Marco Martinelli / In viaggio con Dante
Piove, piove a Matera, a fiumi d’acqua, che rifluiscono per le strade lastricate di chianche, pietre, verso il sasso Barisano, verso il sasso Caveoso. Saliamo, una mia amica e io, verso il duomo, per incontrare Marco e Ermanna, Marco Martinelli e Ermanna Montanari, il Teatro delle Albe, una meravigliosa avventura di amore personale e di scavo artistico, nata sui banchi di scuola col fuoco di dire qualcosa di essenziale in questo mondo, allargata negli anni a tanti altri compagni di strada, giovani, meno giovani, cittadini di Ravenna, ragazzi di Scampia, di Diol Kadd in Senegal, di molti altri luoghi. Ricordo a me e all’amica che mi accompagna qualcosa della storia straordinaria, avventurosa, di questa coppia che è diventata compagnia, comunità teatrale diffusa: gli spettacoli politici e poetici, spesso indignate deformazioni grottesche di una società dove comandano l’economia, l’egoismo, la distruzione dell’ambiente; la non-scuola con ragazzi giovanissimi, prima a Ravenna e poi in molti luoghi in Italia e nel mondo, l’entrare nel teatro con il fuoco dell’età verde, il mettere in vita e non semplicemente in scena gli autori classici, facendoli indossare da adolescenti “furiosi”. Tratteggio a frammenti una storia che dura dalla fine degli anni settanta, perché piove, piove, e ci dà riparo solo qualche chiesa antica, resa solenne e sgargiante in epoca barocca, con angoli misteriosi, segreti, come quella statua incantevole della Madonna della Bruna, dolce serena benedicente con il bambino in braccio, a San Francesco.
Verso il Purgatorio delle Albe
Incontriamo Marco e Ermanna: sono qui per la seconda tappa del viaggio nella Divina Commedia di Dante iniziato due anni fa a Ravenna, con l’Inferno, con trenta e forse più attori, con un coro di cittadini e tutto un teatro – il loro, il Rasi – trasformato in gironi e bolge (leggi qui la cronaca dello spettacolo premio Ubu). Ora, per Matera capitale europea della cultura e poi a Ravenna, ancora con Ravenna Festival, metteranno in scena il Purgatorio.
L’invenzione dantesca, è noto, è un’ascesa lungo i cerchi di un monte. E nella città dei Sassi (a Ravenna sarà diverso, ma omologo, con molti sguardi rivolti verso l’alto) hanno conservato la struttura ascensionale. Si inizierà in una chiesetta, proprio dietro al Duomo, Santa Maria in Costantinopoli, dove troviamo per ora solo un leggio bianco per il proemio e un pezzo di un’altra statua, identica a quella di San Francesco, della Madonna della Bruna, e due piedistalli: la portano in processione e poi la smembrano, alla fine, ci racconta Marco. Nel senso che ripongono in luoghi diversi le parti della macchina processionale? No, è proprio un fare a pezzi dionisiaco, nutrirsi per rinascere.
Il Purgatorio, segnati gli spettatori con una P sulla fronte, inizierà nella Chiesa del riscatto, con l’apparizione, sugli altari, di Pia de’ Tolomei (Ermanna Montanari) e di altre donne oggetto di violenza, signore e ragazze di Matera che racconteranno frammenti delle loro storie, davanti a santa Rita con le rose, a icone luccicanti d’oro, ad altre immagini sacre.
E poi, nel complesso delle Monacelle, un antico convento abbarbicato sul colle, si entrerà in aule scolastiche con banchi e cori di bambini, si leggeranno sui muri frasi di Joseph Beuys innescate dalle parole del miniatore Oderisi da Gubbio nei canti che parlano degli artisti, in un corto circuito tra l’arte dell’esperienza e della natura dell’artista tedesco e il cammino iniziatico del sommo poeta. In vari ambienti, interni e esterni, si ascolteranno i suoni di Luigi Ceccarelli, si vedranno Sapia l’invidiosa su un pianoforte, il papa e il re avaro stesi bocconi per terra, il musico Casella in suono penetrante di contrabbasso.
