Intervista a Stefano Massini / Lavoro, parola controtempo
Che cosa era il lavoro nel passato e che cosa è oggi, in tempi di fluidità, di mobilità, di precarietà? A questa domanda prova a rispondere Stefano Massini in Lavoro, un libretto della serie “Parole controtempo” del Mulino, dichiarando subito che lui non è un giuslavorista e neppure un sociologo e che perciò non parlerà “del lavoro come fenomeno, bensì come parola”. Lui è consulente artistico del Piccolo Teatro di Milano, scrittore di teatro, autore di testi molto rappresentati e soprattutto di Lehman Trilogy, uno spettacolo che sta calcando i palcoscenici di tutto il mondo, la storia della dinastia alle origini della banca d’affari Lehman Brothers, una delle protagoniste dell’ultima grande crisi finanziaria mondiale. In questo volume di 131 pagine Massini ripercorre varie questioni partendo dalla consapevolezza che “è fuori dubbio che la parola ‘lavoro’ rappresenti oggi un elemento di acida stonatura, coincidendo con una ferita scoperta, un nodo nevralgico, forse il più doloroso quesito senza risposta dentro un cimitero che alle croci ha ormai sostituito i punti di domanda”. E lo fa, come si vede da questo breve assaggio, con leggera, sapiente tensione di scrittura.
Come mai il Mulino ha chiesto a uno scrittore di teatro di trattare il lavoro come parola controtempo?
Perché chi scrive di teatro con le parole ci lavora. Noi, come drammaturghi, attori, operatori della scena, dovremmo essere consapevoli di essere i più titolati a parlare di linguaggio. Il libro tratta un termine corrotto dall’uso, dall’impiego che gli uomini ne fanno, con echi particolari in tempi di crisi economica e sociale come i nostri. Le parole sono veicoli, strumenti che si modificano a seconda di come le adoperiamo.
E la parola “lavoro” è stata distorta?
Un termine come quello in un certo momento significava qualcosa e oggi porta con sé correlati diversi. Compito di noi che scriviamo di teatro, che ci occupiamo di oralità, è quello di tutelare le parole rispetto all’uso che ne fa il discorso sguaiato. Ho sempre dedicato la mia attenzione alle parole, al potere di ogni parola, al suo sprigionare effetti, creando immediate griglie di relazioni, come scrivo nella Premessa. E ho sempre prestato particolare interesse al tema del lavoro. In un momento storico come quello che attraversiamo, in cui si stanno ridefinendo cose, valori, posizioni, mi sono chiesto che cosa ci dà da vivere sostanzialmente. Il lavoro è stato per secoli la colonna vertebrale dell’individuo, ma ciò si sta ridefinendo in modi imprevedibili in una società liquida come la nostra.
Ti sei occupato di lavoro anche in teatro. In 7 minuti, portato in scena da Alessandro Gassmann con Ottavia Piccolo e prossimamente sugli schermi con la regia di Michele Placido, si narra di ristrutturazione. Una multinazionale chiede alle operaie di una fabbrica di rinunciare “solo” a 7 minuti di intervallo. All’inizio si oppone unicamente il personaggio di Ottavia Piccolo, argomentando che 7 minuti per 200 operaie per 365 giorni sono un immenso numero di ore lavorate gratis. E la sua analisi a poco a poco riesce a convincere anche tutte le altre. Anche in Lehman Trilogy, spettacolo che in Italia ha visto l’ultima regia di Ronconi al Piccolo Teatro, si parla di lavoro, anzi di trasformazione del lavoro, di metamorfosi dell’economia da quella manifatturiera ottocentesca a quella finanziaria, volatile, in crisi, di oggi.
Ho scritto anche un altro testo, Shenzen significa inferno, dedicato a una fabbrica lager cinese dove hanno scoperto l’esistenza di un vero e proprio regime concentrazionario. Pur di portare la produttività ai massimi livelli, gli operai sono assoggettati a un sistema di sfruttamento totale, al punto tale che fu creata una polizia segreta interna per vedere se l’operaio era prossimo al suicidio e nel caso licenziarlo prima, per non pagare i danni. Quella fabbrica è il luogo che produce il 90 per cento delle componenti dei microchip dei nostri cellulari…
È importante, quindi, riflettere sulle trasformazioni del lavoro, oggi?
