietre

8 Dicembre 2022

“Non esistono lavori inutili: Sisifo si faceva i muscoli”. È la formula che Roger Caillois, dal continente sudamericano, pone in exergo alla sua Roccia di Sisifo, apparso nello stesso anno, il 1942, in cui sull’altra riva dell’Atlantico Albert Camus pubblicava Il mito di Sisifo. La figura del mito greco incarnava per Caillois l’inesausto sforzo con cui la civiltà si ricostruisce per reazione agli assalti scatenati dalla risorgente barbarie.

Il filosofo pied noir ritrovava invece la dignità del vivere umano proprio nell’eterna fatica di sollevare un macigno in cima al colle per vederlo ben presto scendere a valle. Il linguaggio della durezza è l’insegnamento morale che le rocce ci forniscono, scriveva Gaston Bachelard: non smettendo di ripetere il suo gesto, Sisifo apprende il valore dell’ostinazione e si scopre superiore all’assurdità dell’esistenza. “Dobbiamo immaginare Sisifo felice”, era questa la conclusione di Camus. Il lavoro di Sisifo affascina per il suo eterno ritorno: come capita ad altri condannati dagli dei (Tantalo, le Danaidi, …), lo interpretiamo come allegoria della nostra fatica quotidiana, della nostra dolorosa condizione di scoiattoli in gabbia che fanno rotolare senza sosta la loro ruota.

Sempre, quando si interpreta il mito, ha osservato Michel Serres in Statues (il secondo libro delle fondazioni, dopo Roma), parliamo di noi stessi dimenticando la perpetua caduta della pietra: il narcisismo umano ci rende sensibili all’ostinazione silenziosa del condannato, ma fa dimenticare l’oggetto testardo che giace lì, ob-jectum, gettato davanti a lui. Lasciamo la pietra nell’oscurità e nel silenzio, per occuparci solo del peso di vivere, del vano dispendio del tempo che ci è stato dato. Ci ricordiamo della causa, del tribunale divino che ha emesso la sentenza, e restiamo ciechi alla cosa; il latino chiamava res la “cosa” e poi l’oggetto della procedura giudiziaria per cui l’accusato diventa reus, come se la sola realtà umana venisse dai tribunali. La legge per la quale cadono in natura i corpi pesanti passa in secondo piano rispetto al nomos che chiama in giudizio e valuta le colpe.

Leggiamo il mito dalla prospettiva delle scienze umane, dimentichi del mondo in cui siamo giunti per ultimi, ospiti scomodi e forse indesiderati. “Eppur si muove”: quando Galileo cercherà di sostituire la legge fisica alle regole del pretorio, forzando il passaggio dalle cause alle cose, dovrà vedersela con la logica dei tribunali. Dimentichiamo che il mito di Sisifo mette in scena l’archeologia della caduta dei corpi: la pietra cade e la natura non conosce colpevoli. Ci fornisce una definizione corretta del lavoro, forza e spostamento, e della sua misura dinamica, anche se la punizione infernale prospetta un moto perpetuo che l’esperienza rifiuta: per far risalire la pietra occorre l’energia dei muscoli che non si ricrea ma si disperde. La “fortuna” di noi viventi è che ogni lavoro implica usura e spreco: noi siamo Sisifo che invecchiano, i nostri organismi si logorano e la morte ci sottrae al ciclo, perfetto e impossibile, della ripetizione infernale. 

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Ma anche Sisifo ha dimenticato i suoi antenati. Narra lo Pseudo Apollodoro della Biblioteca che Sisifo era figlio di Eolo e discendeva da Pirra, figlia di Pandora, quella che aprì il vaso dove si nascondevano i mali dell’umanità. Pirra e suo marito Deucalione, a sua volta figlio di Prometeo, costruirono un’arca per scampare al diluvio con cui Zeus volle punire i crimini della “stirpe di bronzo”. Dopo nove giorni e nove notti di tempesta, Deucalione e Pirra, gli unici sopravvissuti, “giusti e religiosi”, ripararono “sulla vetta del Parnaso” che ancora emergeva, canta l’Ovidio delle Metamorfosi.