Una pausa. Scendiamo a pranzare. E così interrompo anch’io l’anticipazione del Purgatorio e provo a raccontarvi la passione per Dante di Martinelli, che ha contagiato Ermanna e gli altri delle Albe, spostati qui, attori e tecnici, un gruppo di una trentina di persone, per preparare il debutto del 17 maggio, con recite fino al 2 giugno (lo spettacolo di Ravenna si vedrà dal 25 giugno al 14 luglio).
Voi, intanto, continuate a immaginare la pioggia che cade su Matera come un lavacro, che la avvolge, la irrora. C’è, stranamente per essere domenica, poca gente per strada: pochi visitatori ne percorrono le strade sdrucciolevoli con ombrelli e impermeabili multicolori. Scendiamo con difficoltà anche noi verso il centro, rapiti dagli scorci della città di tufo e sasso arroccata al di là della gravina di fronte alla imponente balconata di un palazzo rinascimentale abbandonato (si legge un improbabile «si vende» di Tecnocasa, tutto si vende). Quest’acqua a torrenti, inarrestabili, fa pensare che la capitale europea della cultura deve cercare di ridisegnare il futuro dal suo cuore più segreto, antico, delicato, fragile, quello che il turismo di massa troppo spesso dimentica.
Nel nome del «ghibellin fuggiasco»: due padri
Mentre Marco ed Ermanna concepivano questa nuovo viaggio teatrale, fisico, spaziale, emozionale nella Commedia, Martinelli ha pubblicato un libro in cui spiega la nascita del suo amore per Dante, e molto altro. L’inizio è folgorante: «Mio padre aveva un modo tutto suo di svegliarmi. Entrava silenzioso nella stanza, si sedeva accanto a me, sui bordi del letto, e cominciava a raccontare. Era la sua voce, sottile e amorevole, a svegliarmi». Nel nome di Dante è il titolo del volume, pubblicato in marzo dalle edizioni Ponte alle Grazie. In esso il regista e scrittore ravennate racconta la nascita della sua passione per il sommo poeta, legandola, in modo indistricabile, commovente, alla memoria del rapporto col padre, scomparso nel 2009. La vita di Dante Alighieri, «ghibellin fuggiasco», e quella di Vincenzo Martinelli, padre, «maestro buffone», democristiano d’altri tempi, con la schiena dritta, si incrociano nella scrittura dolce carezzevole profonda di Marco.
Le storie che il padre gli raccontava la mattina per svegliarlo, dall’inizio delle scuole medie – scrive – erano quelle degli antichi romani, quelle della guerra e del campo di concentramento dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, ma anche scene dai film di don Camillo e Peppone o da quelli di Totò. E c’erano giochi di parole, sfide a ricordare le date e, con la crescita del ragazzo, con le superiori, arrivò Dante, un soggetto obbligato a Ravenna, dove si trova la tomba del poeta, una passione di quell’insegnate per gioco, senza boria accademica, senza pedanterie pedagogiche. «Maestro buffone», dicevamo, lo chiama il figlio, regista pluripremiato, perché gli ha insegnato con storie, calembour, battute e paradossi un segreto fondamentale: mettere a rovescio le apparenze e la realtà. «Sulla vita di Dante tornava spesso, i suoi chiodi fissi erano la solitudine e la fuga: non lo interessava il monumento Dante, a Vincenzo i Grandi della Storia non interessavano in quanto Grandi. Gli interessava guardarli in controluce: come delle parole che puoi rovesciare, anagrammare, e ti suonano in altro modo».
