La famiglia più malata d’America
Mamma, papà, dodici figli. I Galvin sono belli, biondi, atletici. Il padre Don è nell’Air Force e allena falconi, la madre Mimi ogni giorno prepara una torta. Sono la famiglia perfetta e l’incarnazione vivente dell’ottimismo che anima il boom economico in America – idealisti e gran lavoratori. Sono pronti a cogliere la promessa del futuro, finché il sogno diventa un incubo. Tocca al figlio maggiore Donald ricevere per primo la diagnosi di schizofrenia, cinque fratelli seguono a ruota e i Galvin precipitano nel caos di una tragedia da cui nessuno uscirà indenne.
È la vicenda impressionante che il nuovo libro del giornalista Robert Kolker, Hidden Valley Road: Nella mente di una famiglia americana (Feltrinelli, 473 pp.), in libreria nella bella traduzione di Silvia Rota Sperti, racconta con il respiro di un’umanità che la rende indimenticabile. Sono pagine in cui l’esperienza dei Galvin, un caso di studio fondamentale che a lungo impegna i ricercatori, si intreccia alla storia stessa della schizofrenia e al fermento culturale dell’epoca. E in questa narrazione, così carica di dolore da risultare spesso intollerabile, il mistero più appassionante è quello di una famiglia devastata dalla malattia che malgrado tutto finisce per ritrovarsi tale.
Lo spunto per il libro, che negli Stati Uniti è stato un best seller, arriva da Margaret e Lindsay, le più giovani dei Galvin e le uniche femmine. Vogliono rendere la loro storia pubblica e contattano Robert Kolker, già autore di Lost Girls che affrontava il mistero del serial killer che dieci anni fa a Long Island aveva preso di mira le prostitute (dal libro è stato tratto un film su Netflix).
Il giornalista parla con gli altri familiari, i medici e gli scienziati coinvolti e quando finisce non ha più dubbi: è una storia unica. È una saga che chiama in causa più generazioni sullo sfondo di un’epoca centrale nella storia americana – non a caso in fase di scrittura l’autore racconta di aver spesso pensato a Le correzioni di Franzen o La valle dell’Eden di Steinbeck. Ed è un quadro che il tempo non ha cristallizzato: ogni domanda accende ulteriori ricordi e porta alla luce nuovi documenti.
Il libro si apre nel luogo dove tutto inizia e si conclude, la Hidden Valley Road che dà il titolo al libro. I Galvin vivono lì quando la malattia esplode. Una casa unifamiliare nella periferia di Colorado Springs, allora una cittadina. È piccola per tutti quei bambini ma in mezzo al verde. È un altro passo avanti per una coppia decisa a conquistare il suo posto al sole d’America e nessuno immagina che sia l’ultimo.
Cogliere il momento in cui la storia svolta non è facile. A leggerla oggi, i segnali ci sono tutti ma starci in mezzo è tutta un’altra una faccenda. E poi sono altri tempi e a non tenerne conto il tutto risulta incomprensibile.
Le nascite dei ragazzi Galvin descrivono l’arco del baby boom – Donald è nato nel 1945 e la piccola Lindsay vent’anni dopo. Sono vicini d’età e nessuno si stupisce che bisticcino fra loro. Botte, litigi, esplosioni di rabbia diventano presto un’abitudine. Mimi e Donald, che nel 1965 è eletto Padre dell’anno da un’organizzazione civica, lasciano fare. I maschi sono campioni di football e hockey: venire alle mani non va bene ma è parte del gioco. Let boys be boys, come recita l’adagio maschilista più amato d’America.
Poi la violenza cresce, gli incidenti si moltiplicano e i più piccoli sono terrorizzati. Donald vieta ai figli di picchiarsi in casa senza i guantoni addosso e basta a rendere la situazione. L’immagine pubblica della famiglia modello inizia a scollarsi dalla realtà ma i genitori negano o minimizzano, i vicini guardano altrove e lo spirito dei tempi non aiuta – la rimozione è pratica corrente e chiedere aiuto sinonimo di debolezza.
Donald è diagnosticato schizofrenico all’università, quando la sua aggressività è ormai diventata incontenibile. Qualche anno più tardi, lo si vedrà girare a Colorado Springs con una coperta gettata sulle spalle in pieno delirio religioso. Presto la stessa diagnosi raggiunge anche Jim, Peter, Matt, Brian e Joe. Per tutti si apre un’altalena drammatica di crisi e remissioni, violenze talvolta efferate, arresti e fughe, ricoveri e ritorni a casa. Sono sedati, ristretti, sottoposti a elettrochoc e imbottiti di farmaci dagli effetti così pesanti che due di loro finiranno per morirne. Le teorie si sprecano ma i medici vanno a tentoni.
L’enigma della schizofrenia appassiona gli psichiatri da oltre un secolo. Il primo celebre caso, che torna in queste pagine, è quello di Daniel Paul Schreiber. Presidente della Corte d’appello di Dresda, è ricoverato cinquantenne per una crisi, che in Memorie di un malato di nervi, un testo-chiave su cui si soffermeranno anche Jung e Freud, descriverà costellata di sorprese, terrori e trasporti irresistibili.
