Il solito
Bastano due capelli in una minestra per rendertela vomitevole. Ma se non c’è l’interferenza dei capelli la minestra torna buona, come al solito. La minestra rinnova la sua bontà nel momento in cui è “la solita minestra”. Questo perché il solito è un’importante impalcatura del nostro quotidiano, ci dà la possibilità di prevedere gli accadimenti, cioè un’azione necessaria alla nostra stabilità. Io devo poter prevedere la puntualità dell’autobus, la funzionalità dell’ascensore, la precisione della cassiera al supermercato, e anche che domani avrò la salute. Un quotidiano solito è anche un quotidiano solido.
D’altro canto i riti religiosi sono un solito che rassicura e conforta il credente. Gli stili sono il solito su cui si basano i comportamenti estetici, le mode, le architetture, le retoriche culturali. E che dire dei grandi motori di ricerca che “mettono a valore” il nostro solito, catalogando le consuetudini di noi tutti per poi venderle? Il mondo scientifico credo consideri “il solito” (passatemi l’approssimazione definitoria) uno dei concetti chiave della conoscenza.
Sappiamo, tuttavia, che “la solita minestra” è qualcosa di noioso, per niente interessante e stimolante. Il fin troppo noto ammazza la gioia di vivere, la curiosità, ed è un aspetto dell’esistere che è meglio evitare, da cui è bene scappare, e con determinazione. Non per suggerire e fomentare malsane iniziative – lungi da me! –, dico solo che ci fa bene una buona minestra, ma non una persona-solita minestra, una casa-solita minestra, un lavoro-solita minestra. Queste sono minestre in cui probabilmente, in definitiva, due capelli ci starebbero pure bene. Qui il solito va demolito, anzi, va capito.
Non può fare male il mansueto equilibrio di una minestrina. Ma quell’equilibrio lavora come un depressivo se è tutto ciò che prevede per me il menù dell’ospedale dove sono costretto a stare perché sono malato. C’è il solito buono e quello cattivo, come il colesterolo: quello utile fa bene e conforta, ti tiene su e ti struttura, il solito dannoso infiacchisce, spompa, demoralizza perché è un limite. Che va superato, appunto, e va superato dall’insolito. È la potenza dell’insolito che anima l’esistenza. Se il solito “cattivo” la intorpidisce e alla lunga la anestetizza e in qualche modo l’ammazza, l’insolito la incentiva e incoraggia. È vitale l’incontro inaspettato con una persona che non conoscevi e ti piace. È gioia pura spiazzare la ricerca con un’intuizione sghemba che ti fa scoprire un importante farmaco.
Ed è sul rassicurante tappeto delle consuetudini che immaginiamo l’insolito, lì, con i piedi morbidamente adagiati sulle sete pregiate di un nostro Oriente, possiamo creare una nuova danza. Dice il filosofo Alain Badiou (Metafisica della felicità, Derive Approdi 2015) che il pensiero classico, affinché non si trasformi in accademismo, cioè nel “principale nemico della filosofia e dunque della felicità”, ha bisogno di anti-filosofi come Pascal, Rousseau, Kierkegaard, Nietzsche, Wittgenstein e Lacan, sono loro a insegnarci che “tutto ciò che possiede un vero valore si ottiene non attraverso il sentiero degli usi ordinari e l’assunzione delle idee dominanti, bensì attraverso l’effetto, esistenzialmente provato, di una rottura con il corso del mondo”.
Insomma: la creatività è un atto di rottura, un contre che genera l’insolito cioè il nuovo. Per questo il contre culturale è perseguito. Arte, Musica, Letteratura sono generati da questa istanza. Ma se questo vale per la cultura probabilmente vale anche per le piccole scelte quotidiane. Così come per la poesia, che scaturisce dall’azione di “resistenza” del canale attraverso cui passa, forse anche nello stare quotidiano va perseguito il contre demolitivo delle comode piccole omologazioni. Se è vero che la creatività passa per un gesto di contrasto, di opposizione, forse anche la bellezza della vita quotidiana si gioca su piccoli gesti di opposizione, di contrasto del solito dannoso. Rifiutare un mondo di formule linguistiche spente, consunte, irragionevoli, battute noiosissime, aggettivazioni dalla frequenza esasperante, finti umorismi, falsi cerimoniali, turpiloqui invalsi in tv come alla scuola materna, deve fare bene, io penso. È proprio di chi vuole ancora essere vivo e propositivo respingere il dominio del tutto-bene?-sì-dai, di-tutto-e-di-più, che-cazzo-è, e tentare il più possibile lo sforzo di cucire insieme un pensierino magari semplice, ma con un lessico tutto tuo, poggiato su un’emozione personale sincera, senza mimiche mentali da eterodiretti.