«Mettere in vita», non «mettere in scena». Questa è l’idea che da quasi quarant’anni governa il lavoro di Marco Martinelli e del suo Teatro delle Albe. Non dovrebbe quindi sorprendere il ritmo travolgente di questo nuovo libro, simile a questa pioggia che cade, scorre e penetra dappertutto, un vero e proprio viaggio iniziatico, un cammino di formazione come chiarisce il sottotitolo, Diventare grandi con la Divina Commedia. Non solo è nato tra l’allestimento dell’Inferno con attori e coro di cittadini nel 2017, e quello prossimo del Purgatorio, ma anche negli stessi mesi di uno spettacolo affascinate, Fedeli d’amore, raccontato su «doppiozero» da Anna Stefi, un pulsante cammino che parte, in modo straziante, dalla malattia del poeta in preda alle febbri malariche e al freddo incamerato nei viaggi diplomatici per lagune e paludi, passa per l’indignazione contro i vizi dell’epoca del Sommo, in cui si riflettono ancora i nostri, tradimenti, avidità, guerra, vendita di morte, distruzione, fino alla via crucis dell’uomo Alighieri e di chi porta some pesanti: sempre con la speranza del rimedio del calore dell’amore.
Il libro rivela l’origine della passione di Martinelli per Dante, ma ci porta anche continuamente da altre parti, verso quella mela che San Tommaso, nelle lezioni parigine, chiedeva agli studenti cosa fosse, e spiegava essere semplicemente, sempre, meravigliosamente una mela; e verso Beatrice, come amore dei nove anni, e come guida verso l’amore senza condizioni, il legame con l’altro, puro come quello dei bambini.
È questo un libro che si beve in un sorso, che ristora e nutre. Un viaggio personalissimo, non nel teatro per una volta ma nella vita del poeta, nel suo poema e nell’autobiografia più intima di Martinelli, quindi a fondo, nella caverna della creazione.
Circa l’origine del volume, il regista mi aveva spiegato: «Dopo Aristofane a Scampia, in cui raccontavo il lavoro con adolescenti nel quartiere di Napoli noto per i fatti criminali, la casa editrice mi ha chiesto di scrivere qualcos’altro. Noi eravamo immersi in Dante e ho pensato di volgermi a lui. Ne è nato un libro sui padri, nel nome del grande padre della nostra lingua e letteratura, ma anche in quello del padre di carne e sangue, il mio, il piccolo Vincenzo. In questo viaggio ho provato a interrogarmi su quello che eravamo e che siamo diventati in questo nostro paese nel volgere di qualche generazione».
Nel nome di Dante, con passione spesso commovente, narra la vita del poeta impegnato civilmente, profugo dalla politica, esiliato, nomade per l’Italia e poi a Ravenna, e quella di Vincenzo, funzionario della Democrazia Cristina di Ravenna, un tecnico fuori dai giochi delle correnti e del potere, che a un certo punto per la sua dirittura sarà emarginato, un padre che ha insegnato al figlio che la politica è servizio alla polis, un affabulatore che lo ha portato in quella meravigliosa storia in versi che racconta la possibilità di ricominciare dopo l’esclusione, l’esilio, lo sprofondamento. Con un ottimismo sapienziale, che non si fa spaventare dalle rovine della cronaca, nutrito di versi scambiati da Vincenzo con Marco ormai adulto, siglato in una cartolina dalle Dolomiti con una frase di Teilhard de Chardin: «Il meglio finisce sempre per accadere, e il futuro è migliore del passato».