Il lavoro è un tema fondamentale, proprio perché non lo capiamo fino in fondo. Siamo sottoposti a una ridefinizione totale delle forme produttive precedenti. In 7 minuti le operaie sono costrette a dare risposte a un interlocutore, la nuova proprietà multinazionale, che non vedono. E non si fidano neppure della loro delegata, interpretata da Ottavia Piccolo, che è a colloquio con i misteriosi nuovi padroni, chiusa in una stanza di riunione da ore. In Lehman Trilogy si passa dalla merce tangibile che commercia la prima generazione di questi immigrati negli Stati Uniti nel piccolo negozio che aprono, dal lavoro minuto e ossessivo, a varie ridefinizioni attraverso le quali il lavoro diventa puramente virtuale fino a trasformarsi solamente in numeri sullo schermo di un computer. Scrivere questo saggio per il Mulino sulla parola lavoro e sui suoi vari significati, nel corso tempo, ha contribuito a chiarirmi le idee su cosa stia avvenendo. Non credo di essere pervenuto a una risposta, ma almeno ho sollevato alcune domande.
Proviamo allora a iniziare il viaggio nella parola lavoro?
Sono laureato in lettere classiche e la ricerca delle etimologie per me scatta automaticamente. Nell’origine della parola puoi trovare qualcosa che ti fa riflettere su come è partito un processo e dove è arrivato. Ragioni sui tragitti, sui viaggi che quell’insieme di suoni ha fatto nella sua storia; rifletti sui decessi e sulle nursey dove i termini che usiamo si formano e prendono vita.
All’origine di “lavoro” tu individui alcuni bivi di significati. Lavoro è il prodotto, ma anche il processo per raggiungerlo. Il latino labor vuol dire fatica, e questo senso è rimasto esplicito in molti dialetti italiani. Ma rilevi anche come la radice sanscrita da cui discende il latino labor significa “afferarre ciò a cui si mira”, “conseguire ciò che si desidera”, con un’accezione positiva di “creare”, “dare alla luce”.
Sì, parlo di un bivio inziale in cui si confrontano le radici che ci raccontano il lavoro come sforzo, come bestialità, ma che ci suggeriscono anche l’esito della creazione. Tuttora ci dibattiamo tra il “lavorare come un somaro” o lavorare come qualcosa in cui cerchiamo di realizzarci. L’altro aspetto importante che tratto nel libro è che il lavoro è prevalentemente un atto che serve a trovare le risorse che ci permettono di mangiare. In questo senso il lavoro è qualcosa di biologico, di necessario, di non opzionale: gli animali impiegano la maggior parte del loro tempo a cercare il cibo. E però il lavoro è anche una questione di carattere culturale. Dedico un capitolo ai robot.
Parli a lungo di questi nuovi Adami, robot violinisti per deliziare ospiti di cliniche e ospizi, ma anche creature a controllo digitale impiegate in fabbriche, uffici, case, in nuove inedite convivenze con gli umani. Tra l’altro ricordi che il termine “robot” nasce in R.U.R., un testo teatrale dello scrittore ceco Karel Capek degli anni 20.
La tecnologia e la cibernetica sono entrate in modo prepotente nelle attività produttive. Trovo che oggi la frustrazione di chi lavora sia dovuta al fatto che ti confronti con computer, con macchine infallibili, mentre tu sei soggetto sempre all’errore. Forse noi che facciamo lavori umanistici ce ne rendiamo meno conto. Ma doversi confrontare con un nastro trasportatore che non perde colpi crea problemi, evidentemente.
Eppure le macchine sono state inventate per liberare l’uomo.
Il robot serve a liberare dalla fatica estrema. Ma noi siamo ormai come uomini soggiogati ai buoi. Macchine così avanzate come quelle odierne minacciano di essere loro a dominare l’uomo. Ci sono computer in grado di giudicare i livelli di apprendimento dell’essere umano, di valutarlo, di inibirlo. E ciò creerà una questione ulteriore, di carattere etico. Se la macchina è titolata a giudicare l’uomo, che conseguenze può avere per esempio l’informatizzazione estrema della giustizia: quanto un verdetto “oggettivo” emesso da una macchina che applica le norme in modo indiscriminatamente uguale per tutti, realizzando una specie di principio salomonico, può essere in grado di percepire le variazioni, le sfumature del comportamento umano? La domanda è: l’eccesso di oggettività è umano o disumano?
Due altri termini sui quali rifletti sono occupazione e tempo libero.
