Il teatro dei festival
Scaldano i motori per la partenza, sontuosi o tribali, di ricerca o di resistenza. I festival. Se pure uno deraglia subito al via, finisce fuori strada ammaccato e non si sa se potrà rimettersi in pista (Primavera dei Teatri), gli altri preparano la loro proposta, mirabolante per quanto precaria, a vasto raggio anche se sempre provvisoria.
I festival sono uno dei migliori esempi del genio italico, specchio mutante della nostra società quanto poche altre manifestazioni. Capaci di fare le nozze coi fichi secchi, piccole e medie imprese (anche nel senso di “intraprese” da antichi cavalieri) che collegano cultura e intrattenimento, attenzione alle esigenze di marketing turistico e di ricerca d’anima dei nostri smarriti territori, sperimentazione e consenso, di massa o perlomeno di campanile, con tutti i problemi che l’italica nozione di “locale” e di manifestazione “radicata” può suscitare.
I festival sono sempre stati considerati un miracolo anche perché le normali stagioni teatrali sono diventate progressivamente sempre più insostenibili. I festival erano (sono) l’esplorazione di un teatro diverso, avventuroso, del corpo, del profondo, “straniero”, non solo perché ogni tanto (non poi tanto spesso) si è avuta la fortuna di incontrare spettacoli di maestri della scena internazionale, ma perché nei loro spazi-tempo concentrati e accelerati ribaltavano usanze, modalità estetiche, visioni, invadendo le città, facendole reagire totalmente col teatro. Dove nelle normali stagioni domina la rappresentazione, la riproduzione di un repertorio uguale a se stesso, immutabile e un po’ sfasciato nonostante i lifting, la riproposizione della forma dramma come “predica” o acculturazione dal palcoscenico alla platea, nei festival si rivelava (si rivela?) il postdrammatico, l’indisciplina, la rottura delle barriere, l’esperienza, la scossa elettrica, l’esplorazione di relazioni e di formati imprevisti.
E però questa festività presto (spesso) si è trasformata in eterno ritorno, in formula, in tentativo di far dialogare oltre il dovuto il rigore dell’arte con le necessità di svago di pubblici estivi, per tesorizzare numeri di gradimento (piccoli, per carità), per intrattenere, seppure con intelligenza. Il site specific è diventato show turistico, son et lumière; le rassegne hanno vissuto una schizofrenia a volte insanabile tra piccolo è bello e necessità di accontentare assessori e operatori con ansie di visibilità. L’eccezione è diventata la norma di un tempo libero oggetto di consumo, regolamentato e dipendente come e più del tempo lavorativo, in epoca di precariato diffuso, tempo schiavo, subalterno, valore di puro scambio, merce. Spettacolo generalizzato, nel senso indicato da Guy Debord. L’accettazione di bilanci indecorosi per tenere viva la fiammella ha fatto il resto (la cultura non è un bene essenziale, continuano a ripetere politici e amministratori con i fatti).
In modo ancor più grave, la vitalità dei festival ha sanzionato definitivamente una scissione, una rottura, una vecchia crepa del sistema teatrale (datata perlomeno ai tempi dell’avanguardia anni ’60): da una parte il teatro importante, quello che fa le stagioni, che ha i denari e li spende spesso senza senso, per propagandare un’idea di cultura anestetizzata, omologata; dall’altra la mappa di situazioni “alternative” come quelle che stiamo considerando, una costellazione pulviscolare di luoghi più o meno interessanti, intelligenti, ma decisamente subalterni, un circuito della sopravvivenza che potrebbe, per paradosso, disegnare una nuova configurazione del teatro (il teatro che vorremmo, quello dell’ascolto, dell’esperimento, della creazione inquieta).
Eppure ora è il momento di stappare la bottiglia di spumante per l’inizio della stagione dei festival, sempre più lunga, con pause sempre più corte, primavera-estate-autunno, fino all’inverno, a testimoniare la sua caratteristica di alternativa minore (perché meno finanziata), sicuramente più entusiasmante di quelle delle kantoriane classi morte che vediamo susseguirsi sui grandi palcoscenici invernali (i teatri differenti, “in stagione”, stanno chiudendo o si stanno ridimensionando a uno a uno).
Primavera dei Teatri inciampa alla partenza, incappando in una lentezza burocratica che fa partire il bando di finanziamento regionale forse in giugno, facendo evidentemente saltare l’appuntamento di Castrovillari all’inizio dello stesso mese, col programma praticamente fatto, (forse) spostandolo a settembre (se tutto va bene, ma tanto la programmazione non è importante, i festival sono opere di magia e di ingegno, non di lavoro accurato e paziente per far crescere frutti anche in territori altrimenti abbandonati). Sono pronte, però, a decollare tante altre rassegne piccole e grandi, in una frammentazione che potremmo chiamare molteplicità, peculiarità, ma che rivela anche l’incapacità di dialogare col festival vicino, perché il proprio finanziamento viene dall’ente locale, che conta su quei venti coperti in più per ristoranti e sugli introiti per i commercianti, oggi i veri riferimenti, gli azionisti dell’attività degli enti pubblici.
Tante sono le proposte. Il Festival delle Colline Torinesi (5-26 giugno) ha puntato il dito, nello scritto introduttivo del suo direttore Sergio Ariotti, contro l’idea dominante che lo spettacolo debba autofinanziarsi e corroborare il turismo: la funzione etico-culturale del teatro, il suo valore etico e politico sono trascurati. Rivendica Ariotti la capacità avuta in un percorso ormai lungo di far fruttare i contributi pubblici nel rigore della programmazione artistica, in una dialettica stretta con realtà europee di spicco, nel lavoro sul territorio. Propone novità di artisti come Spiro Scimone, Claudia Castellucci, Cuocolo-Bosetti, Hubert Colas, Guillaume Vincent, Rabih Mroué e Lina Saneh. E tanti nomi giovani.
