Francesco M. Cataluccio / In occasione dell’epidemia

7 Giugno 2020

Tutto comincia con un sogno. Un sogno dentro un sogno, che è però un incubo. Una cartoleria di Chinatown a Milano dove il narratore entra attratto dalle maschere e dai travestimenti esposti in vetrina; dentro ci sono pipistrelli appesi al soffitto e topi; l’uomo che la gestisce non è altro che uno spirito incagliato in quel negozio dell’aldilà. Poi tutto prende fuoco e fuggendo all’esterno il sognatore non trova più la bicicletta con cui è arrivato là; la città attorno è vuota: nemmeno una macchina, nessun passante. Seduto nella cucina della sua casa milanese Francesco M. Cataluccio tra un pasto e l’altro, che ha cucinato per la sua famiglia, s’è messo a scrivere un diario della pandemia che ha desertificato la città trasformandola per due mesi e passa in un lazzaretto di potenziali appestati, in piste per le autoambulanze sibilanti, in un deserto abitato da persone impaurite e angosciate. Guardando le finestre della casa di fronte e i corvi che planavano sulle antenne, mentre i topi appaiono nel corridoio di casa tra l’indifferenza del gatto di casa, Cataluccio, come uno dei copisti che pullulano nelle pagine della letteratura dell’Est Europa, ha scritto un libro che appare presso le Edizioni Casagrande di Bellinzona con il secco titolo di In occasione dell’epidemia (pp. 123, euro 14,50). Armato di giornali, link a siti web, pagine Facebook, libri e memorie famigliari, alimentato da ricordi e letture più o meno remote, Cataluccio si è trasformato nell’annalista di questo interminabile periodo in cui siamo stati confinati nelle nostre case in attesa che la peste cessasse, che la strage negli ospedali e nelle case per anziani finisse.

 

Spiando i piccoli segnali, a partire dal proprio corpo, il copista ha trascritto e chiosato con il metodo già sperimentato in precedenti libri, tra cui il bellissimo Vado a vedere se di là è meglio (Sellerio), gli avvenimenti che giorno per giorno apparivano sul visore del suo computer o nelle pagine dei giornali, che ritagliava con la pazienza di un archivista. Ne esce il ritratto di un Paese fantasma che collassa al rallentatore, giorno dopo giorno. Forse non a caso uno dei protagonisti del racconto è un ciclista come lui, Antonio Maspes, il re del Vigorelli, la pista milanese teatro delle sue imprese, maestro del surplace, l’arte di rimanere fermi, dritti sui pedali in equilibrio senza mai cadere per un tempo piuttosto lungo, per poi scattare all’improvviso e tagliare il traguardo da vincitore. In occasione dell’epidemia è un lungo esercizio di surplace in cui il narratore resta in equilibrio sul tavolo di cucina picchiettando sui tasti del suo computer per raccontare quello che accade al di là della finestra della propria stanza.

 

Un equilibrio delicato su quel veicolo da fermi che è la videoscrittura, con cui Cataluccio da anni cammina per il mondo restando fisso al proprio tavolo e all’immensa libreria che giganteggia nel corridoio della sua casa. Non a caso a un certo punto si pente di non aver comprato i rulli su cui posizionare la bicicletta e compiere il tragitto da fermo che la lunga sosta in casa gli impediva di compiere per le vie della sua Milano, città in cui vive da anni e che ogni tanto lascia per tornare con la fantasia nella natale Firenze o nei paesi dell’Est, in primis in Polonia, sua patria elettiva. Anche in questo ultimo libro sono diversi i polacchi che costellano la storia dell’epidemia facendo capolino dalle pagine di libri o affiorando dai ricordi del passato. A comporre l’altare di Lari e Penati con cui l’annalista Cataluccio fa rivivere con grande capacità affabulatoria i propri trascorsi c’è, come spesso gli capita, il padre, di cui porta il nome e cognome, partigiano comunista tra le montagne bergamasche, dove la sua memoria di sé bambino torna per raccontare l’epicentro della catastrofe. Tra le Valli c’è infatti la fabbrica di imbarcazioni che ha generato “Luna rossa”, nave campione.

 

Lì a Nembro si trova la Persico, l’azienda che non chiude nei giorni dell’esplosione dell’epidemia: lì si continua a lavorare. Cataluccio ricorda luoghi, nomi e date delle immancabili responsabilità di chi non ha impedito la strage chiudendo pronti soccorsi e fabbriche, che ha ingolfato di malati le residenze per anziani, di chi ha smantellato la sanità di base, quella un tempo presente sul territorio, che cura senza ospedalizzare. Lo fa con l’implacabile resoconto annalistico del copista che trascrive da giornali e riviste, che cita passi da romanzi e novelle, che annota dati e cifre, che ricopia frasi e racconta piccoli episodi della vita quotidiana sua e degli altri, quella che c’è là fuori. La chiave gliela offre un libro mitteleuropeo opera di Florens Christian Rang, Psicologia storica del carnevale, che quando faceva l’editore – Francesco M. Cataluccio è stato un innovativo direttore editoriale –, ha provveduto a far tradurre e stampare. Lì vede in modo preciso il connubio tra il contagio e la festa. Non è tutto forse cominciato nei giorni del Carnevale ambrosiano, si chiede? E quel 12 febbraio non era forse il giorno del Carnevale cinese che avrebbe dovuto sfilare tra due ali di folla eccitata per le strade di Chinatown, lì dove ha inizio il suo personale incubo? Un carnevale assente, o meglio presente: trasformato nel carnevale del virus, il carnevale della storia. Tra i ricordi di un suo ricovero ospedaliero in Ungheria a Budapest, la memoria della nonna fiorentina, le mille letture fatte nel corso degli anni, il ricordo di una manifestazione davanti ai cancelli di una fabbrica lombarda d’armi negli anni settanta, le memorie d’un amore giovanile nel Nord dell’Europa, le febbri varie, le visite a uomini illustri, i dettagli di vita quotidiana colta al volo intorno a casa, Cataluccio ha scritto la sua Storia della colonna infame, un J’accuse venato di nostalgia e malinconia piuttosto che di dura e sarcastica denuncia.

