L’estate dei Festival / Il Purgatorio delle Albe

5 Luglio 2019

Il cielo è “dolce color d’orïental zaffiro”, usciti dalle tenebre e dallo stridor di denti, dal contrappunto bestiale di bestemmie e rimpianti laceranti dell’Inferno, sulla spiaggia del Purgatorio. Il cielo era coperto di nuvole minacciose fino a poche ore prima dello spettacolo. Ora, davanti alla chiesetta di Santa Maria in Costantinopoli, in uno stretto budello dietro il Duomo di Matera, il sole splende verso il tramonto. Odore di incensi. 

 

Matera, ph. Marco Caselli Nirmal.


Si aprono le porte e Marco Martinelli e Ermanna Montanari, di bianco vestiti, inaugurano l’ascesa di un centinaio di spettatori-Dante Alighieri verso il culmine della montagna del Purgatorio. Si salirà, in questa tappa per Matera 2019 capitale europea della cultura della “Chiamata pubblica per la Divina Commedia di Dante Alighieri” del Teatro delle Albe iniziata a Ravenna nel 2017 con Inferno; si ascenderà, per raggiungere l’ultimo approdo del viaggio di purificazione, il Paradiso terrestre, solo al calar del sole, in una luce che indora i tetti della città dei Sassi. Si attraverserà un’altra chiesa, quella del Riscatto, piena di donne in abiti da sposa che gridano contro le violenze subite da mariti, fratelli, amanti, figli, esposte sugli altari, davanti a Rita, la santa degli impossibili, dinanzi a un’icona della Madonna, nelle cantorie, schiera di fantasmi evocati da Pia de’ Tolomei, schiera dei nostri fantasmi (“Portava un anello d’oro, al mignolo. Con quello, il pugno chiuso, ha cominciato a colpire, a colpire, a colpire!”…)

 

Matera, ph. Marco Caselli Nirmal.


Bisogna materializzare il male, vederlo, sentirlo, farsene penetrare fin dentro al corpo come da suoni sottili e insinuanti o fragorosi o stridenti, come quelli che concerta Luigi Ceccarelli per tutto il percorso di ascesi, con l’elettronica e con irruzioni di strumenti che creano contrappunto, peso e volo, alle parole. Il Purgatorio è cantica di rinnovamento, cantica del ricominciare, e per cambiare bisogna imparare di nuovo, mettendosi, da soli, di fronte all’errore, misurandosi con le offese fatte agli altri, ai singoli e al corpo collettivo della società. E qui incontreremo figure sdegnose, che nell’ultimo momento della vita hanno capovolto il loro destino, mettendosi nudi davanti a sé stessi, alle offese fatte, pentendosi. Così Manfredi, che appare in alto, dietro una grata della cantoria, così poco dopo Bonconte e più avanti Sapìa l’invidiosa, su un pianoforte, il papa avaro, steso in terra, Adriano V, contrapposto a un’altra figura prostrata, a tenere perfino il suolo, Ugo Capeto, progenitore dei re di Francia, anche lui vittima del vizio, e poi il violento Marco Lombardo. Dante, si sa, assolve le figure che rappresentano in terra il potere dello stato, gli imperatori, ed è molto meno tenero con i prelati corrotti: ma qui, in tutte le figure, viene colto il momento in cui si disarmano, dinanzi a quello che chiamano Dio ma soprattutto di fronte a sé. “A te come te”, sentiremo ripetere, con parole di Giovanni Testori, con l’esigenza di scoprirsi, rivelarsi, ma anche con la consapevolezza che da soli ci si perde, che bisogna ascoltare gli altri, che il verme umano potrà trasformarsi in farfalla solo se saprà guardare le infinite stelle che scintillano nel cielo, ripetendo, con Majakovskij: “Mamma / Vostro figlio ha un incendio nel cuore! / Dite ai pompieri / Che su un cuore in fiamme / Ci si arrampica con le carezze”. 

 

Majakovskij e Dante, le terzine e i versi lunghi, franti, le voci solistiche degli attori (impossibile nominarli tutti: leggi qui i crediti della versione presentata a Ravenna Festival) e il coro di bambini, ragazzi, uomini, donne, anziani, cittadini insomma, che riprendono le frasi, le riecheggiano, le amplificano, le scandiscono, le sottolineano, come in una sacra rappresentazione, come in una di quelle rievocazioni della Rivoluzione d’ottobre firmate da Majakovskij e Mejerchol’d.

