Marvel, i mostri delle meraviglie
Voce fuori campo: C’erano una volta eroi buoni che mettevano i loro poteri al servizio dell’umanità. Con il tempo la loro immagine è sbiadita per adattarsi a un mondo fattosi improvvisamente complicato. Un mondo dove gli scontri fra le forze del bene e del male non erano più così chiari e nobili, ma diventavano massacri senza regole. Un mondo obbligato a convivere con il degrado della biosfera, con oscurantistici regimi teocratici, scontri di civiltà, società senza ideali, terroristi squilibrati, politici corrotti, economia senza regole, il ritorno di carestie medievali, sociopatici che pontificano nei talk show. È stato così che i supereroi in calzamaglia hanno subito una drastica metamorfosi.
Prima fu Nembo Kid
Non esiste un punto d’inizio preciso per la nostra storia. Esiste un prologo che aveva preso forma nel 1933 durante la Grande Depressione. L’idealismo liberale del New Deal di Franklin D. Roosevelt aveva le sembianze di Superman, l’Uomo d’Acciaio, il primo, l’unico, l’inimitabile, l’eroe buono che metteva i suoi poteri al servizio dell’umanità, campione degli oppressi e degli indifesi, personaggio creato da due adolescenti di Cleveland, Jerry Siegel e Joseph Shuster, che sognavano di arricchirsi inventando una serie di strisce d’avventura per i giornali.
«Superman era una mistura di idee provenienti dal brodo della paccottiglia culturale degli anni trenta», annota David Hajdu nel suo Maledetti fumetti (Tenué, 2010), testo imprescindibile per capire come i “giornaletti” hanno influenzato i cambiamenti nella società americana. Il personaggio (che in Italia si conosceva come Nembo Kid) apparso in copertina del primo numero di Action Comics, pubblicato nel giugno del 1938, era un mix del Tarzan di Edgar Rice Burroughs, protettore delle creature inferiori, di Zorro (eroe dall’identità segreta) e dell’Uomo Mascherato (combattente del crimine in costume).
Superman, con indosso una calzamaglia rosso-blu probabilmente ispirata dai costumi degli uomini forzuti che all’epoca si esibivano nei circhi, usava i suoi poteri per correggere gli errori del mondo ribaltando i canoni dell’avventura classica: invece di essere un terrestre che viaggiava verso pianeti extragalattici (come facevano Flash Gordon o Buck Rogers), abitava un mondo lontano (Krypton) e veniva inopinatamente scaraventato – da un padre saggio e potente che viveva nell’alto dei cieli – sulla Terra dove si sarebbe sacrificato per il bene dell’umanità e sarebbe stato santificato per le imprese miracolose compiute (non è che la similitudine suona familiare anche a chi non ha studiato catechismo?).
Con il passare del tempo, però, Superman perderà l’appeal delle origini e diventerà un personaggio sempre più irrazionale e, per quanto possibile, antiscientifico, e i suoi poteri verranno esagerati per fronteggiare l’agguerrita competizione di una valanga di supereroi concorrenti che invaderanno, di lì a poco, il mercato del fumetto. Questi ultimi si distingueranno per una serie di particolarità “biologiche”: quasi tutti avrebbero ottenuto i superpoteri in modo “scientifico”: vuoi in un incidente di laboratorio, vuoi con una pillola, o a causa di una contaminazione radioattiva, per il morso di un ragno, persino con la necessità di fare i conti con i lati oscuri della propria personaltà, o mutazioni mistiche e soprannaturali. Per parafrasare Antonio Gramsci, il vecchio mondo stava morendo. Quello nuovo si stava affacciando. E in quell’intervallo chiaroscuro nascevano i mostri. E che mostri.
