Marco Missiroli. Il senso dell’elefante
La scrittura di Marco Missiroli è elegante, equilibrata e raffinata. Ho letto Il senso dell’elefante (Guanda, 2011) in una notte: si tratta di un libro che trattiene e che coinvolge, non tanto per la favola amara che si ricostruisce via via che la narrazione procede, o per il desiderio di stringere i fili in un unico nodo, quanto per l’atmosfera; conquistata dal desiderio di rimanere tra quegli odori.
Certo, sin da principio il lettore intuisce di avere qualcosa da scoprire: dei tasselli vanno messi a posto e l’indugiare dell’autore nella descrizione di alcuni particolari è teso a indirizzare la nostra attenzione, tradendo intenzionalmente l’esistenza di un mistero. Abbiamo bisogno dei dettagli, e li conquistiamo pagina dopo pagina, mescolando il dipanarsi della vicenda presente e le memorie del passato.
Ma in fondo della suspence faremmo anche a meno, e non è un caso se l’autore ci lascia intuire molte cose prima che siano esplicitate.
È la nostalgia a sedurci, il fuori tempo, l’altrove di questa favola che tuttavia ci riguarda. Rimini e il mare quando al mare non si va, perché fa freddo. E una Milano in fondo non riconoscibile, nonostante il cielo acciaio e mai azzurro sopra il Duomo e nonostante la foschia che a tratti copre ogni cosa. Una Milano che ha lo stesso sapore del mare d'inverno: ci vengono dati alcuni dettagli, dei palazzi, elementi per individuare delle zone, eppure rimane il sapore di un fuori stagione, di una distanza. E se un poco dispiace, perché vorresti proprio sentire l’autore descrivere le cose che tu conosci e gli spazi in cui ti muovi, per quel modo che ha di mettere insieme le parole e descrivere senza darlo a vedere, di offrire particolari senza enumerare i dettagli, insieme accetti di entrare in questo altrove e comprendi che non potrebbe essere altrimenti. Non funzionerebbe.
Ci sono dei passaggi in cui questa nostalgia ha un sapore un po’ artefatto, dei dettagli eccessivi o comunque troppo codificati perché la loro bellezza riesca ancora potente: i fili stesi sul tetto del condominio di Milano, la lettera che Pietro custodisce scritta su carta di riso, e in fondo anche la Bianchi smontata e pitturata di rosso che porta con sé da Rimini a Milano, o i fianchi per due volte larghi del bellissimo personaggio di Anita. Ma a questi particolari se ne aggiungono mille altri più intimi e personali: ti è lasciato di osservarli, interrogarli, chiedendoti per esempio chissà come mai abbia scelto proprio gli odiosi macaron tra la camicia rossa e i guanti a pois. E a vincere, comunque, è la delicatezza.
Un ex prete, Pietro, lascia Rimini per approdare a Milano, nuovo portinaio di un condominio. Comprendiamo subito che non è lì per caso, e comprendiamo presto che Pietro è prima di tutto e sopratutto padre: insegna ai bambini a giocare con le proprie dita e proiettare sul muro le ombre di animali, pappagalli con o senza cresta e elefanti dalle grandi orecchie e dalla lunga proboscide. Pietro è Padre ai nostri occhi prima ancora di scoprire che è effettivamente padre biologico di Luca, il pediatra Martini che vive con la moglie e la bambina piccola in uno degli appartamenti del condominio, e che porta addosso non solo la sofferenza di ogni bambino cui offre le sue cure, ma anche delle vite che, in segreto, accompagna alla morte con un’ultima disperata iniezione letale.
Nel condominio oltre ai coniugi Martini, una donna sola con un figlio strambo; un avvocato omosessuale vedovo, proprietario e amministratore del condominio; e altre presenze: Riccardo, all’apparenza amico fraterno dei coniugi Martini ma, come scopriremo, amante della moglie e vero padre della bimba e, nei ricordi, Daniele, il compagno dell’avvocato, e Celeste, la madre di Luca morta poco prima l’arrivo a Milano di Pietro.
Non ci sono buoni e cattivi e nemmeno l’indistinzione tra di essi che annoia e infastidisce quanto e più di ogni grossolano manicheismo. Ci sono delle storie tristi tenute insieme da un senso profondo di solidarietà intima e vera tra esseri umani, ci sono dei corpi fragili, un senso di appartenenza, la potenza profonda e insidiosa, e forse perversa, dei legami. E se si può rimproverare al giovane autore di aver concentrato troppe situazioni eccessive per una storia soltanto, di aver fatto di quel condominio un crogiolo di patologie umane, insieme si constata che il modo in cui poi si muove tra di esse, e il senso dei personaggi e delle loro relazioni, non è orientato a porre la marginalità al centro né la pietà come protagonista, e soltanto in pochi tratti i toni stonano e sfiorano il melodramma.
Mentre potrebbero: perché il dramma cresce a ogni pagina e a ogni scoperta, cresce con la morte di Lorenzo, piccolo bambino in cura da Luca, o quando conosciamo la disperazione di un padre che chiede la dolce morte per sé e per il proprio figlio tenuto in vita artificialmente; il dramma cresce man mano che la cura e l’amore paterno, questo è il senso dell’elefante, devozione sacra, scavalcano i confini del lecito senza che sia l’autore a dirlo, a permettersi di pensarlo o di pensare il contrario. Non è solo che non giudica, di più: non si sforza di comprendere né di usare la potenza del sentimento per convincere della bontà o meno di alcune situazioni. Semplicemente le consegna, lasciandoci alle nostre incertezze senza offrirci la facile consolazione del giudizio o del dolore.