Ilaria e le catene
Una foto vale mille discorsi. Quando Ilaria Salis è comparsa in catene nell’aula del tribunale di Budapest le macchine dei fotografi hanno ritratto i legami con cui è stata portata a giudizio. Chiunque abbia uno smartphone ha potuto vedere le ferraglie medievali che stringevano le caviglie con quei due lucchetti luccicanti, che sembravano comprati dal ferramenta sotto casa; le manette con in più la catena che le fissava alla cintola mediante un altro laccio di contenzione. E ancora quella catena tenuta in mano dalla poliziotta, che la seguiva da presso, e ha continuato a impugnarla mentre Ilaria sedeva sulla sedia degli imputati scavalcando lo schienale di legno: come un animale – forse oggi neppure più si usano le catene, ma corde lasche per i cani da condurre a passeggio.
Non c’era bisogno di nessun discorso per capire l’eccesso punitivo con cui è stata trattata la ragazza trentenne con accuse ancora tutte da dimostrare, ma in ogni caso con un trattamento che è indegno di qualsiasi ordinamento giudiziario moderno. Due reazioni per tutti. Il silenzio protratto di Giorgia Meloni, Presidente del Consiglio, che non ha commentato l’atteggiamento punitivo del sistema ungherese del suo alleato politico, il Presidente Orban, per vari giorni, poi non ha trovato altro che affermare che le catene si usano in vari stati, senza precisare quali. Da noi questo trattamento degradante e umiliante – questo è lo scopo di quelle catene e manette – è stato abolito con una legge del 1992 dopo un episodio accaduto durante l’inchiesta battezzata “Mani pulite” quando circolò una fotografia di alcuni imputati con le catene condotti al Palazzo di Giustizia di Milano.
Le fotografie di Ilaria Salis sono rimbalzate nei social italiani e non solo, e un ministro in carica, Francesco Lollobrigida, ha trovato il modo di non commentare la situazione “non avendo visto l’immagine”, cosa ben poco probabile per un politico che come molti oggi vive attaccato ai social commentando ogni atto della propria personale azione – e se non lui almeno i suoi addetti stampa, poiché ogni politico è un “influencer”, termine appena caduto in disgrazia ma funzione ancora in uso.
Ora la fotografia delle manette con catene sembra che abbia avuto un impatto sull’opinione pubblica italiana, e non solo su quella che segue le vicende politiche, ma anche su tutti gli altri, dal momento che le immagini parlano molto di più delle parole e gli scatti presi a Budapest rivelano qualcosa di più sul trattamento giudiziario di una persona accusata e in stato di detenzione da oltre un anno, e sul modo con cui vengono trattate le persone nelle carceri ungheresi.
La fotografia ha questa prerogativa, quasi più delle stesse immagini in movimento, per la propria capacità di fissare qualcosa della realtà e di mostrarla in modo stabile. Per quanto la veridicità delle immagini sia stata messa in discussione da manipolazioni continue, oltre che dall’assenza in alcuni casi del contesto specifico, che serve a dire dove e come è stata scattata quella immagine – la didascalia, come hanno asserito Susan Sontag e John Berger –, tutti ricordano almeno una fotografia recente che ha colpito l’Europa e non solo: la ripresa del corpo senza vita di Aylan Kurdi sulla spiaggia dell’isola greca di Kos.
Scattata da Nilufer Demir raffigurava un bambino riverso a faccia in giù sul bagnasciuga, come se dormisse in una culla, mentre è morto e lambito dalle onde del Mare Egeo. Dietro di lui c’è un militare di schiena, che sta probabilmente registrando qualcosa su una tavoletta e indossa un giubbetto con una scritta nella parte superiore, che ne indica il servizio specifico, simile a un vigile urbano intento a compilare una multa.
L’immagine riportata oggi in un libro di Denis Curti, 100 foto che sconvolsero il mondo (24 ore cultura) ci ricorda l’effetto che alcune immagini iconiche hanno avuto nel creare quel sentimento di turbamento profondo nell’animo di milioni di persone, come è accaduto a coloro che hanno visto l’immagine del piccolo migrante annegato nei pressi del lembo d’Europa dove anelava d’approdare vivo con la sua famiglia. Oppure l’altra celebre foto della bambina vietnamita Phan Thi Kim Phue Le, scattata da Nick Ut nel 1972, che corre nuda e urlando dopo un attacco col napalm al suo villaggio (Napalm Girl, il titolo dello scatto), mentre alle sue spalle quattro soldati americani paiono indifferenti a quanto accade.
Certo le fotografie non cambiano il mondo, ma ce lo fanno vedere, pur nella loro sottile ambiguità d’immagini istantanee, in un altro modo. Se è vero che la morte del bambino siriano non ha mutato la condizione dei migranti che ancora attraversano le acque del Mediterraneo, tuttavia qualcosa nella sensibilità d’una parte significativa della popolazione europea è cambiata. Non in tutti, tuttavia, l’emozione è stata forte. Così in USA la foto della bambina ha suscitato un’ondata di ripulsa verso la guerra in corso in Vietnam.
Le foto di Ilaria Salis in catene non muteranno la storia dell’Europa e neppure dell’Ungheria, paese che fa parte della Comunità Europea in cui vige un regime politico dallo spiccato tratto autoritario, se non proprio “fascista”. Però qualcosa hanno rivelato anche a chi non voleva vedere la natura del partito al potere in quella parte del Continente, e anche con quale atteggiamento si sono regolati in questo frangente due esponenti di spicco – per altro legati da un vincolo familistico – del partito che è al governo oggi in Italia a capo di una coalizione di destra dominata da un partito erede del neo-fascismo.
Un piccolo ritocco sembra abbiano subito in questi giorni i sondaggi per via forse della vicenda di Budapest; in modo impercettibile hanno rilevato un segno negativo per il partito di Giorgia Meloni. Sono cose risibili, ma in un mondo così ipereccitato come il nostro segnano qualcosa di significativo. Le catene e i ceppi non sono mai un segnale positivo. Hanno funzionato come un sintomo soprattutto per la scarsa sensibilità espressa dalla compagine governativa, Ministro della Giustizia Carlo Nordio compreso, verso una connazionale trattata in questo modo in assenza di prove eclatanti e con accuse molto blande. Chissà se hanno funzionato i neuroni specchio, il potrebbe-capitare-anche-a-me?
Le fotografie hanno un impatto emotivo ben superiore alle parole, e forse valgono solo come quelle della poesia, che con il loro linguaggio toccano qualcosa di non razionale e anche di non esprimibile in modo diretto. Qualcosa che non va mai sottovalutato anche nelle situazioni più buie e cupe. Poi restano come un memento anche dopo, come ci mostra il libro curato da Denis Curti.