Lernet Holenia, Il conte Luna

11 Settembre 2022

Sembra che il suo vero padre non fosse l’ufficiale di Marina Alexander Lernet. O, meglio, così sussurravano i soliti pettegoloni nella Vienna di fine ‘800. Secondo loro, infatti, Alexander Lernet Holenia era il figlio segreto di un nobile impenitente: l’arciduca Karl Stephan d’Asburgo-Lorena, grande ammiraglio della Marina imperial-regia. Ma lo scrittore, per tutta la vita, non ha fatto altro che glissare su questa indiscrezione. Guardandosi bene dal confermarla o smentirla. “Mia madre – si limitava a dire – era la baronessa Sidonie Boyneburgk Stettfeld, sposata in seconde nozze con Alexander Lernet, in servizio sulle navi passeggeri”. Taceva, ovviamente, sul fatto che Sidonie fosse già incinta al momento delle nozze.

Il matrimonio era durato assai poco. Sidonie, di origine spagnola della casata degli Holeñia de Alma, si era separata da Alexander poco dopo la nascita del bambino. E proprio da lì arrivava il secondo cognome del futuro scrittore. Come affettuoso sigillo della famiglia di sua madre, che si era decisa ad adottare negli anni Venti quel ragazzo alto e magro. Dopo che Alexander, diventato nel frattempo autore di poesie apprezzate da Rainer Maria Rilke, aveva servito l’imperatore Franz Joseph combattendo come ufficiale del nono Reggimento Dragoni sui fronti più caldi della Grande guerra: Polonia, Ungheria, Slovacchia, Russia, Ucraina.

Grande amico di Leo Perutz, matematico attuariale impiegato alle Assicurazioni Generali di Trieste e autore di arcani capolavori come Dalle nove alle nove e Il maestro del giudizio universale, Lernet Holenia è stato uno degli scrittori più acclamati della letteratura mitteleuropea. Tanto da spingere qualcuno a definirlo un mito nel mito asburgico. Autore di teatro e di sceneggiature per i programmi radiofonici e per il cinema, capace di sfornare romanzi di grande qualità e successo come Marte in Ariete, Lo stendardo, Due Sicilie, nelle sue storie sapeva far convivere il richiamo dell’epica, il nobile fascino della vecchia aristocrazia condannata a sprofondare nel baratro della modernità, ma anche il brivido del perturbante. Gottfried Benn, il poeta di Morgue” e di Romanzo del fenotipo, diceva che Lernet Holenia sapeva muoversi tra le parole “con l’eleganza di un topo d’albergo in abito da sera che vuol fare un colpo”.

Ed era vero. Basterebbe ricordare la trama del suo Conte di Saint Germain, in cui sullo sfondo di una Vienna torbida e paurosa, pronta a correre tra le braccia di Adolf Hitler che viene nominato solo come “quell’orribile austriaco”, vivono assassini impuniti, sfuggenti personaggi capaci di esorcizzare la morte, enigmatiche figure femminili e reminiscenze del mistero dei Templari. In Un sogno in rosso, poi, alle rivoluzioni, alle guerre, ai cambiamenti epocali della Storia si contrappone un Anticristo capace di portare soltanto sventura.

Ma tra le tante storie uscite dalla penna di Lernet Holenia, una riesce ancora a ipnotizzare i lettori più riluttanti, trascinandoli tra le spire di una vertigine fatta di inquietudine e ambiguità. Pubblicato nel 1955, Il conte Luna è il sedicesimo romanzo firmato dallo scrittore viennese. A tradurlo per Adelphi, dopo oltre mezzo secolo, è stata Giovanna Agabio (pagg. 174, euro 18), che ha saputo rendere assai bene in italiano la lingua aulica, lo stile spesso ridondante. La sciamanica forza narrativa di un autore che, dopo il travolgente successo incassato tra gli anni ‘40 e i ‘60, è stato abbandonato tra gli oggetti d’antiquariato della letteratura novecentesca.

In un mondo che ha perso la propria dignità per farsi governare dal commercio, dal profitto, dal richiamo del denaro, dove si fa la guerra “solo di tanto in tanto, e il concorrente gettato a terra non veniva più eliminato, bensì nutrito e rimesso in sesto, affinché da avversario si trasformasse in acquirente”, un facoltoso imprenditore austriaco entra nella chiesa di Sant’Urbano a Roma. Alexander Jessiersky, che si porta appresso una dettagliata mappa delle catacombe, decide di inoltrarsi negli intricati cunicoli di Pretestato per seguire le tracce perdute di due sacerdoti francesi. Di loro, da tempo, non si è più avuta notizia. E presto pure lui sparirà nelle viscere della città immortale senza lasciare traccia.

