Intolleranza e potere / Le razze non esistono

12 Marzo 2018

Lo sviluppo della scienza costituisce una continua smentita delle percezioni immediate. Le apparenze di superficie, si tratti del moto del Sole rispetto alla Terra o del colore della pelle come tratto distintivo degli umani, si consolidano in pre-giudizi resi forti dalla loro comoda semplicità. Le ombre che appaiono sul fondo della caverna platonica offrono un falso sapere più rassicurante della verità, come ben sapeva Galileo in lotta contro i sostenitori dell’universo tolemaico. Il che spiega perché il concetto di “razze umane”, dato per morto da tempo dalla cultura scientifica, non smetta di resuscitare e far sentire con prepotenza la sua voce. Le dottrine razziste intendono per razza umana un gruppo fisso, geneticamente distinto e omogeneo, nel quale tratti fisici, attitudini intellettuali e disposizioni morali si trasmettono per via ereditaria. Il razzismo scatta quando si ritiene che gli atteggiamenti di un gruppo umano siano determinati da specifiche caratteristiche biologiche, per cui mentalità e carattere non sarebbero modificabili dall’educazione. Uno dei massimi studiosi dell’evoluzionismo, Stephen J. Gould, ha ricordato in Intelligenza e pregiudizio (Il Saggiatore, 1998) che il concetto di razza appartiene all’epoca moderna, benché anche negli antichi si possa rintracciare una sorta di proto-razzismo. Nell’ottica “imperialistica” di Greci e Romani, le popolazioni nemiche venivano differenziate sulla base di un complesso di caratteristiche, fisiche e comportamentali, dal coraggio in guerra alle attitudini intellettuali. Mancando però il riferimento alla razza come concetto biologico, non era il colore della pelle a essere discriminante, ad esempio per la riduzione in schiavitù; nell’impero romano, il libico Settimio Severo poteva diventare imperatore, il berbero Agostino assumere ruoli importanti nella Milano di sant’Ambrogio. 

  

L’invenzione delle razze umane si produce al tempo dell’espansione coloniale, quando serve un presunto sapere per legittimare un effettivo potere. In genere, se ne indica il momento di fondazione nella tassonomia proposta nel 1584 dal medico e viaggiatore François Bernier; l’umanità è suddivisa in quattro razze che poi Linneo nel 1735 classifica come sottospecie, utilizzando come criterio distintivo il colore della pelle (bianchi, rossi, gialli e neri). Come teoria con pretese di scientificità il razzismo si può far risalire, ha sostenuto Tzvetan Todorov, all’Histoire naturelle de l’homme (1749) del naturalista Buffon, dove le varietà della specie umana vengono classificate in base al colore della pelle, alla forma del corpo (ricorrendo anche alla misurazione dei crani) ed ai costumi. Nel suo ingenuo etnocentrismo, Buffon sostiene che l’uomo primitivo era bianco e che ogni mutamento di colore costituisce una degenerazione del ceppo originale risalente ad Adamo ed Eva, rappresentanti dell’originaria perfezione estetica ed etica dell’umanità. I neri risultano così esseri inferiori, prossimi alla condizione animale, convinzione condivisa con Voltaire, sostenitore però del poligenismo, secondo cui le diverse razze hanno avuto origini separate. La contesa tra i due partiti venne risolta da Charles Darwin: tutti gli umani appartengono alla stessa specie e condividono un’origine comune, la loro culla è da situare in Africa.

  

Già dagli anni Trenta del Novecento, l’idea che l’umanità potesse suddividersi in razze aveva perso valore nella comunità scientifica. Il biologo Julian Huxley e l’antropologo Alfred Haddon, nel saggio Noi, Europei. Un’indagine sul problema razziale (Einaudi, 2002), proposero, per lottare contro gli usi politici delle classificazioni razziali da parte dei nazisti, di sostituire l’espressione “gruppo etnico” alla parola “razza”. Su questa strada si pose un antropologo militante, Ashley Montagu, che fu il principale redattore della “Dichiarazione di esperti sulle questioni di razza” del luglio 1950, voluta dall’Unesco. La Dichiarazione, stesa prima che si potesse disporre di una adeguata conoscenza del nostro genoma, mostra ancora incertezze nella comprensione del problema. L’articolo 2 sostiene che “dal punto di vista biologico, la specie Homo sapiens è composta da un certo numero di gruppi, che differiscono gli uni dagli altri per la frequenza di uno o più geni particolari”. E l’articolo 4 propone una definizione naturalistica della “razza” che, se ha il pregio di abbandonare la visione essenzialista a vantaggio di una visione statistica in termini di popolazioni, non ne nega di fatto l’esistenza. “In breve, il termine ‘razza’ indica un gruppo o una popolazione caratterizzata da certe concentrazioni, relative a frequenza e distribuzione, di geni o caratteri fisici che appaiono, variano e spesso scompaiono nel corso del tempo per influsso di fattori d’isolamento geografici o culturali”. Su questa base risultano poi quasi contraddittorie le affermazioni per cui la “razza” (da sostituire con l’espressione “gruppo etnico”), più che un fenomeno biologico, sarebbe un “mito sociale”. Ancora nel 1997 Montagu ribadiva che la stessa parola “razza” è un termine razzista e che sopprimere il termine dal vocabolario corrente costituisce il primo passo della lotta contro il razzismo. 