In poco più di centocinquanta pagine ripercorriamo lo stile e la vita di Dante, rivediamo la nascita della vocazione civile dallo sguardo a un’Italia ridotta a cumulo di macerie urbane e umane per le lotte fratricide; ripercorriamo la fiducia, mal riposta, nell’Impero, l’approdo a Ravenna e le missioni diplomatiche per il suo signore, Guido Novello, la sconsolata solitudine politica e l’immenso poema apprestato in silenzio. Circa l’Impero, Martinelli parla del grande abbaglio di Dante, avvicinandolo a quello di Majakovskij, accesso dall’entusiasmo della necessità di cambiare il mondo e la vita, e ancora cambiarli, fino al suicidio per la delusione del fallimento della Rivoluzione: «Ed è questo slancio impetuoso verso la giustizia che ci commuove, la forza veritiera di quella protesta, non tanto il fatto che Dante sbagli a identificare l’argine giusto. Così come nel leggere Majakovskij, il poeta russo suicida nel 1930, non ci mettiamo a fare l’esame ai suoi convincimenti ideologici, ma siamo commossi da quel grido stentoreo contro i soprusi, ci incanta quel sogno di felicità che traspare da ogni verso, di felicità per tutti» (p. 133). «Ogni testo la sa più lunga di chi l’ha scritto», chiosa con Kipling l’autore.
Il Paradiso terrestre
Con questo libro di formazione, con questo viatico, Martinelli ora si appresta al nuovo spettacolo, al cammino verso la purificazione, che inizierà dagli altari della Chiesa del riscatto a Matera. «Abbiamo incominciato a provare in novembre – ci racconta sul metodo – parallelamente qui e a Ravenna. Lo spettacolo sarà itinerante come Inferno: Dante sarà il cittadino spettatore che, condotto da Ermanna e me in veste di Virgilio, deve salvarsi l’anima con le gambe. Qui a Matera le Monacelle, con i suoi spazi all’aperto e al chiuso, ben si prestano al viaggio sul monte della purificazione». Quello in cui scopriremo, con l’umiltà e l’attenzione nell’apprendimento di un coro di bambini tra i banchi di scuola, con le parole del canto X «che noi siam vermi / nati a formar l’angelica farfalla».
Siamo tornati nello spazio dello spettacolo, che per ora si può raccontare solo per sprazzi, frammenti, suggestioni. Ancora un monito, quello di Oderisi, come altra guida per lo spettacolo e forse per il nostro rapporto con le cose grandi e per quelle di ogni giorno: «Nel Purgatorio ci sono quasi tutti i musicisti, poeti, pittori nominati nella Commedia. Dal fondo della terra guardano verso il cielo. Con la coscienza, come dice Oderisi da Gubbio nel canto XI, nel cerchio dei superbi, che la gloria umana è come un fiato di vento: “Credette Cimabue ne la pittura / tener lo campo, e ora ha Giotto il grido / sì che la fama di colui è scura”».
Sfidiamo ancora la pioggia per vedere i luoghi delle ultime stazioni. Dopo la sala col contrabbasso (ora stanno provando, sembra un terremoto, o lo stesso sordo frastuono del tuono che rimbomba dalle nuvole nere intorno), saliamo una stretta scala, percorriamo un corridoio aperto da un lato sulla valle verso i primi insediamenti rupestri, e raggiungiamo un poggiolo tra archi. Il passaggio domina dall’alto una cartina d’Italia con la fossa degli iracondi, quella a cui il poeta rivolge la rampogna “Ahi serva Italia, di dolore ostello”». Attraverso questo angusto passaggio i circa ottanta spettatori si inoltreranno verso il finale, con un muro di fuochi sul tramonto. Da questo affaccio sulla valle scorgiamo, in lontananza, il luogo del Paradiso terrestre, che apparirà per la prima volta il 17 maggio, racchiuso sui tetti tra la città di pietra e il verde della valle.
Piove ancora, ogni tanto un po’ meno, poi di nuovo a scrosci. In fondo al panorama di una Matera antica color terra bagnata emerge la sommità di un palazzo orribile di cemento «Quel Paradiso terrestre sarà simile alla nostra terra, che stiamo distruggendo. Non un sito da contemplare: un patrimonio da difendere».
Marco Martinelli, Nel nome di Dante. Diventare grandi con la Divina Commedia, Ponte alle Grazie, 2019, pp. 158, euro 14.