Difficile capire le ragioni che spingono Jessiersky a cacciarsi in un’avventura così complicata e pericolosa. A meno di non andare a ritroso nella sua storia per trovare i motivi che l’hanno convinto a raggiungere Roma. A inabissarsi nelle catacombe. Lui, erede di un’aristocratica famiglia di origine polacca, che si porta appresso una fama non troppo limpida.

In realtà, un motivo c’è. Ma lo si può trovare soltanto dopo aver dipanato con Lernet Holenia un intreccio di destini assai ingarbugliato. In tempi “in cui una persona poteva essere accusata di tutto e di qualsiasi cosa, se si riteneva che ciò andasse a vantaggio della collettività”, un certo conte Luna viene sospettato di simpatie per gruppi di tendenze monarchiche. Ed è costretto a svendere i terreni ereditati dalla madre. A comprarli sarà proprio Jessiersky, imprenditore indolente e tentennante. Che continuerà ad assolversi dall’accusa di aver fatto un affare per pochi soldi, alle spalle di un perseguitato, rigettando la colpa “contro il regime e le sue atrocità”.

La discesa nel baratro del conte Luna prosegue inesorabile. Se è vero che “proprio a causa di quella proprietà veniva picchiato a morte o quasi in un lager”. A muovere i fili del catastrofico destino che travolge il misterioso nobiluomo, pur restando sempre ben nascosto nell’ombra, sarà proprio Jessiersky. Tanto da spingerlo a rendersi conto che se mai il perseguitato fosse uscito vivo dall’inferno di Ebensee, “dove si estraeva il sale in un modo estremamente disagevole e le persone condannate ai lavori erano numerose”, avrebbe fatto pagare all’imprenditore la sua stagione all’inferno. E tutto il buio in cui era stato cacciato, le sofferenze, le torture, quel mondo di morti viventi in cui l’avevano confinato.

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Il conte Luna assume piano piano, agli occhi di Jessiersky, le sembianze di un incubo disancorato dalla realtà. “Era diventato inaccessibile, invisibile, spietato, e la sua vendetta avrebbe colpito”. A nulla servono le informazioni che l’imprenditore raccoglie sull’uomo, e che raccontano la sua probabile morte nei gironi concentrazionari del Terzo Reich. Perché quell’individuo, nella mente dell’imprenditore viennese, muta forma. Si disincarna e reincarna in tutte le persone sospette che si profilano all’orizzonte. Lancia indecifrabili messaggi, raggelanti minacce, che solo Jessiersky sembra in grado valutare e capire.

Come l’essere invisibile che tiene prigioniera di un incantesimo la città di Perla in L’altra parte, il visionario e perturbante romanzo pubblicato nel 1909 dallo scrittore boemo Alfred Kubin, anche il conte Luna si insinua nella mente di Jessiersky, fino al delirio. Lo ossessiona a tal punto da convincere l’imprenditore a ripercorrere affannosamente l’origine della sua famiglia e di quella dell’avversario. Lo porta a un passo dalla follia, sussurrandogli che lui potrebbe essere la proiezione terrena della pallida, enigmatica Luna: “Era senz’altro possibile che, per quanto concerneva il suo stesso apparire, il suo viso a forma di falce di luna, con la fronte e il mento sporgenti ma quasi schiacciato al centro, cosparso dei marcati crateri vulcanici delle impurità butterate della sua carnagione, fosse soggetto a fasi crescenti e calanti, anzi, che persino tutto il suo corpo diventasse regolarmente più forte e più debole”.

Da vittima a carnefice, il conte Luna diventa nelle pagine di Lernet Holenia una delle più tenebrose proiezioni dell’inconscio di un uomo divorato dal mai confessato rimorso. Un leviatano pronto a sferrare la sua terribile vendetta. Un mostro che mangia se stesso partendo dalle proprie viscere. Tanto da spingere Jessiersky ad armarsi per cercare di eliminarlo. Nelle tenebre di un perverso gioco al massacro, l’imprenditore finirà per ammazzare persone innocenti, le cui sembianze assumono agli occhi del suo inarrestabile vaneggiamento i connotati del temuto rivale.