   

Grazie agli studi della genetica, che confermano le acquisizioni dell’antropologia, abbiamo ottime ragioni per affermare che la razza è una costruzione sociale, priva di fondamenti biologici. Il termine conserva in sé i lasciti di una storia criminale, supportata da una scienza deviata e asservita ad una logica di potere; resta una nozione arbitraria, priva di fecondità nel designare l’incredibile diversità che si manifesta non solo fra le popolazioni ma all’interno di ognuna di esse. Le ricerche promosse da biologi evoluzionisti, primo tra tutti l’americano Richard Lewontin negli anni Settanta, sulla presenza di alcune proteine fra popolazioni situate in diversi continenti, portarono alla conclusione che le differenze geniche fra le “razze” risultano nettamente inferiori alla variabilità genica interna ad ognuna di esse. Le ricerche vennero proseguite negli anni ‘80 quando lo sviluppo della genetica delle popolazioni rese possibile esaminare direttamente i geni e non le proteine. L’équipe coordinata da Luigi Cavalli-Sforza, analizzando la variabilità di 109 tratti del genoma in sedici popolazioni di cinque continenti, confermò i risultati di Lewontin. La variazione genetica fra gli esseri umani tende a ripartirsi in modo continuo, il che rende impossibile suddivisioni nette fra i gruppi etnici; la variazione del DNA fra individui qualsiasi presi a caso sul nostro pianeta corrisponde all’0,1% del patrimonio genetico. I singoli geni sono sempre presenti in quasi tutte le popolazioni umane, anche se con frequenza diversa: in pratica, nessun gene può essere utilizzato per distinguere una popolazione umana dall’altra. Nella nostra specie esistono gradienti di variabilità genetica, e non blocchi discreti, per la semplice ragione che ogni popolazione, dall’epoca in cui ha avuto inizio la diaspora dalla comune patria africana circa 100.000 anni orsono, ha alle spalle una storia fatta di incroci e migrazioni che hanno rimescolato il patrimonio ereditario. Le caratteristiche fisiche predominanti di certe popolazioni sono state selezionate dalle condizioni ambientali e in qualche caso dall’isolamento geografico. Insomma, siamo tutti bastardi, non esistono razze pure, ed è il meticciato ad aver consentito la ricchezza e la diversità delle culture. 

  

Se la razza in quanto entità biologica è una finzione, il razzismo in quanto problema sociale è invece una realtà. La Dichiarazione sulla razza del 1950 espone nell’ultimo paragrafo la fiducia nella scomparsa del razzismo in virtù della conquista della verità grazie alla scienza: “Le ricerche biologiche finiscono per comprovare l’etica della fraternità universale; l’uomo è infatti, per innata tendenza, portato alla cooperazione e, se questo istinto non trova modo di soddisfarsi, individui e nazioni ne soffrono ugualmente”. Ma la buona novella, la promessa consolante, della definitiva scomparsa dei conflitti razziali si fonda sull’assunto discutibile, ha rilevato Taguieff, che di per sé lo sviluppo della conoscenza garantisca il progresso etico e civile. Ma la sconfitta del razzismo sul terreno epistemologico non può che essere un momento, necessario ma non sufficiente, per debellarlo nei comportamenti. Squalificare scientificamente la categoria di “razza umana” priva il razzismo di qualunque legittimità, lo riduce a un mito, a un’ideologia ingannevole, ma non ne riduce la forza; perché ad avere un fondamento biologico non è tanto la classificazione della nostra specie in razze – il cui valore è pari a quello di chi volesse suddividere gli umani in base alla scritta che portano sulla felpa (forse questo sarebbe un criterio più sensato?) –, ma la stessa intolleranza razziale. E per sconfiggerla non basta rettificare le parole, come vuole il primo precetto dell’insegnamento confuciano, occorre una comprensione di ordine sociologico e psicologico (psicanalitico e psichiatrico), come pure una prospettiva politica che punti sull’educazione intellettuale e morale, sulla prevenzione e l’integrazione. Se no, quando sarà abolito il termine “razza”, dovremo inventare quello di “etnismo” per condannare il disprezzo verso gruppi etnici ritenuti inferiori. 

