Architettura / La capanna dalle origini a Unabomber
C’è una capanna, anzi più d’una, che sembra turbare il sonno di alcuni intellettuali nella nostra vecchia Europa e che ha portato alla produzione di quattro, distinti, interventi critici apparsi con impressionante tempismo dopo la fine della prima fase pandemica del Covid 19.
In alcuni di questi casi è evidente che il periodo di sedimentazione e studio è di molto anteriore a questo annus horribilis ma la coincidenza è troppo evidente per non essere presa in considerazione.
Andiamo per rigoroso ordine di uscita partendo dal volume di Leonardo Caffo intitolato Le quattro capanne o della semplicità (nottetempo, 2020) uscito nel mese di giugno, a cui segue a stretto giro il pamphlet di Michael Jakob La capanna di Unabomber o della violenza (letteraventidue, 2020), mentre in terra d’oltralpe Philippe Rahm pubblica Histoire naturelle de l’architecture. Comment le climat, les épidémies et l’énergie ont faconné la ville et les bâtiments (pavillion de l’arsenal, 2020) e, molto recentemente, sul nuovo numero della rivista Vesper, Alessandro Rocca e Jacopo Leveratto propongono un saggio intitolato “Thoreau e Kaczynski, la capanna mediatica. Costruire un manifesto”.
Essendo stati realizzati in isolamento (tipico di ogni studioso che si rispetti) e in parallelo, i diversi interventi non si prendono in considerazione reciproca ma lavorano più o meno sulle stesse fonti.
Sullo sfondo aleggiano alcuni, necessari, fantasmi: primo fra tutti l’abate Marc-Antoine Laugier, il primo che nella manualistica occidentale moderna abbia dato forma visibile e ideologica all’idea indicata da Vitruvio sulla nascita dell’architettura, in cui la capanna primordiale nasce direttamente dai materiali offerti dal bosco e che, da questa matrice naturale, sia stata la base per la costruzione di ogni opera tradotta in pietra, mattoni e marmo lungo i secoli.
L’immagine della capanna, costruita utilizzando quattro alberi come montanti verticali e da una serie rami tagliati a realizzare il tetto e indicata come modello da una figura elegante che si appoggia sulle rovine di un edificio classico, si è impressa nella mente degli architetti moderni dalla seconda metà del Settecento a oggi.
Il primo tentativo di cercare una mediazione tra l’architettura come prodotto artificiale e la Natura che, in quel secolo, comincia a non essere percepita più come una nemica da cui difendersi.
Altro buon fantasma è l’immaginario della capanna che accompagna le nostre vite dal primo disegno fatto nella prima infanzia dove, immancabilmente, il tratto incerto e colorato rappresenta la forma a capanna, pensiero universale, quasi innato, che emerge a ogni latitudine e ordine sociale.
Mentre sullo sfondo di questo anno appena terminato rimane il sogno della capanna come luogo in cui rifugiarsi, lontana da tutto e tutti, anti-urbana per eccellenza, pura ed elementare, vicina alla Natura che tanto ci spaventa e che sentiamo di avere offeso. Il ritorno intellettuale alla capanna è una straordinaria fuga dalla realtà e suggerisce l’idea che il ritorno alle “origini” sia un modo per dare forma a nuovi Manifesti per ricostruire dopo questa immane tragedia globale.
Soprattutto i tre interventi critici italiani guardano alla stessa famiglia di capanne “nobili” ma individuando obbiettivi differenti. Per tutti il nucleo di partenza è la mitica capanna a Walden di Henry David Thoreau, realizzata dal filosofo a partire dal 1845 e abitata per due anni, due mesi e due giorni. Fulcro sentimentale e concettuale del suo libro Walden or life in the woods, uscito nel 1854, amato da molti e bistrattato dal mondo più accademico, ma indubbiamente un libro centrale nell’aver costruito concettualmente una relazione forte tra una forma abitata e un ideale esistenziale vicino alla Natura e alla sua essenza primaria. Partendo da Walden in un contrappunto oscuro, buio e irresistibile è un’altra capanna, quella realizzata da Theodore Kaczynski, alias Un-a-bomber, abitata silenziosamente tra il 1978 e il 1996, anno del suo arresto.
In mezzo a questa linea di tensione concettuale intrigante si posizionano altre capanne/manifesto: la casetta nella Foresta Nera di Heidegger, costruita nel 1951 e abitata a intermittenza per quarant’anni, lo chalet abitato nel secondo dopoguerra da Wittgenstein in Norvegia e il “mitico” Cabanon progettato e abitato da Le Corbusier a Roquebrune dal 1952 fino al suo ultimo giorno di vita.
Walden/Thoreau 10x15; capanna/Unabomber 10x15; Cabanon/Le Corbusier 3.66x3.66x2.26; capanna/Wittgenstein 7x8; capanna/Heidegger 6x7.