Un labirinto di specchi
Dapprima furono i Fantastici Quattro (1961), poi l’Incredibile Hulk (1962), a seguire l’Uomo Ragno (1962). Capostipiti di una nuova generazione di eroi nati dalla matita dell’infaticabile Jack “The King” Kirby, e dalla fantasia scatenata di Stan Lee, il leggendario presidente, direttore editoriale, sceneggiatore, deus ex machina della Marvel, casa editrice che aveva cambiato più volte nome (quella che, nel 1941, aveva pubblicato Captain America, super soldato patriottico che combatteva il nazi-fascismo, e che prima era stata Timely Publications, poi Atlas Comics). Eroi che, in piena era neo-atomica, calati in un mondo attraversato dall’equilibrio del terrore (si era all’alba degli anni sessanta, in piena Guerra Fredda), esprimono le preoccupazioni, le ansie della gente comune dell’epoca. Non dimentichiamo che, un mese prima dell’uscita dei Fantastic Four, l’Unione Sovietica aveva fatto esplodere la “Bomba Zar”, un ordigno all’idrogeno tremila volte più potente dell’atomica sganciata su Hiroshima, e c’era poco da stare tranquilli.
«La grande epica della Marvel è un labirinto di specchi in cui si riflettono gli ultimi sessant’anni di storia americana, dal terrore atomico della Guerra Fredda alla tecnocrazia e al pluralismo dei giorni nostri: una narrazione turbolenta, tragicomica e splendidamente intricata che parla di potere e di etica, ambientata in un mondo trasformato da eventi straordinari», scrive Douglas Wolk, giornalista, critico musicale, insegnante di scrittura creativa alla Portland State University, che ha dedicato un corposo quanto circostanziato, minuzioso, puntuale e sorprendente saggio (Eroi, mutanti, mostri & meraviglie, traduzione di Alfredo Goffredi, UTET, 2023) indispensabile per cercare di capire chi, cosa, come, perché e dove va a parare tutto quel labirinto di storie che è l’Universo Marvel, un sistema complesso di super-freaks cresciuto a dismisura da quel 1961 a oggi e che conta un apparato storico di ben 27mila album, ovvero circa 540mila pagine che Wolk-il-coraggioso si è letto tutte. Così giurano lui e lo strillo di copertina del libro che, comunque, basta sfogliare per capire e apprezzare il lavoro certosino, o benedettino se si preferisce, che c’è dietro. Pagine che Wolk, non pago, ha riletto al figlio (lo racconta nel capitolo 21: “Passare il testimone”); pagine che ha commentato in un blog creato ad hoc per chiosarle con una selva di aficionados. Se non fosse un uomo in carne ed ossa, Wolk farebbe la sua bella figura accanto allo Sheldon Cooper della sit-com di culto The Big Bang Theory.
«Nemmeno coloro che hanno scritto le storie hanno letto tutta la saga», informa Wolk «ma va bene così: non è stata concepita per essere letta tutta. Non è così che va vissuta. E invece è proprio quello che ho fatto io. Ho letto tutte le oltre 540mila pagine pubblicate fino a oggi che compongono quell’universo, da Alpha Flight a Omega the Unknown. Raccomanderei a qualcun altro di fare lo stesso? Dio mio, assolutamente no. Sono contento di averlo fatto? Certo che sì».
E aggiunge: «Senza esagerare più di tanto, potremmo dire che, per chi vive nella società di oggi, avere una qualche familiarità con l’immaginario Marvel può essere utile tanto quanto, per chi vive in una società giudaico-cristiana, conoscere almeno a grandi linee le storie narrate nella Bibbia: la sua iconografia e la sua influenza, infatti, sono onnipresenti». I paralleli biblico-evangelici, nei fumetti dei supereroi, sembrano andare per la maggiore.
