Il poeta muratore, l'attrice partigiana
Ritroviamo, da qualche parte, in qualche tempo nascosti, una scrittura e un teatro minore che si intrecciano con la vita. Versi e spettacoli che servono come chiavi di qualcos’altro, di incontri, di sguardi al paesaggio, di ritmo delle opere e dei giorni, di passione civile, di amicizia. Laura Artioli, studiosa, ricercatrice, antropologa e storica (ma è stata anche assessore alla cultura di Reggio Emilia ed è organizzatrice culturale), figlia di Eneide, nipote di Euridice di Sveno e di altri figli e figlie di Domenico Notari, muratore, poeta e maggerino di Marmoreto di Busana detto Minghin, ha curato un libro sulla zio Sveno, anche lui un muratore che poetava, suonava e cantava tra le montagne di Reggio, sotto il monte Ventasso e sopra la pietra di Bismantova. Ne ha scritto un altro poi, Laura Artioli, su Lucia Sarzi, figlia di Francesco, comico vagante, nipote di Antonio, burattinaio itinerante, sorella di Otello Sarzi, mitico maestro di tanta parte del teatro ragazzi emiliano. Lucia, oltre essere lei stessa attrice di tradizione girovaga, magnetica e appassionata anche se di piccola complessione, fu amica dei fratelli Cervi e donna della Resistenza, là giù nelle strade simili a reticolo, con infiniti snodi e vie di fuga, che connettono i paesi della Bassa tra Reggio, Modena, Mantova, Parma, il Veneto.
La famiglia Cervi
Prima di raccontare le storie di Sveno e di Lucia, bisogna spiegare il metodo di Laura. Sveno lo ha conosciuto in casa. Lo ascoltava suonare la fisarmonica, cantare nel coro, comporre strofe d’occasione. È stata bambina sulle sue ginocchia di montanaro schivo, di poche parole, con la faccia tagliata nelle pietre delle case che costruiva, con occhi azzurri come il cielo sui suoi monti, con quel nome derivato dal giovane sfortunato principe danese della Gerusalemme liberata (nei cimiteri delle sue parti sono comuni nomi – o soprannomi – come Orlando, Ruggero, Rinaldo, Goffredo, Argante, Ariodante, e la sua famiglia è un bel catalogo letterario). Sospettava, senza sicurezze, che quello zio – figlio di uno dei più importanti animatori del maggio drammatico (una forma di teatro popolare epico-cavalleresco tutto cantato) –scrivesse. Dopo la sua morte è penetrata nella stanza di quell’uomo che ha vissuto da solo nella famiglia d’origine e ha trovato rime e soprattutto abbozzi scritti su carta, su ogni tipo di carta, scarabocchiati su pezzi di legno, appuntati su frammenti di pietra. E ha scoperto un mondo, che con altri amici e parenti ha voluto raccontare. Un mondo privato, che a un certo punto si incrocia con l’avventura del Gorilla Quadrumàno di Scabia, una compagnia di studenti dell’Università guidata dal poeta drammaturgo che nel 1974 arriva su quei monti in cerca della “cultura di base”. E scopre poemi delle transumanze e della Resistenza, le ottave improvvisate alla maniera toscana, i cantori del maggio e di Ariosto e Tasso. Scabia firma la postfazione alle rime di Sveno Notari. Nella stanza dello zio a Laura appare un mondo semplice, trasudante curiosità culturale (in un senso pieno, vero), che nei versi trova il tempo di fermare il lavoro delle mani e di guardare più addentro nel mondo intorno e in quello interiore.
La vita di Lucia Sarzi, morta nel 1968, è quella dei comici vaganti ma anche delle donne impegnate nella politica e nella Resistenza con ruoli che si scoprono più impegnativi della semplice, pur importante, staffetta. Laura Artioli ha dovuto ricostruirla attraverso un paziente lavoro di ricerca, ricucitura e analisi di documenti e testimonianze. Ha visitato luoghi e rievocato atmosfere, muovendosi tra due insidie. Quella della memoria di chi le era stato vicino nell’avventura teatrale, sempre imprecisa e sfuggente dopo tanti anni (il teatro va in scena e svanisce e pochi si curano di fermarlo), in alcuni casi tendenziosa o agiografica; quella delle testimonianze politiche sul periodo della lotta partigiana e sui rapporti con i fratelli Cervi, che ugualmente tendevano a portare l’acqua verso qualche mulino, abbellendo, occultando, mascherando la realtà. Un lavoro dentro vari labirinti, sempre sul ciglio di qualche precipizio, in cerca, attraverso la loro passione artistica, di due persone che hanno lasciato poche dichiarazioni su di sé (Lucia dopo la Liberazione si ritira, interviene poco e con fatica in occasioni di celebrazioni). Il risultato è stupefacente.