Il conte Luna, però, non è soltanto un fortunatissimo incontro letterario tra la commedia nera e un viaggio oltre i confini della ragione, dove l’ombra lunga del Doppelgänger, dell’avversario che abita in noi, semina inquiete premonizioni. In questo romanzo infatti, come in altri suoi libri, Lernet Holenia si diverte a seminare giudizi su quel mondo che, attorno a lui, aveva alzato bandiera bianca davanti alla corsa smodata a un benessere effimero. Che si era adattato ad accantonare le regole basilari del vivere civile. Così, lo scrittore si divertiva a dare degli imbecilli a tutti quelli che avevano chinato il capo davanti al nazismo, assecondando un patetico opportunismo: “Per quanto potesse risultare comprensibile che il Terzo Reich, come già molti altri Reich prima di esso, si facesse degli schiavi, non era comprensibile che li trattasse in modo così miserabile, diversamente da come venivano trattati altrove, fino a privarsi della loro manodopera e quindi anche del tornaconto che ne aveva, o meglio che ne avrebbe potuto avere”.

Lo scrittore viennese non risparmiava irridenti bordare nemmeno ai liberatori venuti dagli Stati Uniti: “Le truppe americane dedicavano tutto il loro interesse alla servitù femminile della zona e ad altre seducenti signore che esercitavano le loro arti in club allestiti all’uopo”. Del resto, una democrazia così fragile e indecisa gli sembrava sempre sull’orlo della possibile catastrofe: “In qualsiasi momento poteva scatenarsi un’inondazione sociale, un’esplosione vulcanica di anarchia, un caos autoritario dal quale si poteva venir scaraventati negli angoli più reconditi dell’esistenza”.

Lernet Holenia era convinto che questo mondo fosse figlio di un caos primordiale. Dal momento che a farlo riacquistare lucidità non erano serviti nemmeno i milioni di morti delle due guerre mondiali. Una stigmate che l’umanità si portava addosso fin dai tempi della Bibbia, tanto da spingerlo a scrivere: “Quando al mondo c’erano soltanto due uomini, Caino e Abele (Adamo non contava già più nulla), la morte di Abele avrebbe dovuto significare molto di più che non la perdita attuale dell’uno virgola cinque percento della popolazione mondiale. Ma venne fuori che la morte di Abele non significava nulla. Caino continuò a riprodursi, e anche l’attuale popolazione della terra si riprodurrà, che sia con o senza quell’uno virgola cinque percento”.

Aggrappandosi alla sua aristocratica anarchia, Lernet Holenia fa riflettere i personaggi, in alcune pagine memorabili di Il conte Luna, sull’appuntamento a cui siamo destinati tutti: la morte. Dialoghi che ricordano la Lettera sulla felicità di Epicuro: “Lei ha solo paura del nulla. Del resto non è poi chissà che, la morte. Essa è straordinariamente sopravvalutata”. E su Dio, lo scrittore non concede illusioni: “Che cos’è Dio in realtà? Di nuovo soltanto l’uomo, l’uomo come vede se stesso”.

Capace di non assecondare mai il verbo nazista, tanto da non risultare in nessuna lista di proscrizione degli intellettuali di lingua tedesca collusi con il Terzo Reich, nel 1948 Lernet Holenia era talmente famoso e apprezzato da spingere lo scrittore Hans Weigels a scrivere con malcelato fastidio: “In questo momento la letteratura austriaca è rappresentata sostanzialmente da due soli autori, ovvero da Lernet e da Holenia”. 

Del resto, era stato lui a raccontare con realismo e completa assenza di retorica l’invasione tedesca della Polonia in uno dei suoi libri più apprezzati: Marte in Ariete. Romanzo che venne bloccato dal ministero della Propaganda hitleriano con il sequestro di tutte le copie distribuite nelle librerie. Che finirono, poi, bruciate in un magazzino di Lipsia in seguito a un incendio scoppiato dopo un bombardamento aereo.

Comunque, ben prima di essere archiviato come un oggetto da museo della letteratura, Lernet Holenia ricevette nel 1948 un omaggio inaspettato dal cinema. Il regista galiziano Billy Wilder, approdato negli Stati Uniti nel 1943 in fuga dalla follia hitleriana, decise di trasformarlo in uno dei personaggi del suo fortunato film The Emperor Waltz (Il valzer dell’imperatore). Si ispirò senza dubbio a lui, infatti, nel creare la figura del gentiluomo assai snob che alla corte di Franz Joseph si fa chiamare barone Holenia. 

A interpretare il nobile da commedia musicale era Roland Culver, ottima spalla per la strepitosa coppia di attori protagonisti: Bing Crosby, il cantante che riuscì a oscurare nel mondo perfino la popolarità di Papa Pio XII, e Joan Fontaine, la diva britannica che vinse l’Oscar per la miglior interpretazione femminile in Il sospetto di Alfred Hitchcock.

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