Un’epoca di atomic-qualche-cosa
L’avvenimento che cambiò il corso dell’evoluzione (anche se sarebbe più esatto dire della filogenesi) del mondo dei fumetti – e, di concerto, della storia dell’umanità – accadde la mattina del 16 luglio 1945, qualche secondo prima delle 5:30, MWT (Mountain War Time). Quattrocentoventicinque convenuti – tra cui gli scienziati Robert Oppenheimer, Enrico Fermi, Richard Feynman, Edward Teller, John von Neumann – si erano riuniti nel deserto che circonda il poligono missilistico di White Sands, nel Nuovo Messico, poco a nord del confine di El Paso, per assistere al Trinity Test, nome in codice che lo stesso Robert Oppenheimer, direttore scientifico del Progetto Manhattan, aveva dato all’operazione che avrebbe portato all’esplosione di Gadget, la prima bomba atomica.
I risultati diretti del botto furono quelli di produrre un cratere di oltre settecento metri di diametro, profondo 4 metri e mezzo, e di far scomparire, nel vapore del fungo che si era alzato nel deserto, la torre alta 30 metri che faceva parte della struttura in cemento armato che sosteneva la bomba. Gli effetti indiretti, sappiamo, furono ben più numerosi e devastanti di quel crollo. Soprattutto, da quel momento, l’incubo dell’olocausto nucleare – che fosse a marchio stelle e strisce o, in seguito, falce e martello, faceva poca differenza – prenderà strade diverse: militari, geopolitiche, sanitarie. Da non sottovalutare quelle socio-cultural-pop.
Un modo, infatti, per esorcizzarne i fantasmi e riuscire a conviverci fu quello di trasformare lo spettro dell’arma nucleare in un archetipo pop, in una metafora commerciale a cui i prodotti che volevano apparire giovanili, moderni, all’avanguardia, potevano rifarsi. E così ecco caramelle “Atomic Fire Ball”, carte da parati a disegni di energia fissile, cucine con forni “atomici”, passando per innocui oggetti di cancelleria, tempera-matite, gomme, pennarelli che saranno battezzati “atomic-qualche-cosa”.
Ai bambini curiosi, a partire dal Natale del 1950, i genitori potevano addirittura regalare il “Laboratorio di Energia Atomica Gilbert U-238”, comprendente, fra le altre cose, una “camera a nebbia” per rilevare la presenza di particelle cariche di radiazioni, un contatore Geiger-Mueller alimentato a batteria e, da non credere, quattro barattoli di vetro contenenti campioni di uranio radioattivo U-238, il tutto accompagnato da una “rassicurante” dichiarazione secondo cui: “Tutti i materiali radioattivi inclusi sono stati certificati come completamente sicuri dagli Oak-Ridge Laboratories, della Atomic Energy Commission”.
Le istruzioni erano affidate a un libretto a fumetti (Learn How Dagwood Split the Atom) con la coppia dei personaggi Blondie e Dagoberto, esempio di tradizionale famiglia americana, che partecipavano a una conferenza tenuta dal mago Mandrake su come sono fatti gli atomi, come si separano e cosa li fa esplodere. La coppia era magicamente ridotta a dimensioni sub-atomiche per poter osservare da vicino il comportamento dei vari componenti: neutroni, protoni ed elettroni. Il fumetto vantava nientemeno che una introduzione del generale Leslie Groves, responsabile militare, all’epoca in pensione, del Progetto Manhattan, quello che aveva messo a punto le bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki, e del fisico nucleare John R. Dunning. Praticamente un’associazione a pop-delinquere.