Qui furono raggiunti da Ermes, inviato da Zeus perché esaudisse un loro desiderio. Deucalione chiese di far nascere sulla Terra una nuova generazione ed Ermes li invitò a gettarsi dietro le spalle le ossa della loro madre; Pirra rifiutò di compiere quel gesto empio, ma Deucalione comprese che Ermes alludeva alle ossa della madre Terra. Dalle pietre scagliate nacquero uomini e donne: quelle pietre sono gli scheletri dei morti, resti dei cadaveri degli antenati da cui risorgono i loro figli.

Dietro il lavoro sempre ripreso di Sisifo sta la caduta della pietra, il suo ritorno alla terra, nell’ombra della tomba, come se la traiettoria fosse simmetrica e complementare al gesto di Deucalione e Pirra: dalla risalita alla caduta in attesa del ritorno alla vita. La pietra rotolata da Sisifo, rileva Serres, è la nostra anteriorità immemoriale e la nostra totale posterità, cioè il genere umano; in essa, custode della morte e della vita, giacciono i semi arcaici del futuro, forse quelli che ci riportano a un lontano passato. 

Ho il sospetto che Sisifo fosse un migrante proveniente dall’Egitto e che il suo corpo portasse memoria di decennali fatiche. L’Erodoto delle Storie racconta che Cheope impose a tutti gli Egiziani, con turni di centomila uomini, di costruire la strada su cui trasportare le pietre che sarebbero servite per la sua piramide. “Agli uni impose di trascinare le pietre fino al Nilo dalle cave dei monti Arabi; e ad altri ordinò di ricevere le pietre che avevano passato il fiume su battelli, e di trascinarle fino ai monti chiamati libici”. Per una trentina d’anni, ogni Egiziano porta la sua pietra sul corpo assente del Faraone, miliardi di pietre per la tomba che ne accoglierà il cadavere mummificato.

Le Piramidi sono ammassi di pietre sulla tomba dei sovrani, lapidazioni distribuite lungo la durata dei loro regni. Invece di morire subito sotto il lancio delle pietre, come santo Stefano e tanti altri in tutte le culture, i faraoni inventano un linciaggio diluito lungo i decenni; è così che il re si protegge e, grazie al gesto che lo lapida senza ferirlo e gli prepara la tomba, inventa lo Stato.

La lapidazione regolata e differita contribuisce a istituire la regalità del potere, a fare della vittima virtuale il sovrano, e insieme a fondare il collettivo: la pietra è quel che Serres, in Roma e nel Parassita, ha chiamato un quasi-oggetto, la cosa che si trasporta e si scambia nella moltitudine non integrata per far sì che si costituisca il gruppo unificato. “Cheope, prosegue Erodoto, giunse a tanta malvagità che, occorrendogli denaro, mise sua figlia in un lupanare, con l’ordine di raccogliere una determinata somma, che non mi è stata precisata.

Ella eseguì l’ordine del padre; ma volle anche lei lasciare un suo ricordo, e a ogni visita chiedeva che le si donasse una pietra. I sacerdoti mi dissero che con queste pietre fu costruita la piramide che sorge in mezzo alle tre dinnanzi alla grande piramide, e di cui ogni faccia misura un plettro e mezzo”. Eccoci di fronte a un momento di transizione: il sacrificio umano viene procrastinato nel tempo, per ora si prepara il loculo in cui troverà posto la vittima mummificata, in attesa di sostituirla con un animale. La Sfinge, ibrida mescolanza, statua dalla testa umana e dal corpo animale, è il feticcio che eternizza l’istante della sostituzione, lo stesso istante in cui, nella storia biblica, Isacco è scambiato con un capro per intervento dell’angelo del Signore.  

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Cheope fece chiudere tutti i santuari per impedire altre pratiche sacrificali, solo sul suo corpo assente doveva scaricarsi il furore collettivo: la violenza del molteplice e il desiderio della folla si canalizzano sull’uno, sul soggetto (sub-jectum, colui che è gettato sotto), mummia che “qui giace”, ci-gît, dice il francese per tradurre il Dasein di Heidegger, il nostro esser-ci. L’odio depone pietre sul cenotafio, l’amore si stende sul corpo della figlia, la moltitudine paga la sua imposta ed è così che si costruisce il corpo sociale: schema a stella o a piramide rovesciata, dove il molteplice subisce l’attrazione strana di un solo punto, re o puttana.