In questo come in altri resoconti, l’esperienza della schizofrenia rivela nel suo svolgersi il venire meno della presa sulla realtà e il prevalere di una dimensione che la deforma, distorce e amplifica nei suoi dettagli fino all’insopportabile. È una sofferenza profonda che inghiotte il malato ma non risparmia chi gli sta accanto. I sintomi (allucinazioni, deliri, voci, torpori catatonici), scrive Kolker, “sono assordanti, opprimenti per il malato e spaventosi per chi gli vuole bene, impossibili da elaborare razionalmente”.
La domanda che ossessiona la scienza è perché questo succeda e la si può riassumere nella vecchia questione del rapporto fra natura e cultura. È la genetica a determinare la sorte dell’individuo o è l’ambiente a innescare la patologia? È una malattia di natura fisica da curare con i farmaci o è il portato di traumi per cui la sola indicazione è la psicoterapia? E perché in certe famiglie alcuni si ammalano mentre altri sono risparmiati?
Nella sua eccezionalità, il caso dei Galvin promette parecchie risposte e negli anni Ottanta la famiglia più malata d’America darà un contributo fondamentale alla comprensione del disturbo. Grazie al loro materiale genetico, la ricerca riuscirà infatti a evidenziare nei malati alcune matrici ricorrenti. Intanto, studi di lungo periodo mostreranno i limiti dell’approccio psicoterapico.
Benché i progressi siano enormi, il segreto della schizofrenia a tutt’oggi è però inafferrabile. Da sole né la genetica né la psicologia sembrano spiegare il disturbo, che oggi colpisce una persona su cento. In assenza di un fattore scatenante, la sola predisposizione genetica risulta non sufficiente. La risposta pratica sta dunque nel mezzo: “un’ondata relativamente nuova di ricerche – scrive Kolker – sostiene l’efficacia dei cosiddetti ‘interventi soft’: una combinazione di psicoterapia e sostegno famigliare, intesa a ridurre al minimo l’utilizzo di farmaci”.
Quando i fratelli Galvin si ammalano le risposte sono di là da venire e la realtà disperante. Metà dei figli sta male, l’altra è traumatizzata e i genitori si ritrovano stretti fra pregiudizi e responsabilità schiaccianti. Se oggi il disturbo psichico è parte del discorso pubblico, allora lo stigma è potente. E prima che se ne scopra la componente genetica, un ruolo centrale nell’insorgere della schizofrenia è attribuito proprio alla madre e alla famiglia – la malattia ha i suoi colpevoli.
Eppure è proprio Mimi, una donna intelligente e molto colta, che con coraggio si fa carico di quei figli. È una prigione a vita che non le risparmia nulla in un mondo che sotto i suoi occhi cambia in modo drammatico. Sono gli anni in cui Kennedy ridimensiona gli ospedali psichiatrici, fino allora cittadelle di migliaia di malati; il movimento dell’antipsichiatria ribalta molti assunti storici e la denuncia della violenza all’interno dei manicomi raggiunge la coscienza collettiva.
Il romanzo Qualcuno volò sul nido del cuculo è pubblicato nel 1962, Tititicut Follies, il documentario in cui il grande Frederick Wiseman documenta le condizioni disumane del Bridgewater State Hospital in Massachussetts in cui i pazienti sono denudati, imboccati a forza e maltrattati, esce cinque anni dopo e si immagina come si possa sentire una madre.
La casa di Hidden Valley Road, dove Mimi rimane fino alla fine, diventa il rifugio e la stazione di passaggio in cui riparano i suoi figli malati. Qui Robert Kolker la incontra ormai novantenne e malata. La donna ricorda con chiarezza la vergogna e il senso di colpa che l’hanno torturata prima che la scienza individuasse la base genetica della schizofrenia. “Ero distrutta – dice – perché credevo di essere una brava madre. Preparavo una torta farcita e una crostata ogni sera. O almeno della gelatina con la panna montata”. Si può sorridere ma ognuno lotta come può contro i suoi fantasmi e Dio sa se i suoi richiedevano coraggio.
La storia dei Galvin non finisce però con la morte di Mimi. Oggi è Lindsay, la più giovane, a occuparsi dei fratelli malati ancora in vita e a tenere insieme la famiglia che oggi conta un’altra generazione. Il tempo non ha guarito le ferite ma le ha rese in qualche modo più sopportabili. Qualcuno rifiuta di rivangare quelle memorie così dolorose, per altri le risposte della scienza sono state un sollievo e da allora tutti sono cambiati. Hanno riscoperto l’umanità di quei fratelli che così a lungo il mondo aveva considerato privi di valore e imparato un modo diverso di stare insieme.
La loro, conclude Kolker, è “una storia che ci mostra, anche dopo che è andato tutto terribilmente storto, un modo nuovo di intendere cosa significa essere una famiglia”. A suo modo, è un lieto fine e un richiamo all’azione per un paese che ha spento la speranza della riforma, ha fatto delle carceri i nuovi manicomi e alla malattia mentale risponde con la polizia, la violenza, le morti insensate.