 

 

 Il memorialista che c’è in lui si stempera in questo libro nel narratore, nella fluidità del racconto che scorre con una rapidità incalzante. Questo piccolo ma intenso libro, reca non a caso in copertina un memorabile disegno di Franz Kafka, autore prediletto da Cataluccio, faro di premonizioni e visioni, simili a quelle che appaiono come lampi nelle pagine di In occasione dell’epidemia. L’epidemia è appunto un’occasione per scrivere, per rammemorare, per riflettere. Su cosa? Su quello che appare il pensiero dominate di questo libro: la morte. Le ultime pagine sono illuminanti e commuoventi al tempo stesso nella loro sobrietà e perentorietà. Siamo davanti a una nuova Apocalisse?, si chiede Cataluccio ricordando una traversata della Laguna veneziana su una barca per vedere uno spettacolo di Grotowski. Quale Apocalisse? E in che forma? È questa che abbiamo attraversato la vera fine del mondo? E se no, quando la prossima volta accadrà, la sapremo riconoscere? Sono le pagine di Iona Heath, un medico del Pronto Soccorso e rianimazione di Londra, contenute in un libro quanto mai prezioso, Modi del morire, a offrire a Cataluccio l’occasione per riflettere sulla nostra paura di morire, sull’angoscia e l’ansia che ha occupato la testa e il petto di milioni di persone durante l’epidemia, e che ancora non si allontana da noi.

 

Heath racconta quanto accade quando la medicina si trova ad affrontare una malattia terminale o semplicemente la vecchiaia, messa in scacco “dal ciclo naturale della vita e che rapporto si instaura tra medico e paziente, quando il crinale tra vita e morte si fa sempre più sottile”. Cita una recensione di Umberto Galimberti a quel libro. Il filosofo annota come per effetto della cultura cristiana si sia persa una convinzione su cui si fondava invece il mondo classico: l’uomo è mortale. Non si muore perché si è ammalati, ma ci si ammala perché si deve morire, scrive Galimberti, che sottolinea come l’affievolirsi della promessa della vita eterna, per via della secolarizzazione del cristianesimo, abbia fatto del prolungamento della vita medesima, per mezzo dell’intervento medico, il grande valore a cui tutti ora tendono. La morte non appare più come un destino, scrive Cataluccio, ma come il possibile fallimento del sapere e della pratica medica. Qui il libro mette il dito nella piaga che l’epidemia ci lascia in eredità, anche se molti non lo vedono ancora chiaramente. Abbiamo chiesto alla medicina di salvarci, alla scienza di sconfiggere il virus, di sopravvivere all’epidemia, che faceva strage di anziani in un paese composto da una percentuale elevata di over 65. La morte ha bussato ai nostri usci anche senza il fantasma degli untori del romanzo manzoniano. O meglio, gli untori erano gli altri: i vicini di casa, gli avventori al bar e al ristorante, chi ci precedeva o seguiva nella fila al supermercato. E la scienza cosa ha fatto, perché non ha risolto il problema del virus? Perché non ci ha resi immuni? La nostra società non fa più i conti con la morte, quella anonima delle fosse comuni, che ci atterrisce, perché, non solo distrugge i corpi, ma anche la loro memoria. L’immagine dei camion militari in uscita da Bergamo è un sogno nel sogno-incubo, in cui siamo caduti per quasi tre mesi, sogno-incubo a occhi aperti, che ha trasformato i nostri sogni veri, quelli sognati di notte, in qualcosa di strano e inafferrabile. Il copista Cataluccio chiude il suo libro nei giorni in cui sta per concludersi il Lockdown, quando si riaprono i negozi e le strade cominciano ad accogliere i sequestrati dell’epidemia, i fantasmi ritrovati con mascherine sul viso: automi. Si ferma sulla soglia del dopo senza fare alcuna previsione, come del resto è giusto. Il suo sguardo è fissato al presente e al passato, non al futuro, un’entità che quasi non esiste, perché è una prospezione creata dalla nostra mente. Il futuro, ci fa capire la chiusa del libro, abitata dalla Nottola di Minerva del grande Hegel e dalla citazione dell’Eneide del meraviglioso Virgilio, è un sogno, quello che dovremo attraversare ora transitando per la Porta d’avorio descritta dal poeta mantovano, per andare lontani dall’Inferno. Fuori all’aperto! Era ora.  

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