La pietra serve alla fondazione, base solida e immobile su cui edificare la Città e lo Stato; ma quando corre e percorre il molteplice, gettone che si trasporta e circola, serve a fondare il collettivo, è il quasi-oggetto che fa della moltitudine l’uno, della folla in agitazione (turba) un corpo coeso. Come il denaro, nexus rerum et hominum, ruffiano universale che combina accoppiamenti scandalosi, come diceva Marx, anche la pietra fa qui da mediatore universale, rende equivalenti beni e uomini nello scambio. 

La mummia, celata nell’ammasso di pietra della piramide, è il primo oggetto lavorato, statua che rende immortale la morte e luogo di fondazione; le religioni delle cose, l’Egitto e Roma, propongono agli uomini di nascere di fronte a pietre morte, altre religioni venerano pietre sacre. Forse cominciamo a comprendere la Scrittura: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa”. La frase fondatrice indica una transustanziazione, in Pietro il Verbo si fa carne, e la pietra-materia passa dal solido inerte all’ecclesia, assemblea dei fedeli.

Dal nome proprio, dalla carne viva alla pietra inerte dell’edificio: catena di sostituzioni, di cui la pietra è l’invariante, che si conclude nella comunità dei fedeli, nell’istituzione di un Noi. La fondazione non ha più bisogno di compiersi a colpi di pietre; se il Deuteronomio prevedeva la lapidazione sia dell’uomo che della donna colpevoli di adulterio, il Gesù del Vangelo di Giovanni, interrogato in merito alla lapidazione dell’adultera, esclama: “chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra”. Ma nel Vangelo di Marco (13,1-2), mentre esce dal tempio, al discepolo che lo invita a osservare l’imponenza della costruzione, risponde: “Non sarà lasciata qui pietra su pietra che non venga distrutta”.

Le religioni del Verbo chiedono ai propri seguaci di frantumare gli idoli, i monoteismi del Logos, parola e scrittura, li espellono. E questo perché gli idoli sono statue, cioè corpi viventi ricoperti di pietre, la carne trasformata in pietra è un corpo lapidato: le cose mute sono le grandi assenti dalla storia e dalla filosofia, precedono le lingue da cui sono state rimosse. Come nel caso della moglie di Lot e di Orfeo, vale qui l’interdizione di voltarsi, di guardare in faccia la morte da cui proveniamo.  

“A differenza di ogni altro essere vivente, noi, del genere umano, siamo nati dalla morte”, scrive Serres in Statues. Proveniamo dalla durezza (hard) delle cose, dalla pietra inerte e tumulare, prima di nascere dalla dolcezza (soft) della parola. Anche i saperi finiscono per interessarsi solo dei segni volanti, delle idealità formali, rimandando nell’oblio le cose che ne sono i supporti. All’origine della presunta purezza delle matematiche sta la misurazione dell’altezza di una piramide, attribuita a Talete che ne calcola l’ombra portata sulla sabbia del deserto. Ma lasciamo nell’ombra la pratica di coprire un cadavere con un cumulo di pietre, finiamo per ignorare che la piramide è una tomba.

È dentro di essa che riposano i fondamenti dei nostri insediamenti, delle nostre pratiche e del nostro sapere, come suggerisce l’assonanza fra episteme, la conoscenza salda che si sorregge da sé, ed epistema, il cippo funerario. La geometria euclidea, ricorda Serres nel Passaggio a Nord-Ovest, parlerà ancora il linguaggio della statica, va in cerca di equilibrio e stabilità, come avveniva nell’universo delle tecniche, dei capimastri e dei tagliatori di pietre, nella metrica degli agrimensori. Il gesto d’origine della scienza, il cosiddetto miracolo greco, è un gesto di purificazione: si fa tabula rasa dell’empiricità in cui le cose sono immerse, ripetendo l’opera del sacerdote che ripulisce lo spazio su cui sorgerà il templum, dell’agricoltore che caccia i parassiti dal suo campo, del filosofo che annulla quanto è passibile di dubbio per conquistare la verità certa.

