Cattive intenzioni / Macchie sui muri
Ci si chiederà: ma cosa mi servono ora dei libri sulle “macchie” o cose simili, in tempi così duri, di pandemia e quel che comporta? Provate a leggere e a trasporre dall’ambito delle “macchie” a quello della situazione. È così, mi pare, che funzionano gli studi e i discorsi, non necessariamente sempre diretti. D’altro canto questa maledetta “attualità” ci costringe a questi doppi sforzi per apprezzare le idee che vengono da ogni parte.
Però, penseranno molti, quante volte l’abbiamo sentita questa storia di Leonardo che invita i giovani apprendisti artisti a cercare figure nelle macchie sui muri e via dicendo, ma Adolfo Tura è uno storico dell’arte di classe, di quelli che non ripetono l’arcinoto, che hanno una cultura che spazia dall’antichità al contemporaneo, che insinua teorie con eleganza, senza enfasi, per arrivare ad esporre una propria idea.
La sua Breve storia delle macchie sui muri (Johan & Levi, 2020) ha una tesi, ma la si scoprirà solo alla fine del libro. Nel frattempo ci accompagna lungo un percorso dalle mille sorprese e spunti, con degli affondo vertiginosi e insieme la discrezione del grande conoscitore.
C’è infatti macchia e macchia, e soprattutto sguardo e sguardo, e non solo. Tanti, se non tutti, hanno subìto in un momento o nell’altro il fascino dell’argomento: cosa si nasconde non solo e non tanto nelle macchie quanto nel fatto stesso che ci affascinano e che siamo spinti a vedervi delle figure che oscillano tra l’essere e il non essere, che non possiamo chiamare pure illusioni né allucinazioni, che rimandano a un principio non solo percettivo e ci danno l’impressione di attingere a un meccanismo così profondo da sembrare primordiale. Non solo gli artisti visivi vi fanno riferimento ma scrittori, poeti, filosofi, retori, scienziati, studiosi di ogni tipo e disciplina: c’è Shakespeare come c’è Tanizaki, ci sono Quintiliano o Filostrato come Wittgenstein o Simmel, c’è Einstein (Carl) come Bergson o Gombrich, per citarne alcuni tra i più noti, e davvero molti altri vengono chiamati in causa in un’esuberante costruzione. E tanti artisti naturalmente e principalmente, perché tutto ruota intorno a loro.
Tura azzarda perfino che forse l’immagine stessa, il nostro vedere per immagini, sono nati così, attraverso l’operazione “paranoica”, come viene detta, dell’australopiteco che per primo ha “visto” un volto nelle irregolarità di una pietra. È detta paranoica perché è proiettiva, siamo noi che vediamo qualcosa che non c’è, l’immagine parte da noi, non è nel reale, è ombra, è fantasma.
A questo meccanismo sono collegati non solo le illusioni ottiche ma anche la facoltà della “veggenza”, non solo l’allucinazione ma anche il mimetismo, l’ambiguità e lo sfocamento, l’identificazione e l’ornamento, l’invisibile e l’inveduto, il fraintendimento e l’errore, e con essi tutta una storia dell’arte e dell’immagine. Anzi, da un certo punto di vista è una controstoria dell’arte quella che si disegna, in controcorrente rispetto a quella più diffusa, che punta sulla giustezza della rappresentazione.
In questi termini comunque se ne approprierà l’arte contemporanea. Da un altro punto di vista è però fin troppo paranoica, appunto – o troppo poco, secondo Dalì, che la eleggeva a metodo per raggiungere la visionarietà. Troppo per tante ragioni, che sono quelle, in sintesi, dell’arte e della cultura contemporanee, che hanno cominciato a guardare anche le macchie stesse, anche i vuoti, le discrepanze, i casi, le inversioni, gli slittamenti, le sovradeterminazioni, e che d’altro canto l’hanno usata in senso anticontemplativo, antigerarchico, antiformale, e antiverbale, anticoncettuale: l’immagine non è la parola, non è riducibile al concetto.
Nel suo testo Tura mostra analogie di molti che hanno evidenziato o fatto appello alla visione nelle “macchie”, in accezione allargata; applica distinzioni essenziali come quella tra le opere che nascono dall’attività paranoica, quelle che la attivano e quelle che ne parlano, o quella interna alle diverse concezioni dell’informe; ricorda le differenti concezioni fin dall’antichità, dagli àuguri che leggevano nel fuoco, nelle viscere, nelle nuvole, alle immagini fortuite dell’Alberti, ad arrivare a riferimenti contemporanei, anche dei meno scontati come De Dominicis e Ousler o Gursky.
Il testo è un crescendo, costruito con abilità retorica. La seconda parte ribalta il paradigma dall’interno: si passa dalla anti-veggenza, alla resistenza alla paranoia, fino al suo rovesciamento nella “afasia” di Pierre Bonnard, “dipingere persone come fossero macchie”, e nella “glossolalia” di Jean Dubuffet, una pittura che “non è più l’analogo di una esperienza visiva naturale”, i due principali campioni della sua proposta. Sulla scorta di Nietzsche e di Carl Einstein, mette quest’ultima all’insegna di una “cattiva intenzione”, quella d’intensificare il disordine, che al di là del rovesciamento può guidare tanto la veggenza quanto l’anti-veggenza: “L’indifferenziato”, infatti, “è il nome che la cultura dà a ciò che non vede. Un’attitudine eversiva che si voglia conseguente non può consistere nell’abbracciare l’indifferenziato, ma nel rifiutarsi di considerarlo tale”. È, questo, veramente il nucleo di tanta cultura e arte del XX secolo – io dico soprattutto delle “avanguardie” –, la critica delle opposizioni, del loro dare per consolidati i termini opposti e per vago e inaccettabile ciò che non vi rientra. Per farvi fronte non si può cadere a propria volta nell’opposizione, quindi occorrono prese di posizione e strategie diverse.
Quella di Tura la lascio scoprire al lettore, non solo per non rovinargli il piacere, ma anche perché, confesso, ha per me i limiti che si rendono evidenti nella scelta dei due campioni scelti, nell’assenza di tutta un’arte degli ultimi decenni in cui personalmente sono invece coinvolto. Mi limito a chiudere con delle domande non rituali: Se questa è la o una visione del XX secolo, qual è quella del XXI? E del lockdown e del dopo-covid? Macchie, cattive intenzioni o altro ancora?