Marcel Marceau, vita di un mimo

28 Aprile 2024

Ha attraversato i peggiori incubi del Novecento, la guerra e la Shoah, l’uomo che ha fatto del suo corpo un linguaggio, un fragile fiore che portava la realtà dal sogno. Marcel Mengel, in arte Marcel Marceau, inventò il suo personaggio più famoso, il protagonista dei mimodrammi che hanno emozionato le platee di tutto il mondo, subito dopo la Seconda guerra mondiale, che lo aveva crudelmente separato dal padre deportato dai nazisti in un campo di concentramento. Lui, il giovane ebreo che amava Charlot, che aveva studiato con giganti del teatro come Charles Dullin, Étienne Decroux, Jean-Louis Barrault, trovò presto una propria strada e nel 1947 ideò Bip: “Il 22 marzo 1947, diventavo il doppio di me stesso, lo intravedevo proprio davanti a me, sbucato da una nebbia indistinta. Come viveva? Lo vedevo in lontananza, oppure vicino, a volte me lo lasciavo alle spalle. Come sarebbe vissuto? Provavo la stessa angoscia di una donna incinta che si chiedeva come sarebbe stato il suo bambino. […] Così nacque Bip”. Lo cita la figlia Aurélia nell’introduzione a un libro del famoso mimo uscito da Carocci, La mia vita. Dal 1923 al 1952 (traduzione di Cristina Spinoglio). E aggiunge, la figlia: “Volevi ritrovare l’epoca dell’innocenza, il primo risveglio al mondo, aperto a tutti i misteri, alle lontane risonanze che aspirano solo a dare un segno di vita”.

Il libro in realtà a Bip dedica poche pagine e molte delle tante fotografie che contiene, una vera e propria altra storia per immagini dell’attore e del personaggio. Il grande successo di questo Pierrot contemporaneo inizia in quegli anni, ma prorompe solo più avanti. Marceau, nato nel 1923, vivrà fino al 2007, scomparendo a ottantaquattro anni. 

Qualche nota il volume dedica alla rinascita e allo sviluppo di un genere, il mimo, il teatro senza parole, di grande importanza per la scena novecentesca, segnata ancora da un predomino totale della parola: oggi riassorbito nella danza e in un teatro decisamente più attento all’importanza del linguaggio corporeo.

Come ogni autobiografia che si rispetti iniziamo dalla nascita dell’eroe, a Strasburgo, appunto dalla famiglia ebrea dei Mengel. Seguiamo le prime inclinazioni del ragazzo, gli spostamenti al seguito del padre macellaio, la folgorazione per “una nuova divinità” che entrò nella sua vita grazie al cinema, la sconvolse e ne determinò la carriera: Charlot, “il sogno, il mito attraverso la realtà, il calcio alla stella”. Vediamo il ragazzo scoprire la morte, quando scompare la nonna, un corpo senza vita “che sembrava diventato di carta, o di una materia indefinita e non identificabile: ecco la morte, quel nulla”. Come nelle storie, nei mimodrammi di Bip ogni pagina riserva immagini che si scolpiscono nel lettore, per la capacità dell’artista di rendere emblematici momenti quotidiani.

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Prove della pantomima La Bague, 1944.

Presto incontriamo la partecipazione a un movimento giovanile chiamato “Hatikvah”, “che promuoveva il ritorno dei giovani in Israele”. Inizialmente più che impegno politico è come la partecipazione alle attività di uno dei nostri oratori, luogo di gioco, di socialità, di primi innamoramenti. Assistiamo alla scoperta del mare e delle sue onde, il cui moto riprodurrà in uno dei suoi spettacoli. Marceau costituisce la sua prima compagnia teatrale, di bambini, a dieci anni. Entriamo nei suoi sogni e nelle sue paure, nei suoi impegni scolastici, nell’attività fisica, nell’accensione mistica comune a molti ragazzi, di varie religioni, nella prima età.