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La formazione dello spirito scientifico, sosteneva Gaston Bachelard, mira a sviluppare un “pensiero della pietra”: il ricercatore è chiamato a purificare la sua mente dalle componenti emozionali e inconsce che sempre popolano l’immaginazione, a compiere il gesto “razionale” di esclusione delle suggestioni metaforiche, parassiti che assediano il suo spirito, fino a praticare su di sé il sacrificio di morire al mondo per accedere alla natura constructa della scienza moderna.  

Si racconta che i nostri progenitori siano stati ospitati in un giardino: cellula matriciale, spazio chiuso e forse privo di confini, luogo di vegetazione lussureggiante, terreno ricco di humus, ma a cosa doveva la sua fertilità? Il primo giardino è stato un cimitero, sotto il terreno la morte è già sovrana, presiede anche alla vita. L’Emile Zola della Fortuna dei Rougon fa iniziare la sua “storia di una famiglia sotto il II Impero”, il ciclo dei Rougon-Macquart, dall’aia di Saint Mittre, un giardino dalla fertilità esuberante grazie alla putrefazione dei cadaveri che vi erano stati sepolti. Anche la vita forma un ciclo, nel senso della termodinamica di Carnot, eterno ritorno di rinascita dalla morte. Questo luogo primario, ricorda il Serres di Statues, marca un’epoca all’aurora della storia, quando gli avi sconosciuti dei nostri antenati dimenticati seminavano lo spazio di menhir o megaliti per definirne le singolarità.

Una stele di pietre marca il luogo della ierofania, là dove il sacro si è reso manifesto: così fa Giacobbe deponendo una pietra nel punto in cui inizia la scala sulla cui cima ha incontrato il Signore. La tradizione ebraica vuole che si depongano pietre sulle tombe, forse in memoria dell’epoca in cui, pastori nomadi del deserto, costruivano tumuli per ricordare dove erano sepolti i loro cari. O forse per evitare che i sacerdoti potessero avvicinarsi ai luoghi impuri delle sepolture. I nostri progenitori, non più cacciatori e raccoglitori, posavano i piedi sulla dura terra, venivano sepolti nel luogo in cui erano nati e vissuti; i loro cadaveri si trasformarono in pietre, a segnare confini marcati da cippi e statue entro i cui tracciati organizzare un giardino. Noi, che non abitiamo più un luogo ma siamo nomadi ubiqui e viviamo nei segni, non definiamo più la nostra identità neppure attraverso un loculo, lasciamo che anche le nostre ceneri vengano disperse, come le nostre vite. 

La pietra tombale serve da riferimento, è il punto fisso in cui ritrovare il luogo d’origine e a cui riportare le cose del mondo. L’omphalos, rigonfiamento del suolo o pietra tombale, ricordava Jean-Pierre Vernant, è il punto centrale di forma rotonda, associato, come il focolare di Hestia, dea della casa, alle potenze ctonie e femminili che custodiscono il segreto del succedersi delle generazioni e della fertilità. Nel significato di “ombelico”, l’omphalos ricorda nella sua forma prominente il ventre gravido della donna e il tumulo che custodisce i cadaveri degli antenati: principio del radicamento nella Madre Terra. Attorno al luogo che accoglie il cadavere si compiva la fondazione della polis, per garantire la continuità della vita. La città ha origine sulla tomba, la prima città è una necropoli, giacimento e serbatoio per i tempi a venire. Parigi e Roma sono costruite su catacombe, da lì escono nei secoli le pietre dei loro edifici; nelle placche più basse in senso geologico delle fondazioni, autentici archivi dormienti nella terra, troviamo, testimoni tangibili e concreti, le pietre accanto ad ossa, statue spezzate o utensili. Esistiamo come uomini perché veniamo dalla terra, dalle pietre e dalla morte che rendono possibile la costituzione del soggetto e del collettivo. 

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La grecità, come Ulisse e lo schiavo della Repubblica platonica, esce dalle ombre della caverna dove stanno i mostri e l’ignoranza per risalire verso il sole del logos, passando attraverso lo spazio delle similitudini e della rappresentazione, le forme pure della geometria. Gerusalemme illumina la Scrittura, dispiega il senso da cui abbiamo tratto la concezione del tempo e della storia. Roma, rileva Serres, ci richiama invece all’interno dell’antro, nell’ombra custodita dalle cose: la sua incarnazione non è quella dello Spirito, del Libro o del Nous, è quella del materiale, della res che l’idealismo dimentico del mondo lascia nei rifiuti.