Di lì a poco l’atomica avrebbe dunque colonizzato l’immaginario collettivo dell’America: dal cinema all’editoria, dai fumetti (in particolar modo, come abbiamo visto, quelli pubblicati a partire dal decennio successivo dalla Marvel) al merchandising, alla musica: ecco dunque Slim Gaillard e il suo quartetto cantare di un Atomic Cocktail che, anticipando gli effetti collaterali delle radiazioni sui supereroi, avverte che basta berne un goccio per diventare minuscoli come scarafaggi o smisurati come una balena (“when you take one sip you won’t need anymore / You’re small as a beetle or big as a whale”): motivetto inciso con dubbio tempismo alla fine del 1945, poche settimane dopo i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki. E mentre Al Rex, in Hydrogen Bomb, ammoniva che quando sarebbe arrivato il giorno del giudizio “we’ll all be rocked away”, saremo tutti spazzati via, Bob Dylan se la prendeva con i Masters of War: “voi che costruite tutte le armi, tutte le bombe, tu che giochi con il mio mondo come se fosse il tuo piccolo giocattolo”. Ma il più cupo di tutti era il cantautore Barry McGuire che, in un pezzo folk-rock dal titolo Eve Of Destruction, avvertiva: “Amico mio / Siamo alla vigilia della distruzione / Non riesci a sentire le paure che provo oggi? / Se il pulsante viene premuto, non c’è modo di fuggire / Non ci sarà nessuno da salvare con il mondo in una tomba”. La risposta di molte stazioni radio fu di disinnescarlo, tappargli la bocca e censurarlo.
Intanto, a fargli eco, sul grande schermo, il regista Stanley Kubrick si farà gioco della paranoia distruttrice dell’atomica firmando uno dei capolavori del cinema del novecento: Il dottor Stranamore, ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba.
John Wayne e le comunità sottovento
A dire la verità c’era chi, la bomba, l’amava così tanto che le esplosioni divennero vere e proprie attrazioni turistiche. Per diversi anni, infatti, durante i test condotti dall’esercito, a partire dal 27 gennaio 1951, nei poligoni del deserto del Nevada, le nubi a fungo potevano essere ammirate dagli hotel del centro di Las Vegas, e essere chiaramente visibili fino a Los Angeles, dove apparivano simili a grandi bagliori nel cielo del mattino, come documentano una serie di immagini scattate dal fotografo Perry Folwer dal tetto dell’ormai defunto L.A. Herald Express, che riprendono anche il reporter Jack Smith mentre indica in direzione della detonazione.
Ancora più agghiaccianti sono le immagini che mostrano le truppe acquartierate a neanche dieci chilometri dallo scoppio “per vedere l’effetto che fa”. Praticamente cavie umane utilizzate in devastanti giochi di guerra. E se i primi test venivano condotti alla chetichella, le fasi dell’operazione Tumbler-Snapper furono trasmesse in diretta, alle 5:30 del mattino del 22 aprile 1952, dalla storica stazione televisiva di Los Angeles KTLA, con tanto di commentatori felicemente presenti nei pressi dell’esplosione.
Nel frattempo, gli effetti del fall-out di quelle esplosioni, della pioggia radioattiva di cui nessuno parlava, mietevano decine di migliaia di vittime militari e civili, senza distinzione di status. Tra i caduti eccellenti ci fu John Wayne, l’attore simbolo della virilità ultra conservatrice americana, e tutto il cast del film Il conquistatore, compresa la co-protagonista Susan Hayward e il regista Dick Powell. Non solo, alla tragedia si aggiunse la beffa: la pellicola in cui Wayne interpretava un improbabile Gengis Khan, finirà per essere inserita nella lista dei 50 peggiori film di sempre. A John Wayne, poi, dissero che erano state le sigarette a farlo ammalare di tumore.
Il fatto era che le scene di esterni erano state, colpevolmente, girate nei dintorni di St. George, nello Utah, una delle città che finiva per essere regolarmente irradiata durante quei numerosi test nucleari. La storia di come militari e civili ignari vennero usati come cavie umane è raccontata in numerosi saggi. Uno dei rari testi reperibili in italiano, in solo formato e-pub, è Cavie umane (titolo originale: Killing Our Own: The Disaster of America’s Experience with Atomic Radiation, di Harvey Wasserman e Norman Salomon). Già, perché quando il vento spirava dal poligono verso Las Vegas e Los Angeles, l’esercito rimandava gli esperimenti in attesa che le correnti girassero e portassero le polveri radioattive verso est, verso lo Utah, in zone scarsamente abitate, verso quelle comunità che venivano chiamate “sottovento” (downwinder communities), insediamenti ritenuti “marginali”.