  

Nel 1952, il massimo antropologo culturale del Novecento, Claude Lévi-Strauss, accolse l’invito che l’Unesco aveva rivolto a studiosi di scienze naturali e umane al fine di contribuire al progetto di combattere la diffusione del razzismo. Redasse un ‘libretto’ (dirà l’autore stesso) dal titolo Razza e Storia, in cui ad essere affrontato non era tanto il problema della razza, nozione controversa e difficilmente definibile, quanto quello del rapporto fra culture: la grande separazione fra Noi e gli Altri, che ci induce ingenuamente a considerarci il vertice della Civiltà, non faceva che riprodurre, ricordava Lévi-Strauss, l’atteggiamento di istintiva diffidenza e di paura della diversità che già testimoniano i popoli “primitivi”. Nel momento dell’incontro con l’Altro, gli Europei non sono sfuggiti al gesto di esclusione che si incarna nel designare i popoli non appartenenti alla propria civiltà come barbari (balbuzienti) o selvaggi; l’irrazionalità e la mancanza di senso che avvertivano di fronte a credenze e pratiche di vita ‘primitive’ induce a giudicarli appartenenti ancora alla natura, prossimi alla condizione animale. Ora, l’esclusione degli altri dalla comunità degli umani obbedisce a un “istinto” difensivo testimoniato proprio da coloro che diciamo selvaggi; anch’essi si definiscono i veri e unici uomini e usano per le popolazioni limitrofe termini come “uova di pidocchio” o “scimmie di terra”. Contestando dunque l’umanità dei selvaggi non facciamo altro che assumere il loro stesso atteggiamento: “il barbaro è anzitutto l’uomo che crede nella barbarie”, degli altri ovviamente.

  

Evidenziando la lezione anti-razzista dell’etnologia, Lévi-Strauss ricordava che non esistono popoli senza cultura e contestava l’idea, cara all’etnocentrismo dell’Occidente, che le altre civiltà dovessero necessariamente seguire il cammino che ha segnato il “progresso” dell’Europa. Ogni cultura si caratterizza per una diversa gerarchia con cui valuta le attività: la civiltà occidentale ha portato al suo culmine la volontà di dominio e sfruttamento delle forze naturali, ha esaltato la potenza meccanica e questo è diventato il criterio privilegiato con cui indicare le tappe del percorso evolutivo. Altre società, quelle che poi Lévi-Strauss definirà ‘fredde’, hanno privilegiato valori che noi abbiamo finito per abbandonare: ad esempio l’integrazione dell’individuo nella comunità, la conservazione di un rapporto armonioso con la natura o il mantenimento di una struttura sociale egualitaria e di un sistema politico partecipativo e “democratico”. Contro l’universalismo soddisfatto di sé che vede nell’espandersi planetario della cultura dell’Occidente l’unico rimedio per guarire i mali dei popoli arretrati, il “relativismo ben temperato” di Lévi-Strauss ricordava la lezione dell’etnologia, “scienza delle differenze”: se in determinati momenti alcune culture “si muovono” rispetto ad altre, questo non dipende da una superiorità intrinseca ma dalla fecondità che si sprigiona dalla collaborazione fra culture differenti, vero “patrimonio comune” dell’umanità. Le culture isolate non possono sperare di creare da sole le condizioni per una storia cumulativa, solo giocando in coalizione su più tavoli si possono accrescere i vantaggi; occorre che culture diverse combinino le loro puntate “al gran gioco della storia” per sperare di avere probabilità più alte di realizzare le lunghe serie vincenti che permettono di progredire. Il “libretto” sarà anche occasione di una polemica con Roger Caillois per il quale l’atteggiamento dell’antropologo appariva un segno della diffusa inquietudine degli intellettuali nei confronti della “decadente” civiltà dell’Occidente. Ma il fatto stesso che abbia promosso l’etnologia è già di per sé, affermava lo studioso del mito e del sacro, conferma della superiorità della civiltà sui ‘primitivi’, proprio per la capacità di guardare criticamente a se stessa e di confrontarsi con le altre.   