Linee simili le ritroviamo in altri ormai storici appuntamenti, come Inequilibrio di Castiglioncello (28 giugno – 8 luglio), Santarcangelo (13-22 luglio), Drodesera (20-28 luglio), Volterrateatro (23-29 luglio).
Andrea Nanni a Castiglioncello punta sulla “capacità di aprirsi alla realtà, di distillarla per generare bellezza”; propone di abbandonare il virtuosismo per parlare a bambini, anziani, adolescenti in disagio, “giardinieri che sanno parlare con le fate”. Mostra lavori di teatro e danza, creati in residenza durante l’anno (ecco altri due marchi dei festival, oggi: il lavoro in residenza e la ricerca di una presenza continua nei luoghi), con nomi come Virgilio Sieni, con un progetto che interroga le ombre delle fate, Claudio Morganti, Leonardo Capuano, Deflorian-Tagliarini, Sacchi di sabbia, Egumteatro, Nerval, che continua a interrogare le differenze. A Santarcangelo ancora Virgilio Sieni – maestro acclamato, ricercatore totale – in un lavoro, Sogni,con i cittadini. La nuova direzione di Silvia Bottiroli (con Cristina Ventrucci e Rodolfo Sacchettini) punta sul concetto di “aria pubblica”, sulla piazza come “bene di città fatto interiore”, e lancia l’idea di osservare la vita comune nella lente dell’arte. Ospita il ritorno di Richard Maxwell, vari nomi stranieri tutti da scoprire e progetti di una bella parte del nuovo teatro italiano. Drodesera si interroga sul concetto di folk e di tribù, sulle nuove forme di comunità (ma il tema circola anche a Santarcangelo, a Castiglioncello, a Volterra), di auto-protezione. Con giochi di strada, performance per poche persone, nuove produzioni della Factory che segue per tutto l’anno, a lungo, vari giovani gruppi.
Volterra, con la vicina Pomarance, si metterà in scena in dialogo con l’esperienza forte degli attori detenuti della Compagnia della Fortezza sotto la guida di Armando Punzo, in una sfida nel nome di Romeo e Giulietta e del poeta che parla di nulla, Mercuzio, a rompere le barriere del possibile, verso i sogni che possono trasformare realtà insostenibili. Mercuzio non vuole morire diventerà uno spettacolo di massa, in carcere e fuori, con detenuti, persone comuni, ragazzi, uomini e donne con valigie di lacrime, in fuga verso mondi più vivibili. Una sfida entusiasmante, che sta crescendo da mesi con laboratori, incontri, discussioni, performance, nel nome della “bella Verona” divisa, ostile, per ritrovare aria intorno all’esperienza unica del teatro in carcere.
Ma ci sono appuntamenti piccoli e peculiari, come Teatro Civile Festival di Monte Sant’Angelo, come Kilowatt di Sansepolcro con la sua “giuria” diffusa di cittadini “visionari”, come Radicondoli. Ci sono poi quelli che esplorano radicalmente il contemporaneo e il futuro, formati inediti e altri comportamenti, come Uovo a Milano, il nuovo Live Arts Week a Bologna, Es.terni a Terni, ora Fast (International Festival of Contemporary Arts). E molti altri, per tutti i gusti.
La Puglia ha già aperto le danze mettendo in scena, dopo l’inaugurazione col grande nome di Nekrosius e con la sua Divina Commedia, il lavoro diffuso di un triennio di residenze. Vie Scena Contemporanea Festival, a Modena, ha anticipato le sue giornate di sguardo al teatro contemporaneo tra Europa, Italia ed Emilia Romagna a maggio-giugno, mentre il Napoli Teatro Festival è sceso in piazza con un programma sontuoso, in buona parte dedicato alla nuova scena argentina. E qui il mega-equivoco è trasparente: qualcuno si è inventato l’idea di fare un festival nazionale, senza considerare la rete, fittissima, già esistente. Si è creata una manifestazione autonoma, in contrapposizione con l’altro festival che già lo Stato considerava nazionale, la Biennale Teatro di Venezia. Insomma, un’altra occasione per non fare insieme, per non ripensare il sistema del teatro, per affidarsi al gioco delle clientele, locali e centrali, delle esautorazioni politiche, dei particolarismi.
I festival eppure rimangono meravigliose avventure, con tutte le critiche che possono attirare, pure se spesso si sottomettono all’odiosa idea di marketing e di successo turistico (la cultura non è marketing, non è immediata ricaduta economica: è formazione, in tempi lunghi; è provocazione, anomalia, rischio). Sono (potrebbero essere) laboratori, luoghi di ascolto, di incontro libero, di esperienza, di festa. In questi limiti, contraddittori quanto si vuole, vivono oggi, sfidando anche le idee correnti di comunità (cittadina, teatrale, utopica). Provano a disegnare nuove modalità di lavoro scenico, di dialogo, di creazione, di provocazione culturale, di sperimentazione, di scoperta di ciò che non è ancora previsto. Esplorano volti, corpi, poesie, durezze, sognando nella nebbia di domani. Fanno scoccare scintille o incendi tra ambiente, artisti, immaginario.
Questo articolo è stato pubblicato su “Estate. Quaderni del Teatro di Roma”.