Meraviglie neo-barocche
A fare la fortuna della Marvel, sarà dunque proprio l’atomica con tutto il suo fall-out di mutazioni genetiche e cromosomiche che avevano investito, in un modo o in un altro, i vari personaggi. Bruce Banner diventerà, per un’accidentale esposizione ai raggi gamma, L’incredibile Hulk, un umanoide incazzoso dalla pelle verde, un mostro part-time, un Frankenstein con il carattere ballerino del duo Jeckyll e Mr. Hyde. Peter Parker si trasforma invece nell’Uomo Ragno a seguito di un morso da un aracnide radioattivo. E i Fantastici Quattro acquisiscono i loro superpoteri a causa di un incidente durante un volo spaziale su un razzo sperimentale colpito da una tempesta di raggi cosmici che modificano il DNA dei quattro passeggeri, conferendo loro poteri sovrumani: Reed Richards (Mister Fantastic, fondatore e capo del gruppo) si ritrova in grado di allungarsi e deformare il proprio corpo; Susan Storm (Invisible Woman) diventa invisibile; Johnny Storm (Torcia Umana) acquisisce la capacità di auto-incendiarsi; mentre Ben Grimm (La Cosa) viene trasformato in un mostro di pietra dalla forza sovrumana. Quello che è certo è che tutti costoro ispirano empatia, e il pubblico è generalmente portato a identificarsi con le loro motivazioni principali.
A differenza di Superman e Batman, questi eroi diventano “super” nel momento in cui si incarnano in mostri – meraviglie neo-barocche come il Minotauro o la Sfinge, le avrebbe definite il semiologo Omar Calabrese che, in L’età neobarocca (Casa Usher, 2022), scrive: «Già questa constatazione sarebbe sufficiente a far riflettere su un superficiale rapporto fra mondi fantastici e il Barocco, e con altre epoche “simili” produttrici di mostri: tarda latinità, basso medioevo, Romanticismo, Espressionismo. Tutti periodi nei quali il mostro serve a raffigurare non tanto il soprannaturale o il fantastico, quanto soprattutto il “meraviglioso”, che dipende dalla rarità e casualità della sua genesi in natura e dalla nascosta e misteriosa teleologia della sua forma».
Entità sinistre in agguato
E poi, altra discordanza con i “classici”, alla Marvel non si combatte il crimine. Dice Wolk: «A volte accade per Spider Man e qualche altro personaggio, ma quell’attività non si è mai adattata ai Fantastic Four, e sono passati decenni dall’ultima volta che abbiamo visto Pantera Nera, Doctor Strange o gli X-Men impegnati a rincorrere criminali al posto delle vere forze dell’ordine, a parte qualche episodio estemporaneo qua e là».
Ma, allora, contro chi lottano questi eroi Marvel? «Come sempre, i loro avversari incarnano quello che la cultura americana teme di più: entità sinistre in agguato dall’altra parte della “Cortina di Ferro” (c’è sempre una curiosa riluttanza a chiamare Russia e Cina col loro nome) o i loro agenti (come la Vedova Nera, che nasce come spia sovietica, e il suo fedele complice Occhio di Falco). Spider Man si scontra con inventori e scienziati; Doctor Strange lotta contro forze mistiche. Il Dottor Destino, che finirà col combattere contro tutti loro visto che sfrutta ogni tipo di potere su cui riesce a mettere le mani, è praticamente tutte quelle cose messe insieme. Nella prima tavola in cui il personaggio compare lo vediamo intento a muovere su una scacchiera pezzi che hanno forme umane, con accanto libri dai titoli suggestivi come Demoni e Scienza e Stregoneria».
E quali eroi-super ci riserverà il domani? «La storia della Marvel va avanti senza sosta, e si arricchisce di quasi ventimila pagine all’anno, ripetendosi ed espandendosi», rassicura Wolk. E ci sembra percepire un sospiro di sollievo in questa sua affermazione: il suo futuro di über-lettore è salvo.