Galleria Milano (MI), fino al 15 gennaio 2018 / Luca Maria Patella: osare

4 Gennaio 2018

Il problema con l’opera di Luca Maria Patella, ma anche il segno della sua originalità, è che non si sa bene da che parte prenderla. I commenti da sempre rivelano un imbarazzo che è sicuro segno dell’impossibilità di situarlo all’interno delle categorie usuali – rispetto alle quali, peraltro, lui giustamente rivendica anticipazioni ad ogni piè sospinto – mentre lui, da parte sua, insiste sulla complessità indispensabile per affrontare le questioni in tempi come i nostri e la sua libertà dai giochi del sistema, sia quello dell’arte che quello di ogni potere. Facendo leva sulla sua duplice e triplice formazione, tutta ad alto livello, sia scientifica che artistica che psicanalitica, Patella rivendica anzi un’unicità da questo punto di vista. Ma a chi scavalca le premesse e guarda i risultati, cioè le opere, in fondo non basta come ragione e continua a chiedersi dove stia il loro significato, artistico da un lato, ma anche storico dall’altro.

 

 

Un dato è certo: l’uso delle tecniche, della grafica prima, della fotografia e del video poi, è stato tempestivo e fuori dagli schemi; le sue Terre animate (1966-67) sono una Land art sui generis, così come sui generis è il suo “concettuale” e la sua multimedialità precoce, e da ultimo l’uso della tecnologia del virtuale. La caparbietà con cui coinvolgeva chiunque in discussioni pubbliche su argomenti impegnativi deve aver messo a disagio molti, così come il suo scrupolo nella presentazione della sua opera in maniera sempre totalizzante – nelle mostre e nei cataloghi che sono libri d’artista – deve dare ancora oggi l’impressione di un’insistenza eccessiva o irrisolta, così come il suo costante gioco con le parole, in ogni intervento e non solo in titoli e lavoro letterario. Infine il suo porre domande che mirano al centro stesso del senso dell’arte e della vita deve probabilmente disturbare molti.

 

Ripartiamo allora da qui. La nuova mostra, che dalla Galleria Il Ponte di Firenze è passata alla Galleria Milano di Milano (aperta fino al 15 gennaio 2018), è intitolata nientemeno che Non oso / Oso non essere, titolo che più impegnativo non si può, chiamando in causa l’essere e l’osare – e la negazione e il suo rovesciamento – soprattutto in tempi come questi, in cui osare è diventato tutt’al più un gioco e l’essere, che sia l’identità o l’esistere, è materia quanto mai scottante. Nel rovesciamento della negazione sta tutto il senso rivendicato dall’artista: coscienza e inconscio devono essere compresenti, e per fare questo occorre mettere in gioco tutte le proprie facoltà e al tempo stesso avere il coraggio anche di assumersi il, o di, “non essere”.

 

 

La mostra – come ogni sua del resto – è dunque concepita come un’iniziazione a tale “mysterium”. L’entrata è segnata dal duplice profilo di Federico di Montefeltro, uno a destra e uno a sinistra, uno arancione e uno verde, i colori psichici junghiani dell’intuizione-sentimento e della sensazione, per cui si entra passando nel vuoto che i due profili disegnano, inoltrandosi verso lo sfondo celeste (il pensiero). Lasciamo stare i rimandi storici, qui evidentemente, come sovente in Patella, a Duchamp, ovvero alla sua porta della galleria Gradiva. Il vuoto nel caso di Patella, si noterà, disegna la forma in negativo di un vaso, rovesciamento dei vasi fisiognomici in cui è il vuoto della silhouette del vaso a disegnare un profilo di persona. Questa dei vasi fisiognomici è una delle reinvenzioni significative di Patella e qui, rovesciato, rivela tutto il suo significato iniziatico: dentro e fuori, vuoto e pieno, non sono l’uno senza l’altro; non solo comprendere, ma tenere sempre presente, nella pratica, questo principio significa accedere al compimento di sé.

 

Di vasi fisiognomici se ne troveranno poi diversi in mostra, a partire dai due che stanno accanto all’entrata, a loro volta uno (arancione) e l’altro (verde), e poi dipinti, su profili di vari personaggi.

Altro elemento nuovo della mostra è costituito da due campane, una più grande per le ore e una più piccola per i minuti, suonate da un campanaro vestito davanti di arancione e dietro di verde. Anche le campane, naturalmente, riprendono la forma del vaso, capovolgendola, e introducono il tempo e il suono. Patella procede in questo modo, aggiungendo ad ogni passo un elemento che completa la costellazione – una delle opere è in effetti un dittico che riporta le costellazioni australe e boreale con al centro il profilo di Luca l’uno e di Rosa, la donna-moglie-musa, l’altro –, completa, dicevamo, la costellazione degli elementi moltiplicando e intrecciando i rimandi. È così che è costruita anche la sua opera nel suo complesso ed è questa “complessità” che Patella vuole tenere sempre viva nel suo modo di fare arte. Dentro di essa l’opera singola non è riducibile al suo “significato”, né può essere liquidata come simbolica o illustrativa di un’idea, benché questi aspetti la caratterizzino diversamente da altri artisti. Patella non ama i paragoni, per cui non indugeremo in confronti e differenze, ma davvero non c’è altro artista che faccia altrettanto. Tutto però non si riduce qui: le opere “lavorano” anche per conto loro e a ben vedere ogni singola opera, come è giusto che sia, in realtà contiene e condensa – è il caso di dirlo – l’intera logica dell’opus.

 

 

Così, mentre con opera nuova Patella introduce il rebus del “non osare / osare non” in quattro tondi – è necessario che lo siano, perché in tal modo la negazione ruota, anzi è rotazione –, la mostra riprende la via della figura femminile con due tempietti che riportano ognuno una metà di Venere e sono uniti dalla frase scritta ad arco sulla parete “Le vol entier de Vénus” (dove “vol” sta per “volo” ma anche per “furto”, e unito a “entier” dà “volentieri”) e si chiude con una giovane Beatrice/Rosa distesa nuda alla fine del percorso, in una cameretta tutta rosa (aurorale), appena coperta da un tulle rossastro (la rubedo alchemica) e a sua volta sormontata da una scritta sulla parete che dice, citando dalla Vita Nova di Dante: “Nuda, salvo che involta in un drappo sanguigno leggeramente”. Ha gli occhi chiusi: dorme o è morta? Probabilmente dorme, dico io, e forse la mostra può essere riletta all’indietro come un suo sogno. Patella infatti da qualche tempo riproduce nei suoi cataloghi-libri d’artista dei disegni e racconti di suoi sogni, come anche in questo caso. Sembra così che le mostre stesse, le opere o i temi nascano prendendo spunto da sogni – “in parallelo”, dice Patella. Certo è per rielaborare e integrare quanto l’inconscio detta, ma diventa anche un riverbero che si stende sulla mostra e sulle opere, che assumono allora un aspetto onirico che, a me pare, aggiunge loro un carattere lirico che si tende altrimenti a non considerare. Sarà l’effetto della quantità di testi poetici che Patella negli ultimi anni ha pubblicato, sarà che lui stesso vuole legare anche questo al resto dei suoi interessi e ambiti di intervento: “tout se tient”, è questo il suo motto, la sua ambizione, la sua poetica, ed è pur vero.

 

La mostra è a cura di Alberto Friz e il catalogo-libro, sfogliabile e scaricabile per intero sul sito della Galleria Il Ponte, riporta un suo testo e una lunga intervista all’artista di Ilaria Bernardi.

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