Le parole e le pietre
Ed ecco un murator su un foglio chino si intitola il libro con gli inediti di Sveno Notari, stampato dalla famiglia con la cura di Laura Artioli e Benedetto Valdesalici nel 2013, nel primo anniversario della sua morte (avvenuta a più di ottant’anni). Il titolo viene dal Canto della betoniera, un lungo poema sulla situazione economica e politica mondiale datato 28 aprile 1990 e indirizzato a Giuliano Scabia, che dopo il viaggio del Gorilla nel 1974 ha continuato tutti gli anni a salire sull’Appennino reggiano e a incontrare quelli che chiama “i poeti della montagna”, Sveno e il padre Domenico, la sorella Euridice, il pastore Silvio Leoncelli, autore di poemi sul viaggio delle greggi a svernare in Maremma, Lino Casanova e Diomede Bianchi, l’oste Luciano Masini, o a leggere i versi di figure come Amilcare Vegeti di Vaglie di Ligonchio, merciaio ambulante autore nel dopoguerra di un poema sulla Resistenza nell’alta valle del Secchia.
Scrive Scabia:
Da Sveno e da suo padre Domenico ho imparato a guardare le pietre. Come le cercavano, le lavoravano, le accostavano, le incastonavano. E quei muri di Marmoreto sono da allora per me come ottave rime. Pietre, parole, rime.
Quelle righe dritte del muro come versi – e i colori, i tagli, le bellezze. Persone che nell’ottava rima hanno costruito casa e canto.
Le rime di Notari sono divise in varie sezioni: Luoghi e paesaggi, con sguardi ai suoi monti e alle stagioni; Poesia civile, che osserva i lavori di un tempo e la corruzione dell’Italia presente; Rime d’occasione; Rime dedicate. Sono tutti versi sudati, faticati, che spesso tracimano la misura o fanno slittare, inciampare il ritmo.
Scrive Notari nella prima e nell’ultima stanza del poema dà il titolo alla raccolta:
Ed ecco un murator su un foglio chino
con mano incerta tenta di vergare
una risposta a te poeta fino (Scabia, ndr)
e con metrica i versi far baciare
per dire pane al pane e vino al vino
son poco colto per poterlo fare
ma mi trovo tra i poeti annoverato
del club che a Marmoreto hai fondato
(…)
Poso la penna e torno alla calcina
materia che m’è assai più congeniale.
a chi è dispensatore di dottrina
a superiori cedo il tribunale.
Non avendo altra idea cristallina
limito ai soli fatti il mio verbale
e lascio il cimento a poeta e pensatore
così termina la rima di Sveno muratore.
Si chiede Laura Artioli, in una relazione scritta per la presentazione pubblica del libro “come mai si fosse preso la libertà di non usare ogni volta il filo a piombo, con le sue rime, di curvare e di stirare gli endecasillabi”. Si risponde narrando di come mettere le mani nello scatolone dei suoi versi gli abbia fatto vedere sotto un’altra luce quell’uomo schivo, dall’estro “un po’ bambino e un po’ surreale”:
la poesia è stata uno dei suoi sopravita, un raddoppio silenzioso dei suoi giorni e delle sue notti, il luogo che risarcisce e che ripara, che dà corpo ai sogni e mette in forma quello che la timidezza impedisce di esprimere. Salvo pochissime eccezioni, i versi di Sveno non sono mai tristi. Deve anzi, averlo vestito e consolato tanto, questo abito della poesia.
Tengo una musa anche se non son poeta
celata sempre qui nel pensier mio
la interrogo per raggiungere la meta
della poesia che amo e che desio.
È lui che lo dice, vedete: la musa lo accompagna ovunque.
Però è difficile comprimere la vita in un verso, e allora i suoi versi si sono adattati alla cadenza della vita, ai suoi allegri, ai suoi allegretti e ai suoi adagi, anche sdruccioli, anche dispari, anche un po’ fuori metro, perché si sa che è bislacca la vita, è sdrucciola, è dispari, e delle misure si cura poco.
È per questo, secondo me, che non ci si può aspettare la perfezione formale dalle sue rime, che riproducono non solo il concetto, ma anche i suoni delle sue giornate, e volano e grattano sulla voce degli strumenti che maneggiava tutti i giorni: ci si sente il battere e il levare del martello e della zappa, la raspa della cazzuola, il tempo disteso della fisa, quello nervoso della chitarra, il trillo dei bicchieri suonati a tavola con la forchetta, la zoppetta delle campane di san Venanzio di quando era bambino e faceva l’apprendista campanaro, ci si sentono le chiuse e le legature del cancello dell’orto.
Poesia intessuta nella vita. Che aiuta a guardare le cose più a fondo. E a viverle.
