L’erotismo nero di Celestina
Chi abbia in mente il Ronconi del Panico, quella regia dalle atmosfere stralunate e insolitamente leggere, quell’interpretazione sempre in bilico tra humour e isteria, lo dimentichi. In Celestina si può facilmente riconoscere – fin dal primo ronconianissimo monologo di Giovanni Crippa – lo stile pre-Spregelburd del regista milanese: testi dilatati e rarefatti, un’esasperazione quasi espressionista del carattere dei personaggi, un programmatico anti-naturalismo.
La scelta del testo in scena fino al primo marzo al Piccolo Teatro è, come di consueto, peculiare e meditata. La corposa opera di Fernando de Rojas viene presentata attraverso la riscrittura del canadese Michel Garneau: una drammaturgia che ha sfoltito l’estensione del testo originale ma anche gli orpelli e le sovrabbondanze dello stile di inizio Cinquecento.
La storia d’amore di Calisto e Melibea è, almeno sulla carta, una vicenda non troppo diversa da quella che Shakespeare racconterà in Romeo e Giulietta: due innamorati, un’intera squadra di amici e servitori a mediare e organizzare nell’ombra incontri notturni clandestini, i genitori della fanciulla ignari e alle prese con l’organizzazione di un altro matrimonio, una tragica morte in agguato. Manca però lo slancio poetico shakespeariano: le atmosfere di de Rojas sono ben meno limpide, e alla genuinità dell’amore dei due crediamo assai meno. A dominare il testo c’è poi Celestina (una memorabile Maria Paiato), l’ambigua mezzana che pare uscita dalla commedia nuova o dal mimiambo greco, personaggio ben meno amabile della nutrice di casa Capuleti.
La regia di Ronconi dà deciso risalto all’aria fosca e moralmente ambigua che si respira nel testo: tutti i personaggi paiono afflitti da una perenne eccitazione sessuale che li debilita come una malattia, che ne determina le azioni, ne fiacca gli intenti. E se Celestina è il centro di questo inquieto erotismo nero (il suo contatto con il soprannaturale viene rappresentato, coerentemente, come una vera e propria possessione sessuale), nessuno ne è immune: prostitute e servitori, nobili e giovani vergini, madri di famiglia e dame di compagnia, tutti paiono venire progressivamente infettati dall’epidemia del basso ventre, che connota persino la loro postura fisica.
All’amore viene dato ben poco spazio, come se – e proprio questo sembra dirci Ronconi – si trattasse di un sentimento anacronistico in tempi di mercanteggi e avidità. Nella messa in scena nulla rimanda esplicitamente al contemporaneo; eppure la rappresentazione di una sessualità torbida e mal gestita come indizio di una società allo sbando ha molto da dirci sul nostro oggi.
In questa Celestina non manca all’appello nessuno degli elementi a cui il regista milanese ci ha abituato in questi anni: una sguardo di raffinata intelligenza sul testo di partenza; una ricercata pulizia che contraddistingue l’intera messa in scena; una scenografia di impatto, capace di unire spettacolarità e densità di significato. Il magnifico apparato di porte immaginato da Marco Rossi – soglie che si aprono verso il basso, che si alzano e si abbassano a disegnare diagonali e a sezionare lo spazio – sono difese che cadono, sono ostacoli facili da aggirare, sono riservatezze da forzare.
Eppure affiora, nel complesso, quella nota sensazione di pesantezza e artificiosità che la geniale drammaturgia di Spregelburd era riuscita a sottrarre al teatro di Ronconi. Il virtuosistico lavoro sulla parola, che sembra apertamente sfidare la sintassi per donare al testo inaspettati cortocircuiti di senso, funziona se a farlo proprio sono interpreti fuori classe come Maria Paiato e Paolo Pierobon, personalità attorali sufficientemente definite da non lasciarsi schiacciare. O, ancora, se a reinterpretarlo sono voci eterodosse come la brava Licia Lanera di Fibre Parallele. Il rischio, altrimenti, è la noia: e poiché si tratta di uno spettacolo di oltre tre ore (davvero tutte indispensabili?) si tratta di un rischio piuttosto concreto.