Teorie per l'oggi / Saturazione

4 Agosto 2016

- “Non hai capito quello che sto cercando di dirti.” 

- “No, non è vero che non ho capito, non ho sentito.” 

- “Come!? Allora parlo più forte.” 

- “Ma no, cosa capisci!? Sto dicendo che non sento mio quello che dici, non mi risuona.” 

- “E già, è da qualche tempo che quando mi dici che mi stai ascoltando a me pare che tu non sia qui. Mi fissi, certo, ma in modo vuoto e mi pare che aspetti solo che io stia zitto.”

- “Ti sbagli, ti ascolto sempre, ma non ti sento, non ritrovo traccia di quello che dici dentro di me. Tutto mi sembra detto e ridetto, consumato.” 

- “Eppure cerco le parole più adatte…..”

- “Ah! Le parole, le parole, questo tuo mondo fatto di parole!” 

- “Non mi pare che vada meglio con i fatti.” 

- “Quelli poi….. è da tempo che non ci sono fatti.” 

- “Anche questo continui a dirmelo, anzi prima o poi mi aspetto che tu lo dica, e puntualmente lo dici.” 

- “Beh! Se è per quello, potrei scriverti prima quello che ci diremo la prossima volta che ci parliamo.” 

- “Anche per me vale la stessa cosa. Forse per noi parlarci è diventato non dirci più nulla.”

 

Ciò che ha in sé abbastanza o troppo di qualche cosa e non può contenerne di più, questo è il saturo.

 

Andreas Gursky.

 

Ma di che cosa hanno in sé abbastanza o troppo da non poterne contenere di più, il nostro tempo e la nostra condizione di vita? Potrebbero bastare fotografie come quelle di Andreas Gursky e di JeongMee Yoon per farsene un’idea. 

 

JeongMee Yoon, The Pink and Blue Project

 

E la cosa non comincia ora, ma accompagna la svolta della modernità tarda, allorquando nel rapporto tra le parole e le cose i conti hanno iniziato a non tornare più. È noto il sommesso grido di Hofmannsthal nella Lettera a Lord Chandos: “Il mio caso, in breve, è questo: ho perduto ogni facoltà di pensare o di parlare coerentemente su qualsiasi argomento. In un primo tempo mi divenne gradualmente impossibile trattare temi sia elevati sia comuni e formulare quelle parole, di cui ognuno suole servirsi coerentemente senza stare a pensarci. Provavo un inspiegabile disagio solo a pronunciare la parola “spirito”, “anima”o “corpo”. Trovavo impossibile, nel mio intimo, esprimere un giudizio sulle questioni della corte, i fatti del parlamento, o quel che vogliate. E ciò non per qualche sorta di prudenza, e difatti conoscete la mia franchezza che giunge a sconfinare con la leggerezza: ma le parole astratte, di cui la lingua, secondo natura, si deve pur valere per recare a giorno un qualsiasi giudizio, mi si sfacevano nella bocca come funghi ammuffiti "(Lettera di Lord Chandos, 18 ottobre 1902, Der Tag). Noi tutti sperimentiamo i nostri: “ma no, volevo dire che…”; “intendevo un’altra cosa, ma non riesco a spiegarmi”; o i silenzi preventivi per evitare fallimenti comunicativi. Noi tutti siamo impegnati a districarci in troppe cose e oggetti che opprimono i nostri spazi interiori ed esterni.

 

Noi tutti siamo saturi di informazioni che non riescono a farci avere un’idea di un problema o di un fenomeno e, confusi, ci dimeniamo nelle selve del presente. Si dimena pure il linguaggio della politica che, forse, è uno dei luoghi della massima saturazione. Lo svuotamento di significati del gergo pare una parabola inarrestabile e ogni tentativo di proporre una controtendenza è riassorbito e sepolto nella palude del già visto o del non senso. Le parole non fanno attrito e le azioni non riescono a essere discontinue. Persino quando si parla di valori come quelli occidentali per disporsi poi a imporli, o di rispetto delle culture diverse indipendentemente dai loro orrori, ci ritroviamo intrappolati in due lati della stessa satura mistificazione. La saturazione assume così il suo volto atono e sordo di crisi del senso del possibile. Per comprendere qualcosa di più di cosa sia e come agisca la saturazione conviene collocarla al punto di incontro e interdipendenza con il conformismo e l’indifferenza, come emerge da un approfondimento recente (U. Morelli, Contro l’indifferenza. Possibilità creative, conformismo, saturazione). È in quel crogiolo di elementi disturbanti il legame sociale che prende forma una delle principali problematiche di una socialità possibile in un’epoca in cui ci viviamo particolarmente soli di fronte alla nostra condizione planetaria, in cui ci sentiamo infanti planetari.  