Poi scoppia la guerra. La famiglia è costretta a emigrare nel Sud-Ovest della Francia, ma questo non salverà il padre dal lager, dove scomparirà con altri milioni di ebrei. 

Le strade sono percorse da camion, milizie e carri armati. Intanto il giovane Mengel si iscrive alle Arti decorative; recita in un’équipe di attori di strada e fiancheggia la resistenza ai nazisti. E sempre di più si lascia affascinare dal teatro dei grandi artisti francesi, Jouvet, Dullin, Baty, Pitoëff, i maestri del Cartel, gli allievi di Copeau, il negatore del piatto naturalismo. “Anche a teatro avevo capito che non bastava recitare un testo e riprodurre l’azione, ma era necessario dare il significato, lo stile e il contegno necessari ai cambiamenti di un’epoca che si situava tra le due guerre”. “Il Cartel ha trasmesso il proprio stile e ha completamente rinnovato il teatro francese rendendolo essenziale e apportandogli la nobile e semplice chiarezza che racchiudeva la grandezza dei misteri”.

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Marcel Marceau nei panni di Pierrot in uno dei suoi primi mimodrammi, La Tour d’amour, 1945.

Intanto, mentre a poco a poco matura la coscienza teatrale, continua la vita, sconvolta dalle deportazioni di massa e schierata, seppure in posizione defilata, al fianco della resistenza. L’autobiografia si dipana tra questi differenti piani, fino al trauma della cattura del padre. 

Marceau abbandona le Arti decorative e arriva nella Parigi occupata. Diventa maestro per bambini cristiani ed ebrei; entusiasta li forma, li fa recitare, li salva dai rastrellamenti. 

Viene introdotto alla scuola di teatro di Lucien Arnaud, attore della compagnia di Dullin. Qui ha le prime lezioni di mimo da Jean-Louis Barrault, che stava deviando dal mimo corporeo di Decroux, dall’azione esclusivamente fisica, basata principalmente sui movimenti del tronco, senza intenti imitativi, e stava cercando di inserire il mimo, partiture fisiche precise, in un teatro ‘totale’. Marceau rievoca il famoso film di Marcel Carné, Les enfants du paradis, in cui recitavano Barrault e Decroux, e ricorda le lezioni e le parole di quest’ultimo maestro, il rinnovatore del mimo nel Novecento: “Il corpo ricrea oggetti invisibili. Imprime con forza il peso, il volume degli elementi trattati; quindi, quando tiriamo o eseguiamo con il nostro bacino un movimento di spinta o di arretramento lo chiamiamo ‘contrappeso’. Il corpo ricrea gli oggetti con i simboli; così quando manipoliamo oggetti localizzati nello spazio, li ricreiamo in modo più pesante che nella realtà, ma il gesto, quello che imprime l’azione, deve essere sfumato oppure a scatti”. Seguiamo le prove, le idee e le pratiche che hanno formato il grande attore. “Rappresentavamo la lotta dell’uomo con gli elementi dello spazio, la sua identificazione con oggetti e personaggi, il suo conflitto interiore con i sentimenti. Il linguaggio del mimo era quello dell’azione; di fronte agli oggetti il mimo diventava oggettivo; di fronte alle passioni si faceva soggettivo”