Roma non dialoga, si batte e costruisce, risiede dentro i suoi gesti e il suo corpo materiale; non pensa se stessa, pesa e rimane di pietra. “Roma è tetragona e ottusa come la pietra, nera come le viscere di una pietra, non è mai trasparente come la piramide o il tetraedro dell’epifania greca; e non è mai moltiplicata, come l’interpretazione ebraica, sullo spazio bianco del deserto” (Roma). Roma è di pietra, costruisce edifici e templi, ponti e canali idraulici, affida alle pietre il compito d’incanalare le acque.

Le pietre servono per la lapidazione e la fronda, oppure per i frontoni e per proteggersi entro solide mura dagli assalti dei barbari che demoliscono per ricondurre la pietra al suo destino di proiettile; si lapida meglio tra le macerie o nei cantieri abbandonati. La saggezza invita a costruire per immobilizzare la pietra e ammansire l’odio, esorta a non lapidare per non dilapidare. Civiltà come Roma e l’Egitto accumulano, interrano e capitalizzano le pietre, per formare tombe e fondazioni, avvolgono il tempo e lo custodiscono per non disperderlo.

Simile in questo all’Egitto, Roma assorbe la luce, la cattura e la conserva entro solide mura. La sua geometria non è quella dello spazio diafano e trasparente, della luce che percorre i solidi platonici; anch’essa è di pietra, immersa nella massa opaca che custodisce la luce all’interno. Il fuoco posto al centro del tempio circolare dell’Aedes Vestae è affidato alle cure delle vergini, spazio femminile della protezione e della clausura, contrapposto ad Ermes, spazio maschile dell’erranza nello spazio.

Prima che si compia il fratricidio da cui sarebbe sorta la città eterna, secondo la narrazione delle Storie di Tito Livio, ecco lo stupro di Rea Silvia, vestale della gens albana uscita dalle selve, ad opera di Marte che, invaghitosi di lei, la rende madre dei gemelli. Prima del solco tracciato per delimitare il confine dell’urbs, con cui la terra era stata ferita dall’aratro di Romolo, prima delle mura sotto le quali si nasconde il cadavere di Remo, vi è lo stupro di una vergine. E prima ancora, la leggenda (o legenda, quel che bisogna leggere) vuole che in quei luoghi Ercole abbia ucciso il gigante Caco, reo di avergli rubato dei buoi e averli nascosti in un antro. Se apriamo la scatola nera delle origini, suggerisce Serres in Roma, troviamo urla di animali, grida di uomini uccisi, frastuono dei bovari, atti di ripetuta violenza. Rea Silvia fu seppellita viva, cosa su cui Livio sorvola e che ci narra Plutarco.

La vestale che viene meno al voto di castità, come prescrive il rito sacro, presieduto da sacerdoti e a cui assiste la città intera, è condotta in una cripta sotterranea, il cui ingresso è poi sommerso di terra; la sepoltura è una sorta di linciaggio, simile a quello che subirà Tarpeia, accusata di avere aperto la porta della città al nemico, sepolta sotto gli scudi dei Sabini e lapidata con i loro bracciali. La madre di Roma è occultata dalla storia, sepolta nel luogo delle origini; “fondazione della fondazione, tomba sotto tomba”, scrive Serres. Ecco il gesto dell’origine, stupro e lapidazione che dirige sull’uno le pietre della moltitudine: sotto la roccia della fondazione si nasconde il cadavere della vittima innocente.

È questo, ha spiegato René Girard in La violenza e il sacro (1972), il meccanismo che dalla violenza conduce al sacro: dallo scatenarsi caotico dei conflitti, dalla “peste” indifferenziata in cui il gruppo si sgretola, si ricostituisce un ordine pacificato facendo ricadere sul capro espiatorio gli odi della moltitudine. È questo quel è rimasto nascosto sin dalle origini del mondo e che il messaggio evangelico rovescia: la vittima, qui tollit peccata mundi, è innocente, “prende su di sé” il diffondersi della violenza. In realtà, la colpa è distribuita, nessuno è senza peccato e quindi in condizione di scagliare la prima pietra contro l’adultera (oggi ci limitiamo a scagliare degli insulti via social, che sia questo il progresso?) 