  

Opera di Henri Rousseau.

 

Il 22 marzo del 1971 Lévi-Strauss sarà nuovamente chiamato dall’Unesco ad aprire l’anno internazionale di lotta contro il razzismo pronunciando una conferenza sul tema Razza e Cultura. Dopo aver notato che la “inadeguatezza delle risposte tradizionali spiega forse perché la lotta ideologica contro il razzismo si è dimostrata così poco efficace sul piano pratico”, l’antropologo non nascondeva il proprio pessimismo: “Nulla sta ad indicare che i pregiudizi razziali diminuiscano, e tutto fa pensare che, dopo brevi bonacce locali, si ridestino altrove con intensità accresciuta”. Razza e cultura rischiò di provocare uno “scandalo”, ricorderà l’autore nella prefazione del 1983 a Lo sguardo da lontano in cui il testo della conferenza sarà poi raccolto, perché sembrava bestemmiare il “catechismo” a cui prestavano fede i funzionari dell’Unesco. Lévi-Strauss invitava a non confondere il razzismo, che pretende di vedere nei caratteri intellettuali e morali che si attribuiscono a un insieme di individui l’effetto necessario di un patrimonio genetico comune, con altri atteggiamenti legittimi e forse inevitabili. Mantenersi fedeli ai valori della propria comunità e anzi giudicarli superiori agli altri è forse il prezzo da pagare per impedire che le culture si dissolvano: si tratta dunque di tendenze “consustanziali alla nostra specie”, non solo inevitabili, ma spesso feconde, finché non vengono esasperate. Nel saggio, Lévi-Strauss terrà conto delle indicazioni provenienti dalla genetica delle popolazioni; essa ha contribuito a dissolvere la convinzione arcaica per cui sarebbe la razza a influire sulla cultura, anzi dobbiamo dire che quanto generalmente si intende per “razza” è una “tra le altre funzioni della cultura”. Sono fattori culturali – divisioni in gruppi, pratiche sessuali e regole matrimoniali, credenze magiche e cosmologiche, ecc. – a orientare il corso della selezione naturale; ma i patrimoni culturali evolvono più rapidamente di quelli genetici e il numero delle culture supera, e di molto, quello delle razze. La lotta impegnata per sconfiggere i pregiudizi razziali non può sperare di risolversi semplicemente combattendo l’ignoranza e i pregiudizi, perché le cause dei pericoli suscitati dagli odi razziali “sono assai più profonde” di quelle addebitabili alle componenti culturali. Dietro il recto del saggio del ’52, dirà l’autore in un’intervista del 2000, si sarebbe potuto leggere anche il verso: “Mentre infatti cercavo di spiegare perché la nozione di razza fosse inaccettabile, cercavo al tempo stesso di evidenziare tutti i pericoli di semplificazione ai quali i pregiudizi antirazzisti potevano condurre”. La diffusione del sapere e lo sviluppo delle comunicazioni non ha come destino inevitabile l’instaurarsi di una convivenza armoniosa fra uomini educati ad accettare e rispettare la diversità; anzi, l’umanità mondiale che si annuncia, dove sarebbe realizzata la comunicazione integrale con l’altro, rischia di distruggere nel livellamento la fecondità dei particolarismi e l’originalità delle loro creazioni. Lévi-Strauss ricorda nel 1971 che le dottrine razziali vanno interpretate come indizi e sintomi, “copertura ideologica ad opposizioni più reali, fondate sulla volontà di asservimento e sui rapporti di forza”. Allo stesso modo, possiamo formulare l’ipotesi secondo la quale le “differenze razziali” “continueranno a servire da pretesto alla crescente difficoltà di vivere insieme, percepita a livello inconscio da un’umanità in preda all’esplosione demografica”. 