Parliamo di tempo libero perché ce n’è uno occupato. Questo modo di dire e la sua origine mi hanno stupito: “occupazione” è un termine del gergo militare. Sentiamo, in questo senso, il lavoro come una forma di controllo, di potenza altrui sul nostro tempo. In un capolavoro della letteratura teatrale tedesca come Tessitori di Hauptmann o nello stesso Woyzeck di Büchner il lavora è una forma se non proprio di tortura di invasione totale del tempo. Oggi, però l’occupazione si sta evolvendo in modo strano. C’è come la sensazione di esserci liberati o di essere sul punto di liberarci del lavoro servo. Dappertutto su internet si reclamano attività che ti permettono di operare da casa, quando vuoi tu. Sembra che la tecnologia possa liberarci da quella occupazione militare del tempo e dai suoi obblighi. Ma nella realtà tale liberazione si trasforma in un impiego totale o quasi totale della propria vita nel lavoro.
Il lavoro autonomo diventa un impiego totale, che invade sempre di più quello che una volta era considerato il tempo libero. Società della stanchezza la chiama il filosofo Byung-Chul Han.
Io, per esempio, sono un lavoratore anomalo, lavoro quando voglio, quando gli altri staccano. Sono un privilegiato, faccio di ciò che mi piace un lavoro. Il problema è che in questo modo non smetti mai di lavorare, la tua testa, il tuo telefono sono sempre rivolti alla soddisfazione di un’urgenza lavorativa. Siamo nella galassia free-lance, dei battitori liberi: ma questa è un’altra espressione militare, perché vuol dire “lancia libera”. Per liberarci dall’occupazione siamo diventati mercenari.
Quali sono le tue conclusioni alla fine di questo viaggio?
Tra tutte le cose che ho scoperto ricercando, studiando intorno alla parola “lavoro” forse un nodo è quello che tratto nei capitoli sui santi patroni del lavoro. Là vedi nel modo più eclatante come il nostro oggetto d’indagine sia cambiato rispetto a ciò che era in precedenza. Oggi le accezioni di lavoro sono spesso negative. Lo consideriamo frustrante o cinicamente accessorio, rivolto alla ricerca dei soldi necessari per vivere ma staccato dalla realizzazione dell’identità. Un tempo si consisteva nel lavoro che si faceva, si apparteneva, si aveva un santo patrono protettore. Oggi diciamo più frequentemente “mi occupo di”. Abbiamo tolto al lavoro quel valore di ampio contenitore identitario e non abbiamo attribuito una tale funzione a qualcosa di altro. Siamo semplicemente rimasti senza identità. E questa dell’identità sarebbe un bell’oggetto per una riflessione ulteriore...
Finiamo con qualche notizia sulla tua attività teatrale? È vero che Lehman Trilogy diventerà un film hollywoodiano?
Stiamo lavorando a una produzione internazionale in lingua inglese, che dovrebbe essere girata negli Stati Uniti. Intanto, dopo tante versioni teatrali in vari paesi, Sam Mendes sta preparando l’edizione inglese per Londra. Debutterà al National Theatre nell’autunno 2017. Il film è tutto in costruzione, e quindi non riesco a dire altro al momento.
Cosa c’è di Stefano Massini nella nuova stagione del Piccolo Teatro?
Intanto, per tornare alle parole precise, io non sono direttore artistico, come qualcuno ha scritto, ma sono consulente artistico. Lavoro accanto a Sergio Escobar. Nel mio “piccolo” sono molto soddisfatto della sua scelta di puntare nella stagione 2016-2017 per circa il 70 per cento su titoli di drammaturgia contemporanea. Ci saranno Mario Perrotta e Emma Dante, Saverio La Ruina e Michele Santeramo, Letizia Russo e Lina Prosa, Mimmo Borrelli e Serena Senigallia. Una percentuale altissima di autori italiani in un momento in cui il nostro teatro sta prendendo dal basso – indipendentemente dai decreti – una direzione importante, con un corpo di artisti di valore. Siamo poi in contatto con gruppi come Collettivo Cinetico e Carollo-Minasi, con i Babilonia Teatri insigniti di un bel Leone d’argento alla Biennale di Venezia: cerchiamo anche di inserirli in bandi europei, secondo la vocazione di un Teatro d’Europa come il nostro.
Stefano Massini, Lavoro, Bologna, il Mulino, 2016, pp. 131, euro 12.