Prima di farci immergere totalmente nel mondo teatrale Marceau racconta la Liberazione, l’impegno come militare all’estero, ancora con un impegno precipuamente culturale. Poi finalmente assistiamo alle prime creazioni autonome: agli esercizi di lotta contro il vento, con il corpo trascinato via; allo studio delle parti del corpo, come fosse un pittore o uno scultore in cerca dell’essenziale; alla riflessione sulla statuaria, sul balletto moderno di Nizinskij, sulle ballerine di Rodin. Sull’onda di Decroux sembra allontanarsi dalla leggerezza aerea della danza, ancorarsi alle energie del corpo per rinnovare il mimo classico. Ma a differenza del maestro, Marceau va oltre l’astrattismo e il puro gioco di forze e tensioni corporee. Si affida allo stato d’animo, con le pantomime aneddotiche: “non potevamo essere ambigui, bisognava essere capiti immediatamente. Feci allora ricorso a una scorciatoia, sbarazzandomi rapidamente del superfluo grazie all’aneddoto. Non bastava sostituire le parole con i gesti, ma creare una trasformazione fisica, uno stato d’animo, una situazione precisa”, per rendere visibile “l’universo invisibile che viveva in me dall’infanzia”.

Si distanzia da Decroux e neppure sposa il mimo come parte di uno spettacolo più composito di Barrault. Crea storie e personaggi suoi: La bague, un pigro mendicante che finge di essere cieco; Le désoeuvré, lo sfaccendato, una pièce più ritmica, veloce. Nella Parigi liberata fa piccole parti in spettacoli di altri. Poi inizia a rappresentare le sue pantomime, perfeziona spettacoli complessi, con solisti e coro, arrivando a mettere in scena Il cappotto di Gogol. Finalmente inventa il suo personaggio, Bip, incrocio tra Arlequin, Pierrot, Charlot, il Pip di Grandi speranze di Dickens, Buster Keaton. Osserva le persone, per strada, nella metropolitana. E cerca un proprio metodo, che parte dall’imitazione per arrivare a quella che chiama “poesia” attraverso un procedimento di riferimento alla realtà, sua essenzializzazione e astrazione senza distaccarsene troppo, conservando alle azioni un carattere imitativo irrorato di un “alone poetico”. E abbandona il rigore corporeo estremo, astratto, di Decroux.

“L’ Arte del mimo è l’Arte dell’identificazione dell’essere con gli elementi che ci circondano” scriverà. “Al mimo oggettivo, caratterizzato dai ‘movimenti meccanici puri che nascono dagli oggetti’, Marceau preferisce il mimo soggettivo, i cui movimenti ‘si riferiscono ai caratteri e alle passioni dell’essere umano e che […] risultano parimenti dall’identificazione di sé stessi con tutti gli elementi”, scrive Marco De Marinis in Mimo e mimi, un viaggio nell’arte degli inventori di questo vero e proprio genere teatrale novecentesco (Firenze, La casa Usher, 1980). Marceau all’astrazione di Decroux preferirà l’identificazione in un eroe, in un uomo che soffre e gioisce, Bip appunto, un po’ barbone aereo, un po’ fanciullo, un po’ incantato sognatore.

I critici lo accuseranno di aver svenduto quasi completamente i principi del mimo corporeo e di aver recuperato, sottotraccia, i principi imitativi della vecchia pantomima arlecchinesca con gag, tic, smorfie, in una imitazione realistica e illusionistica (ancora De Marinis), in uno stile che a guardarlo oggi appare fortemente manieristico. Ma forse proprio questi elementi ne decreteranno il successo mondiale, il gradimento presso ampie platee, il riscontro televisivo. 

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Una scena del Cappotto. 

L’autobiografia non arriva a questo punto, anche se in appendice troviamo una Cronologia biografica, accompagnata da immagini degli anni successivi a quelli narrati. Si chiude con la messa in scena del Cappotto, nel 1952. Sostanzialmente ci mostra le ispirazioni di uno dei protagonisti della scena del Novecento, penetrando nelle sue vicende personali più intime, legate alle grandi tragedie dell’epoca. Narra la voglia di cercare bellezza, in certi momenti magari una bellezza facile, messa in movimento però dal desiderio di uscire dalle macerie e di guardare con uno spirito diverso all’essere umano.

Marcel Marceau, La mia vita dal 1923 al 1952, prefazione e cronologia biografica di Camille e Aurélia Marceau, Carocci, pp. 244, euro 24.

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