  

Si deve al genetista Richard Lewontin la definitiva smentita del mito dell’esistenza di razze umane. “Certo, le razze esistono”, disse, ma solo nella testa degli uomini, nella loro immaginazione: quella di distinguere e dividere è un’abitudine umana che certo precede la divisione attestata nel V secolo a.C. fra greci e barbari. La visione bipolare del “noi e loro” è comune a tantissime culture, ed è una realtà psicologica che si radica nella nostra storia evolutiva, forse nel timore presente tra i cacciatori-raccoglitori verso l’Altro, possibile avversario nel controllo delle risorse. Si sa, il razzismo sorge dalla paura e dall’ignoranza; quanto più il diverso è sconosciuto tanto più viene odiato, lo confermano l’Austria e altri paesi dell’Europa centro-orientale dove la presenza di immigrati è estremamente ridotta. L’intolleranza verso il diverso non è facile da cancellare, risponde al bisogno d’inventarsi un’identità e una tradizione, di trovare radici, serve ai profeti di sventura per catalizzare gli odi verso il nemico di turno e trovare consenso indicando il capro espiatorio, serve a produrre conformismo e senso di appartenenza al branco. L’unica arma in nostro possesso resta l’educazione, ma questa non può essere delegata solo alla scuola; nella tradizione dell’Occidente, la democrazia si regge anche sull’idea che la politica svolga un processo educativo nei confronti dei cittadini. 

   

Fra i traduttori delle opere di Lévi-Strauss vi fu anche Primo Levi, che con sguardo “naturalistico” ha riflettuto sulla condizione dell’animale-uomo nell’epoca dell’estremo. Teorico anch’egli delle ibridazioni e delle impurità, avvertiva certo una profonda sintonia con chi aveva ricordato costantemente che “tutte le culture sono il risultato di mescolanze, di prestiti, di miscugli, che non hanno smesso di prodursi, sebbene con ritmi diversi, dall’origine dei tempi” (Da vicino e da lontano). In una conferenza del ’79, Levi definisce il pregiudizio razziale qualcosa di ferino, proprio degli animali feroci; in garbato contrasto con quanto aveva asserito Norberto Bobbio – il razzismo avrebbe matrici culturali –, Levi riprendeva i contributi provenienti dagli studi etologici, in particolare l’analisi condotta da Konrad Lorenz in Il cosiddetto male. L’intolleranza razziale ha origini preumane, “addirittura è incorporata in certi istinti primordiali” che ci accomunano ad altri mammiferi o ad altri animali gregari e sociali, come le api e le formiche. Anche l’avversione nei confronti degli Ebrei, come ogni forma di razzismo, ha le sue radici nel bisogno animale di difendere il proprio territorio, di delimitare i propri confini; l’aiuola che ci fa tanto feroci, scriveva Dante pensando alla Terra, è anche il territorio che calpestiamo, che diciamo nostro (l’egoismo del Noi, il noismo) perché lo abbiamo sporcato e segnato con le nostre deiezioni. Il razzismo rappresenta l’emersione dei tratti animaleschi che l’homo sapiens (soprattutto quando è demens) conserva in sé; lo sforzo dell’educazione per sconfiggere la nevrosi del razzismo rischia di dover essere continuamente replicato.    

 

Per saperne di più

Luigi Cavalli Sforza, Storia e geografia dei geni umani (con Paolo Menozzi e Alberto Piazza), Adelphi, 1997

Luigi Cavalli Sforza, Razzismo e noismo (con Daniela Padoan), Einaudi, 2013

Stephen Jay Gould, Intelligenza e pregiudizio, Editori Riuniti, 1991

Claude Lévi-Strauss, Razza e storia e altri studi di antropologia, 1952, Einaudi, 1967, poi raccolto in Antropologia strutturale II, Einaudi, 1978

Claude Lévi-Strauss, Razza e cultura, 1971, poi raccolto in Lo sguardo da lontano, Einaudi, 1984 (traduzione di Primo Levi). Entrambi i saggi dedicati al tema del razzismo sono stati ripubblicati nel 2001 dall’Unesco; l’edizione italiana, Einaudi, Torino, 2002, include l’intervista che l’antropologo concesse nel 2000 a M. Massenzio.  

Claude Lévi-Strauss, Da vicino e da lontano, Rizzoli, 1988

Claude Lévi-Strauss e Roger Caillois, Diogene coricato. Una polemica su civiltà e barbarie, Medusa, 2004.

Primo Levi, L’intolleranza razziale, 1979, in Opere complete, vol. 2, Einaudi, 2017

Richard Lewontin, La diversità umana, Zanichelli, 1987 

Ashley Montagu, La razza. Analisi di un mito, 1942, Einaudi, 1966 

Pierre-André Taguieff, Il razzismo. Pregiudizi, teorie, comportamenti, Cortina, 1999

Pierre-André Taguieff, Di fronte al razzismo, a cosa serve il sapere?, Vita e pensiero, n° 3, 2017

Tzvetan Todorov, Noi e gli altri, 1989, Einaudi, 1991

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