Didattica, il Purgatorio è una cantica didattica, e i due autori (sì, proprio loro, Martinelli e Montanari, le nostre guide di bianco vestite, forse Virgilio e Beatrice, o forse due lettori appassionati del poema divino) ci conducono tra banchi di scuola. Per rinnovarsi bisogna studiare, compitare, capire: il processo alchimistico ha bisogno di faticose solide fondamenta, per re-inventare, per saltare altrove. E di quei banchi lunghi con la fòrmica verde a Matera in una stanza ce ne sono tanti, profumati con erbe di campo e fiori. 

 

Matera, ph. Marco Caselli Nirmal.


Ci siamo inoltrati, in salita, nell’ex monastero delle Monacelle, ora trasformato in luogo di accoglienza turistica, come molti spazi in questa città antica, abbandonata nel novecento, e rinata con la cultura e con un turismo che pure, come spesso avviene, ne ha mutato il volto, forse la ragione d’essere, trasformandola in un ricordo indorato, lasciando come lontano riverbero la fatica e la miseria. Sui muri e sulla vecchia lavagna della classe leggiamo scritte di Joseph Beuys, l’artista che trasformò l’opera in comportamento, in attivismo per uno sguardo diverso alla natura alla società agli esseri. Si legge, per esempio: “La forma di un ulivo, la forma di un cipresso, la figura di un cavallo o la vita di un coniglio, oppure il mare, i monti, fanno parte di quella che è l’interiorità umana. Sono organi dell’uomo esattamente come lo sono il fegato, il cuore, i polmoni, i reni e tutto il resto. Senza questi presupposti non si può giungere a una definizione o a una percezione di quello che è il concetto della creatività umana”. “Strappa da te la vanità, ti dico, strappala” ripeterà la bianca guida Ermanna con i versi di Ezra Pound. Oderisi da Gubbio, con cappello e impermeabile alla Beuys, ci spiega come la gloria, anche quella dell’arte, non duri e che ci sarà sempre un Giotto che prenderà il primo piano in luce al posto di un Cimabue. E Totò e Ninetto fraticelli minori ci mostrano come la bellezza del creato popolato di cinguettanti uccellini sia sempre minacciata da qualche falco uccellaccio che per vivere quei passerotti attacca e divora.

 

Matera, ph. Marco Caselli Nirmal.


Dante come guida, e poi le contaminazioni. Immagini, versi di altri poeti, parole di Etty Hillesum, Walt Whitman, John Donne, Majkovskij, saranno ripetuti nell’altra aula didattica, in un cortile più in alto, da un coro di molte età e di varie lingue che ci spiega come provare a diventare da vermi farfalle. Contaminazioni. Poema mondo. Spettacolo sinfonia. Il momento forse più forte, qui a Matera, è quando dall’alto si scorge in un cortile pozzo una moltitudine di persone che cammina frettolosamente sgomitando, spingendosi scontrandosi, calpestando una cartina d’Italia, mentre voci diverse intonano: “Ahi serva Italia, di dolore ostello”, lamento sull’odio che divide, allora come oggi, materializzata in una grande immagine che si apre alla vista come una fossa dei leoni. Al Paradiso terrestre, a Matera, si arriverà passando tra il fuoco di fiaccole e le voci di un coro polifonico, per scorger le cuspidi e le pietre della città antica dorata da un sole morente e dalla sapienza luministica di Fabio Sajiz, in una promessa di rinascita.

 

Matera, ph. Marco Caselli Nirmal.


Tutto avviene in pianura, invece a Ravenna, con partenza magica dalla tomba di Dante, presso San Francesco, nel silenzio del caldo bollente di un giugno afoso al tramonto. Catone qui ha i modi lenti, la voce tentennate ma potente di un anziano attore, Gianni Plazzi, che perde anche la battuta e viene amorevolmente instradato da Ermanna a riprendere il suo ruolo di guardiano del Purgatorio, che lascia passare i viandanti quando Virgilio gli ricorda che Dante: “libertà va cercando, ch’è sì cara / come sa chi per lei vita rifiuta”, quello che ha fatto lui, l’antico romano tutto d’un pezzo, col suicidio. E un momento particolare di tenerezza si accende quando gli rammenta la sua Marzia, che vive tra gli spiriti giusti dell’Antinferno. Poi corteo, con il coro che porta canne e giunchi, con apparizioni musicali ai balconi, con infinito silenzio e concentrazione nella città semideserta. 

 

Ravenna, ph. Silvia Lelli.