Sveno bambino
Una donna, un’attrice, la Resistenza
Il libro dedicato a Lucia Sarzi già nel titolo pone la questione dei travisamenti, delle proiezioni sulla vita reale: Ma il mito sono io. Storia delle storie di Lucia Sarzi: il teatro, la Resistenza, la famiglia Cervi. È un’accurata, coinvolgente ricerca storica, che parte dall’assenza di documenti soddisfacenti (o dalla molteplicità di fonti incerte) e prova a costruire una microstoria confrontandosi con il mito, con le letture di una vita influenzate da prese di posizione pregiudiziali. Risale nella genealogia di Lucia, nella sua famiglia di girovaghi, nella sua passione di palcoscenico per i personaggi forti, ottocenteschi, che combattono l’ingiustizia, formatisi alla scuola del padre, una attore con una vena socialista e anarchica. Mostra come il muoversi dell’attrice in quel fitto reticolo di piccoli e grandi centri della pianura possa sovrapporsi alla costituzione di una rete di cospirazione già nell’epoca del fascismo e come dopo l’incontro con alcuni comunisti parmigiani e poi con i fratelli Cervi (ad Aldo in particolare sarà molto legata) diventi la radice di un lavoro di vera e propria organizzazione politica, nutrita sempre dalla passione artistica e famigliare.
Il teatro, praticato a livello di compagnie di secondo se non infimo piano, diventa scuola di vita, capacità di suscitare fascino, relazioni e energie politiche, possibile trama di organizzazione, che poi sfrutterà durante la Resistenza.
Entrano in questa vicenda tutti i dubbi di una donna che dopo la Liberazione si sottrae alla militanza di vertice e torna al teatro e alla famiglia, con l’episodio della cattura e fucilazione dei Cervi che fa da spartiacque, con i conflitti che si accendono prima nella rete clandestina e poi nella Resistenza tra chi vuole imporre una linea rigida, centralistica, e chi invece (come Lucia, come i Cervi) interpreta in altri modi il ruolo dell’attivista che vuole cambiare non solo un regime ma la vita.
Seguiamo l’attrice e la sua famiglia nel loro nomadismo, che spesso fa perdere le proprie tracce. E allora l’autrice va a ritrovare i luoghi, scova cartoline d’epoca e le confronta con i paesaggi odierni, guarda il cielo, le case, provando a immaginare un’Italia diversa, dove si correva tra un luogo e l’altro in bicicletta, dove si aveva fiducia ancora nella forza incendiaria delle parole, del teatro. Si arriva fino al dopoguerra, alle discussioni col partito su cosa fosse teatro popolare e politico, e come bisognasse formare le masse del nuovo stato democratico.
E appare una donna che spesso non sa “stare al suo posto”, quello che gli uomini, i dirigenti maschi della Resistenza o del partito, le vorrebbero assegnato, perché viene da un mondo più fluttuante, più libero di quello contadino, paesano, borghese, ancora sostanzialmente patriarcale. Lei invece è nata e cresciuta in quella contro-società degli attori guardata spesso con sospetto dagli stanziali perché intesse la realtà di sogni e, soprattutto, quei sogni li rende personaggi reali di carne, sudore, passioni, intelligenza ogni giorno. Vita e arte, in una declinazione che precede i termini che del binomio fisseranno le neoavanguardie.
Scrive a un certo punto Laura Artioli, verso la fine del libro, sugli ultimi anni di questa donna morta troppo giovane, a quarantotto anni, diventata dopo la guerra moglie di un maestro, fermata in una vita sedentaria che movimentava con recite di dilettanti o con improvvise partenze:
Prendere la strada, allontanarsi le faceva bene: dopo avere tanto letto e ascoltato di Lucia, ho maturato la convinzione che – prerogativa dei vagabondi e dei sapienti – la misura che meglio le si attagliava sia stata il giorno stesso, nessuna zavorra di passato né di futuro.
La muoveva lo struggimento di altri luoghi, di altre vite, lei che aveva dato corpo, sulla scena, a così tante possibilità?
Il palcoscenico era per lei “un pezzetto di terreno sul quale posare forse più saldamente i piedi che sul pavimento di casa”; “quando muoveva il primo passo sul proscenio, era come se entrasse in un mondo che costituiva la sua patria”.
Questo bel libro – scritto tanto ascoltando, tanto leggendo, per cercare di ritrovare nel mito, oltre il mito, una donna che ha anche provato a propiziare una diversa condizione per il suo sesso – diventa alla fine un rapporto personale tra l’autrice e l’attrice oggetto delle ricerche. Acquista così un respiro unico, quello della vita e dell’arte che trasfigura i giorni, che li prefigura.
Pubblicato una prima volta da Aliberti, appare ora nuovamente dall’editore Corsiero di Reggio Emilia e sarà presentato l’8 marzo alle 16 alla Libreria All’Arco e la sera nella biblioteca di Quattro Castella di Reggio, in collaborazione con l’Anpi, nell’ambito delle celebrazioni del settantesimo anniversario della resistenza e del sacrifico dei fratelli Cervi.