E le opinioni, in combutta col web? Come una ola da stadio le correnti di opinione si propagano e ti inghiottono in modo ancora più avvilente e oppressivo, non c’è tempo per ragionare, devi alzare le braccia subito e gridare quello che dice il tuo vicino (vedi il bel pezzo di Thomas Friedman, L’era della protesta in “Repubblica” dello scorso 19 gennaio, qui). Perché annichilire il nostro io già impaurito e “minimo”, come diceva Christopher Lash, senza almeno uno sforzo forte di contrasto e di orgogliosa difesa dei possibili spazi di personale bellezza creativa? Se si accoglie l’idea di contestare anche nel quotidiano più immediato l’acquiescenza perdente di abitudini deboli, può succedere che nella vita di una persona si sviluppino comportamenti culturalmente – cioè umanamente – più importanti e belli. Saremmo più belli. E forse meno solito produrrebbe anche meno solitudine.
Cesare Cases nel 1984, nell’editoriale di inaugurazione del neonato “Indice dei Libri del Mese”, raccomandava ai giornalisti niente “viluppi sintattici poco perspicui”, evitare “la falsa concettualità, l’uso di un lessico stereotipato che simula un pensiero che non c’è, come nel sinistrese, nel sindacalese e in altri gerghi, non ultimo il giornalese” (Manifesto del critico letterario in www.lindiceonline.com). La tendenza ad assoggettarci alle routine ce l’abbiamo dentro, evidentemente, al di là dello spessore culturale di ciascuno, ma è proprio per questo, per il fatto che la nostra “pulsione al solito” è come una precisa istintualità, che va contrastata violentemente con una tonificante aggressività.
Non si tratta di essere tutti coltissimi e forbitissimi – questa è un’altra questione –, ma di non lasciare atrofizzare la capacità di esprimersi con una compiuta e potente indipendenza. Di disporre di una energia propria con cui confutare le omologazioni basse che, ad esempio, la rete porta a tutti. Leggevo (qui) di una stilistica premasticata proposta da una macchina fotografica che scarta le foto banali, che impedisce che tu scatti una sciocchezza. Al di là di intuibili impieghi per specifiche serialità industriali, mi pare un incredibile azzardo della tecnologia se applicato alla libera percezione umana del reale. Ma qui le cose si complicano notevolmente (in che senso “libera”, “percezione”, “umana”, “reale”?) e tocca rinviare ad altre occasioni di riflessione.
L’artiglio omologante del web è molto pericoloso. Cerchiamo riconoscimento (voglio anch’io esserci) a poco prezzo, in questa tensione il gesto di rottura sappiamo farlo (magari domani mi licenzio all’improvviso), ci proviamo a sconvolgere gli schemi del nostro gioco (magari butto per aria il matrimonio), ma lo facciamo così, perché tanti lo fanno. Quando investendo con leggerezza in rete i propri vissuti si pensa di stare per dare libero sfogo alla propria insofferenza, di raggiungere come un riscatto dalla mediocrità che ci attribuiamo, in testa girano vorticosi i modelli propagati dall’ipercomunicazione (in cui regnano entità sbalorditive come, che so, Kim Kardashian…). Dalla Società dello Spettacolo alla Società della Rete il passo viene naturale. Siamo inquieti e insofferenti, vorremmo spiccare il volo, ma abbiamo ali da gallina che non ci fanno volare. Siamo guerrieri scatenati con l’umore e allo stesso tempo dei grigi travé , e solo chi non perde la testa in ufficio ci va, magari con stravaganza o bizzarria, ma ci va. Il solito cattivo c’è, la seduzione del Minchia-perché-non-anch’io? è lì in agguato. È facile, basta andare in discesa.
Il coraggio di osteggiare il solito, di alzarsi e deviare dai contenuti standard dei comportamenti, pochi ce l’hanno. E se il contre non diventa una “nuova intimità” non possiamo andare oltre un generale e globale déjà-vu. Ha mille volte ragione Alain Badiou quando dice che “pensare contro le opinioni e al servizio delle verità, lungi dall’essere l’esercizio ingrato e inutile che tu t’immagini, è la strada più breve per la vera vita, la quale, quando esiste, si esprime attraverso una felicità priva di paragoni”.