 

Ugo Morelli, Contro l'indifferenza

 

Il conflitto che viene a crearsi tra l’autoreferenzialità affettiva che prende piede fino a divenire pervasiva, e la ragion poetica, la capacità umana di concepire un fare originale con esiti inediti, assume le connotazioni di un conflitto estetico. Il conflitto estetico riguarda la dinamica fondativa del divenire umani, cioè esseri autonomi e dipendenti, capaci di persistenza unitaria e unica e di emergenza e trascendenza creativa. Ebbene, la saturazione pare intervenire proprio a mettere in crisi la stessa possibilità di accedere al conflitto estetico e farlo agire, farlo esprimere, con le sue incerte dinamiche, che però avrebbero, se si esprimessero, una potenzialità vitale e generativa. Il conflitto estetico riguarda la nostra natura costitutiva di esseri in grado di proiettarsi nella pensabilità della bellezza e di angosciarsi nel contenere la sua effettiva accessibilità e perseguibilità. Se però manca lo spazio per vedere le possibilità mentre si affrontano i vincoli e i costi che essi comportano, l’effetto appare quello di essere “ciechi dentro”, di “non vedere di non vedere”. 

 

Cristo ogni tanto torna,

se ne va, chi l’ascolta…

Il cuore della città

è morto, la folla passa

e schiaccia – è buia massa

compatta, è cecità…

(Giorgio Caproni, Il “terzo libro” e altre cose, Einaudi, Torino 1968 – 2016)

 

Se il tempo viene dedicato a quello che Jung chiama il “pensiero eccessivamente indirizzante”, lo spazio della pensabilità e della critica del presente si satura. Ogni movimento si configura come falso movimento o sosta nell’esperienza satura, in uno stato di crisi di immaginazione, dove l’adattamento all’esistente esaurisce le differenze e si propone come possibilità unica. Manca il respiro. Si afferma una situazione, peraltro quasi sempre inconsapevole, in cui predominano i tratti caratteristici della saturazione:

 

- inaccessibilità e incontenibilità del vuoto e dell’insaturo

- riduzione al conforme delle differenze emergenti

- caduta semantica del linguaggio verbale

- ridondanza di senso

- scivolamenti continui dall’appartenenza all’adesione

- crisi dell’immaginazione e, quindi, della creatività, della progettualità e dell’innovazione.

 

Molto spesso è persino difficile ricordare tempi in cui le parole riuscivano a dire le cose generando senso e creando spazi insaturi. Ce lo ricorda, in modo come sempre asciutto, Coetzee: 

“C’è stato un tempo in cui credevamo di saperlo. Credevamo che quando il testo diceva: ‘Sul tavolo c’era un bicchiere d’acqua’, ci fosse davvero un tavolo e sopra il tavolo un bicchiere d’acqua, e ci bastava guardare nello specchio di parole del testo per vederli. Ma tutto questo è finito. Lo specchio di parole s’è infranto irreparabilmente, a quanto pare” (J. M. Coetzee, Elizabeth Costello).

 

È una questione di relazioni nello spazio e nel tempo, interiori ed esterni, naturalmente. A un certo punto ci accorgiamo di non sapere dove mettere quello che l’altro dice e ci sembra di sapere esattamente quello che dirà. Passiamo ore a parlarci e non ci spostiamo di un centimetro da dove eravamo. Lo spazio si satura e il tempo pure. La saturazione si afferma, allora, come inaccessibilità alla distanza necessaria per affrontare l’incertezza della riflessione e dell’immaginazione e il vuoto potenzialmente generativo dell’incompletezza. Chi accede a quella distanza necessaria vede più profondo, per dirla con Paul Celan, ma non si vede più profondo senza soffrire condizioni e costi di quella possibilità di vedere e, quindi, di esserci. 

 

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