L’Eresia della felicità di Marco Martinelli
Ti circondano. Sono una sessantina, tra gli undici e i diciotto anni. Tutti con una blusa gialla “cucita con tre metri di tramonto” come quella di Vladimir Majakovskij, il poeta cubo-futurista che voleva strappare la gioia ai giorni venturi. Hanno i colori della primavera esplosa e nomi da neo e paleo italiani i ragazzi dell’Eresia della felicità di Marco Martinelli, una scheggia della “non scuola” di Ravenna, impiantata per la prima volta a nord, anzi a nord-est. Vengono da Asseggiano, una zona periferica di Mestre, dal centro vecchio di Venezia e da Marghera, città-fabbrica in crisi. Si chiamano George, Jiko, Vajit, Chiara, Kevin, Nicolò, Nina, Elisa, Alvise, Adil, Albulena, Damiano, Dan, Zeno, Jennifer, Snizhana, Marco…
Cinema-teatro Aurora di Marghera, a destra della stazione di Mestre, guardando verso Venezia. Sera di venerdì 31 marzo. Sul viale si incontrano pochi passanti, principalmente immigrati. Qui la sala è piena di amici, genitori, appassionati di teatro, insegnanti. È uno di quei luoghi dove si continua caparbiamente a fare teatro dialogando con chi abita nelle città, cercando di trasformare la vecchia arte in sonda dei tempi, di bisogni e sogni in trasformazione. Merito della compagnia Questa Nave, che ha reso questo cinemone parrocchiale lungo e stretto da più di trecento posti un posto vivo. Questo è uno dei luoghi del progetto Giovani a teatro, promosso da Euterpe – Fondazione di Venezia, l’associazione culturale che ha voluto fortemente una sessione della “non scuola” di Martinelli, una ricerca di vita attraverso il teatro fuori da previsioni e regole nata una ventina d’anni fa a Ravenna.
Le bluse gialle le avevamo già ammirate l’estate scorsa a Santarcangelo di Romagna, durante il festival diretto all’altra anima del Teatro delle Albe, Ermanna Montanari. Per dieci giorni Martinelli ha messo nello spazio con duecento giovanissimi i versi di Majakovskij, il desiderio, la necessità di un mondo migliore, attrezzato per la felicità. Adolescente arrabbiato il cubo-futurista, monadi isolate i ragazzi di oggi, sfidati dall’Eresia a una dimensione collettiva che non tarpasse le ali personali. A ritrovarsi, nel rito. A pensare attraverso la voce, il corpo, il movimento.
A Santarcangelo venivano da tutto il mondo. Era una riunione delle “non scuole” di Scampia, Mazara del Vallo, Brasile, Senegal, Stati Uniti, Lamezia Terme e dei molti altri luoghi dove Martinelli e i suoi collaboratori hanno seminato in questi anni. Qui a Marghera le differenze sono sottili e micidiali: studenti di un istituto tecnico di una zona di forte immigrazione, di nazionalità e colori diversi, e figli della scuola bene di Venezia, più i bambini di una scuola media di Marghera. Una miscela ben assortita. Le cronache di Martinelli sul blog di doppiozero raccontano il lavoro, durato vari mesi, prima nelle singole scuole, poi l’incontro, il sospetto iniziale e subito dopo l’affiatamento in uno spettacolo che trascina il pubblico, assiepato nel cinemone.
Si schierano potenti, all’inizio, i ragazzi sul palco, tre, quattro file, molte voci. Si riscaldano, agli ordini del regista: salti, versi, mentre una lentissima, struggente Internazionale in una lingua esotica e dolcissima (scopriremo essere cinese) sembra cullare verso acque di antiche, forse stinte utopie. Ma non c’è tempo per la nostalgia, anche se quella musica insinua, scava, inocula dubbi. Vanno, le bluse gialle, a circondare il pubblico: battono piano le dita sulla mano, sulla faccia, le schioccano, più forte, trasportandoci in una pioggia crepitante e leggera che si trasforma in diluvio. Mistero buffo, di Majakovskij: la terra sconvolta, la pioggia, i tuoni e i fulmini, la terra sommersa. Sul palcoscenico, tra insidie di piccoli squali e giganteschi voraci ratti, appariranno vari barconi di sopravvissuti, in cerca di terre emerse se non più di una terra promessa. Le scene diventano comiche, con i “Puri” e gli “Impuri”, i capitalisti e i proletari di Majakovskij, che diventano nobili veneziani dai nomi improbabili, ragazzi di meticcie periferie, pescivendole e parrucchiere del centro e perfino presunti re di ogni parte del mondo. Tutti cercano di mettersi in salvo a danno degli altri e precipitano all’inferno, ove, sotto le urla lancinanti di una diavolessa, con scene grottesche e divertenti, si riveleranno invece che sovrani pizzaioli marocchini, muratori nigeriani o macedoni e così via, in trancianti trasposizioni della realtà quotidiana.
Nella favola dall’inferno si finisce in un paradiso ancora più allucinato, diretto da un minuscolo Angelo della geometria, una peperina di prima media che ordina la felicità obbligatoria facendo saltare a tempo il gruppo, spiegando che da lì non si può scappare. Poi il regista prende la parola e racconta che Majakovskij vedeva come approdo e salvezza, dal diluvio e dalla peregrinazione, il comunismo. Ma che egli stesso si rese conto che anche quello non era un paradiso praticabile. E noi lo sappiamo molto di più del poeta morto suicida. E allora questa Eresia si chiude con versi scritti dal poeta cubo-futurista diciassettenne quando l’Ottobre era ancora un desiderio senza confini di felicità per tutti.
Sono scanditi dal gruppo di nuovo schierato, nelle diverse lingue d’origine, mentre torna, ora ancor più lancinante, quella dolce Internazionale, a curare il sogno di tempi attrezzati per l’essere umano, anche se non si sa dove esista un uomo felice. Basta, con l’incoscienza della gioventù, proclamare: “Mi cucirò calzoni neri / Col velluto della mia voce / E una blusa gialla / Con tre metri di tramonto”, direzione l’infinito, verso il 3006 a 1 anno al secondo, mentre si accendono le stelle e vuol dire che qualcuno ne ha bisogno, e occhieggiano versi di Andrea Zanzotto e un finale del romagnolo Raffaello Baldini che sembra scritto da Majakovskij: direi che gli errori sono stati tanti, ma si sa che la colpa non è di nessuno: è andata così, ricominciamo da capo...
E qui qualcosa sta ricominciando, nella felicità, nel gioco, nell’intelligenza di questi ragazzi che, tra gli applausi del pubblico entusiasta, ci invadono ballando scatenati intorno, dentro di noi. Per scacciare il male di tempi troppo grigi.
Si replica a Venezia il 4 aprile, al teatro Goldoni, questo straordinario incontro tra tribù che altrimenti difficilmente si sarebbero incrociate, mentre si dice che stiano sbocciando amori e i visi accaldati, contenti alla fine dello spettacolo, testimoniano quanto il tarlo della felicità faccia bene.