Walden/Thoreau Walden or life in the woods; capanna/Unabomber Industrial society and its future; Cabanon/Le Corbusier Le Modulor e altri appunti; capanna/Wittgenstein Philosophical investigations; capanna/Heidegger Die Technik und die Kehre.
Tutte costruite da soli, con le proprie mani o guidate da un pensiero progettuale determinato e lucido. Tutte frutto di un amore assoluto che rasenta l’ossessione e, in un caso, la follia distruttrice.
Tutte concepite come luogo interno che guarda fuori, stabilendo con chiarezza un interno e un esterno e ritornando alla funzione originale dell’architettura come luogo artificiale e separato dalla Natura (anche se poi immerso in essa).
Tutte queste abitazioni elementari sono altrettanti manifesti scritti e teorie fattesi carne, chiodi e legno per dimostrare che pensiero e realtà si combinano irrimediabilmente.
Ognuna di queste capanne è apparenza di semplicità che cela costrutti teorici radicali, figli della modernità in cui ogni autore diventa una potenziale Medea pronta ad uccidere il prodotto del suo amore e della sua follia visionaria. Perché se Thoreau è uno degli antesignani di una ricerca di modernità alternativa, forse rincorrendo un modello idealizzato e naïve, tutti gli altri autori nominati (compreso Le Corbusier, il campione del modernismo) guardano senza paura negli occhi della Medusa moderna, ne sono attratti e terrorizzati insieme, cercando in quelle capanne estreme un luogo di silenzio elementare in cui immaginare i nuovi elementi primari di una civiltà da ricostruire.
Leonardo Caffo usa le quattro capanne come modello e richiamo a un ripensamento della filosofia come strumento etico e politico per ripensare alla realtà intossicata che abitiamo, cercando nella parola “semplicità” il filo comune che lega quattro storie apparentemente diverse tra di loro.
Il sotto-testo del suo libro sono le parole in corsivo che definiscono la quinta capanna, quella che l’autore vorrebbe costruire per sé, continuando una parabola concettuale che va rianimata nel contemporaneo e che si compie idealmente nel capitolo finale.
Michael Jakob guarda invece alla semplicità del manufatto, fisico e teorico, come a una rappresentazione della violenza concettuale e teorica che questi luoghi hanno accolto. Coerentemente con le sue ricerche, la capanna di Unabomber è un oggetto semantico da indagare con attenzione e sofisticata erudizione, cercando nella sua storia un prima (tutte le capanne simbolo della cultura americana da Thoreau allo scienziato pazzo) ma, soprattutto, un post.
Affascinate è infatti la ricostruzione della vita che autonomamente la capanna di Kaczynski porta avanti, indipendentemente dal suo creatore: in quanto prova del crimine, pezzo da museo e copia per infinite varianti sul tema portate avanti da una serie di artisti contemporanei dal 1997 ad oggi con impressionante cadenza, come se la cultura americana avesse costantemente da fare i conti con l’idea della capanna come atto primario di violazione della Natura vergine del Nuovo Mondo.
Ultimo sguardo è quello della coppia Rocca/Leverato dove le due capanne Thoreau/ Kaczynski, bianco/nero, pace/violenza sono osservate e ridisegnate in quanto manifesti di una parabola moderna che cerca nella semplicità delle forme e delle sue funzioni primarie il manifesto essenziale di un modo d’intendere il nostro tempo e di ripensarlo.
L’attrazione esercitata da queste capanne è irresistibile perché lega persone straordinarie al luogo più elementare possibile ponendoci davanti a una domanda sul senso profondo di quello che siamo e stiamo cercando con affanno in questi tempi di crisi e transizione.
Vedo nel fascino di questi oggetti primari l’attrazione per un mito dell’origine e di un âge d’or in cui idealmente uomo e Natura camminavano insieme in armonia che non è mai esistito ma che corrisponde al colossale senso di colpa che l’umanità vive per avere violentato brutalmente il Pianeta. L’architettura, la filosofia, l’arte, la letteratura sono scosse costantemente da queste domande di senso e dalla necessità di costruire vie d’uscita sostenibili per le generazioni che verranno e l’immagine della capanna continua a porsi come una delicata panacea ai nostri mali e turbamenti. Gli scritti di cui abbiamo parlato entrano nel flusso necessario di quanti stanno cercando una strada e che generosamente stanno indagando storie e parole chiave necessarie per farci riflettere e costruire narrazioni differenti, attente al mondo che abitiamo, frutto di una gentilezza radicale che diventi progetto per i luoghi che offriremo ai nostri figli. Questo è un tempo di bonifica per future semine, e una capanna in cui tenere al riparo gli strumenti buoni può essere una magnifica metafora da cui cominciare.