Romolo ha indetto un’assemblea, racconta Tito Livio, presso lo stagno della Capra quando di colpo scoppia un uragano; il re è sottratto agli sguardi sotto una nube densa e quando la luce riappare, il trono del re è vuoto. Tutti acclamano il re come dio, apoteosi, assunzione in cielo di un mortale deificato. Per noi, che ci crediamo moderni e sappiamo distinguere natura e cultura (ma lo siamo mai stati? sospettava Bruno Latour), è facile osservare che gli antichi occultano sotto lo scatenarsi di un fatto di natura le atrocità umane.

Tito Livio aggiunge che i Padri hanno smembrato il corpo di Romolo e ognuno ne nasconde un frammento sotto la veste. Nella festa commemorativa dell’episodio, detta Poplifugia, fuga della popolazione, i Romani escono di casa per celebrare sacrifici allo stagno della Capra; si mettono a gridare dei nomi propri, a caso, mentre le donne, soprattutto le domestiche, lanciano delle pietre. La folla si disperde, il collettivo si sparpaglia, mentre il molteplice converge verso il trono vuoto, punto d’origine attorno al quale la turba si riunisce.

E mentre fugge per frantumi dispersi, la folla fa rumore, fragor, il termine che Lucrezio utilizza per indicare la suddivisione degli atomi. Fragor da frangere, frazionare e fare a pezzi, ad esempio il corpo di Romolo, ridotto in disiecta membra, smembrato dalla folla sotto i clamori. Ciò che si frammenta fa rumore: fragor è il suono diffuso dallo schianto dell’uragano e dal tumulto della folla, e il suffragio è ciò che giace sotto (sub) il fragore delle pietre scagliate, dell’esposizione alle voci che designano per acclamazione il re. Il sovrano viene linciato, le pietre sono i voti con cui si procede ad eleggere il secondo corpo, simbolico, del re.

Nella festa, le pietre sono come le parti del re smembrato, diventano le voci grazie alle quali il popolo disperso s’incontra e torna a convergere nella simbolica lapidazione. Il collettivo prende forma grazie alla circolazione di un quasi-oggetto, come il pallone in una squadra di calcio o la coppa in un banchetto. Le relazioni interne a un gruppo passano da fluttuanti a stabili quando un gettone transita da corpo a corpo, quando un jolly corre dentro il molteplice. Non basta un contratto, un accordo che stringa la volontà di uomini presunti razionali, animali politici immaginari, come hanno creduto le filosofie acosmiste, dimentiche del mondo. I Padri dissimulano i pezzi di carne del re, le pietre volano fra le schiave, i nomi passano in mezzo al popolo. Quel che succede (se passe) tra noi si deve appunto al “passare”, transito ermetico di denaro o suo equivalente: così si stringono i legami di fondazione e ri-fondazione del collettivo, una rete complessa di passaggi costituisce la Società. 

Le illustrazioni sono Pietre d''angolo di Valerio Gaeti, lamiera di alluminio battuto su pietre. Foto di Walter Gumiero.

Bibliografia

Gaston Bachelard, La formazione dello spirito scientifico, 1938, Cortina, 1995 
Roger Caillois, La roccia di Sisifo, Lucarini, 1990
Albert Camus, Il mito di Sisifo, Bompiani, 1965
Erodoto, Le storie, Rizzoli, 1984
René Girard, La violenza e il sacro (1972), Adelphi, 1980 
Ovidio, Metamorfosi, Mondadori, 2007
Michel Serres, Hermès V, Il passaggio a Nord-Ovest, Pratiche, 1985
Michel Serres, Roma, 1983, Mimesis, 2021 
Michel Serres, Statues, François Bourin, 1987  
Tito Livio, Ab urbe condita, vol. I, Rizzoli, 1982
Jean-Pierre Vernant, Mito e pensiero presso i Greci, Einaudi, 1970.   
Emile Zola, La fortuna dei Rougon (1871), Garzanti, 1992 .

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