Qui a Ravenna, per Ravenna Festival, non si sale: il corteo sfocerà in un giardino, tra l’istituto musicale Verdi, la casa di riposo Garibaldi e il teatro Rasi. Le figure appariranno in alto, su scale di ferro o di pietra, su palchi sopraelevati, anche la carta d’Italia penderà, gigantesca, da un muro, a testa all’ingiù, e “Ahi serva Italia” sarà intonata, in italiano e in wolof, dai gradini di uno scalone a ripiani sfalsati, con una folla sistemata a salire. 

La concentrazione è simile, forse ancora più intensa che a Matera. I versi di Dante appaiono più scanditi, maturata sembra la difficile arte di rendere viva, ancora palpitante, una lingua e una forma così lontane da noi. Lontano e vicino è questo spettacolo: Martinelli e Montanari riescono a trascinarci in un’ansia di rinnovamento, simile a quella che dovrebbe pervadere i nostri giorni smarriti.

Questa volta Adriano V e Ugo Capeto sono in un orto, a zappare l’uno, immobilizzato su una sedia a rotelle l’altro, tra piante foglie verzure. Il finale non offre panorami di rapimento paesaggistico come a Matera, con il sospetto, nella città dei Sassi, di giocare perfino con un’immagine ormai sovraesposta turisticamente, con qualche mostro della speculazione edilizia che si intravedeva, scendendo verso l’Eden, in fondo al panorama. Qui siamo decisamente in un parcheggio, tra qualche albero, strisce bianche dipinte in terra e una nuda lamiera come fondale. 

Appare Matelda, moltiplicata in quattro, quattro adolescenti vestite come Greta Thunberg, con le treccine, a coltivare piante (in vaso), a guardarci, ad accusarci: “O scegliamo di voler far esistere ancora la nostra terra, questo giardino, oppure no. E questo è bianco o nero”… Già, il Paradiso terrestre forse è solo questa nostra terra offesa, il punto di arrivo del viaggio di Dante qui è quello di partenza, sempre a un passo dalla selva oscura.

 

Ravenna, ph. Silvia Lelli.


Questa volta non assistiamo a una gran scena d’attrice di Ermanna Montanari come nell’Inferno, con la lingua spezzata, i ritmi franti, convulsi (almeno così ce lo ricordiamo). Qui il finale è chiaro: “Voi non avete più alibi, e noi non abbiamo più tempo”, ripetono a una a una e in coro, accusandoci, le Greta. Teatro didattico, teatro politico? Ben venga, in tempi in cui il mondo è capovolto e si chiamano trafficanti di esseri umani chi va a salvare dalla morte in mare persone in fuga dall’orrore, e si arresta chi aiuta uomini, donne, bambini. Tempi di egoismi, di paura, di miserie. “Voi non avete più alibi, e noi non abbiamo più tempo...”. 

E appare Beatrice: la fiamma d’amore, davanti all’occaso di Matera, tra le strisce del parcheggio di Ravenna, dentro, quel fuoco adolescenziale perso per strada, i sogni, i desideri, le indignazioni, la bellezza cui troppe volte rinunciamo per adattarci alla vita, per adeguarci; la coscienza irriducibile della nostra unicità e della inevitabile necessaria solidarietà con gli altri soli che ci circondano. E un lavacro rinnovatore: “La bella donna ne le braccia aprissi, / abbracciandomi la testa e mi sommerse / onde convenne ch’io l’acqua inghiottissi. // Indi mi tolse e bagnato m’offerse / dentro la danza delle quattro belle / e ciascuna del braccio mi coperse”. 

Ora Dante è preso da mille desiri “più che fiamma caldi”. Ma è tempo di interrompere. Il viaggio per ora è terminato. Le Matelde-Greta ci segnano in fronte a uno a uno, ripetendo: “Puro e disposto a salire alle stelle”. E gli applausi scrosciano infiniti per le centinaia di persone che hanno partecipato: ne vediamo in fila, a ringraziare, solo una parte, perché i cittadini del coro si alternano nelle varie sere, a fare la poesia di Dante pensiero civile attuale. E ci sono là davanti i tanti attori, tecnici, musicisti, organizzatori, una folla, il senso di un’impresa davvero collettiva, visibile a Ravenna fino al 15 luglio, con pausa il lunedì.

 

L’ultima fotografia, di Silvia Lelli, raffigura l’inizio del Purgatorio presso la tomba di Dante a Ravenna.

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