Speciale
Virus e anziani / Non senza mio padre
Al Pio Albergo Trivulzio di Milano, storica casa di cura per gli anziani meno abbienti, si rincorrono le cifre dei decessi avvenuti tra marzo e questi primi giorni di aprile: a oggi si parla di 110 morti, un numero, già molto alto, che pare destinato a crescere rapidamente visti i ritardi con cui la gestione ha messo in moto l’intervento straordinario per fronteggiare la virulenza del Covid-19. I dirigenti si rimpallano le responsabilità, il personale denuncia le numerose negligenze, e la procura di Milano ha aperto un’inchiesta con l’ipotesi di “diffusione colposa di epidemie e omicidio colposo”. È legittimo pensare che l’impreparazione al coronavirus abbia esaltato i difetti organizzativi di tutte le strutture di accoglienza degli anziani, di cui quella di Milano è solo un clamoroso esempio. La giustizia farà il suo corso, si dice, ma questa è una vicenda che nell’incendio della pandemia ci fa sbattere contro uno dei macigni più duri del nostro tempo: la realtà di emarginazione estrema in cui tanti dei nostri vecchi trascorrono l’ultimo tratto della loro esistenza. Un vero abbandono di massa di cui non si ha nemmeno percezione.
C’è un luogo comune, sempre meno latente, secondo il quale i vecchi più vecchi sono ormai come gli struldbrug, uomini divenuti immortali, di Jonathan Swift:
Non appena superata l’età di ottanta anni, erano considerati come morti civilmente: gli eredi subentravano nei loro averi, si lasciava loro soltanto una modesta pensione alimentare, mentre i poveri erano mantenuti a spese dello stato. A questa età erano considerati incapaci di cariche di fiducia o di impieghi lucrosi, non potevano acquistare o affittare né far da testimoni in cause civili o penali, nemmeno per le decisioni di limiti o confini.
A novant’anni, perdevano i denti e i capelli e il senso del gusto, così mandavano giù qualsiasi bevanda o cibo, senza appetito né piacere. I loro malanni continuavano, senza crescere né diminuire; dimenticavano i nomi delle cose e delle persone, tanto che se cominciavano una frase non arrivavano a finirla, e con questo erano privati dell’unica distrazione che sarebbe loro rimasta.
D’altronde, poiché la lingua del paese è molto mutevole, gli struldbrug di un’epoca non capivano quelli di un’altra e dopo duecento anni non erano più in grado di scambiare due parole con i mortali, salvo poche espressioni generali, e così erano sempre come stranieri in patria (I viaggi di Gulliver, tr. it., Einaudi, Torino 1963, pp.169-170).
Era il 1726. Ma adesso, nel fuoco di una reale pandemia, ci si pensa perché i vecchi, gli old old (ma anche gli young old), vedono come riverberata la loro condizione, e la società in allarme per i troppi malati sembra mettere in circolo il siero avvelenato della “selezione”, l’idea (storicamente ripugnante) che, di fronte al peggio, si possa cominciare con il sacrificare, appunto, gli individui più vecchi. Si è letto del triage negli ospedali (la decisione di privilegiare, in caso di scarsità di attrezzature, i pazienti più giovani), se ne è parlato e forse da qualche parte è diventata una pratica. Non entro nel merito delle strategie di intervento che in questo momento nelle terapie intensive e nelle case di riposo si stanno adottando (anzi, non posso che ringraziare mille volte anch’io tutti coloro che stanno provando a difenderci in ogni modo), non è questo il tema né la sede per parlarne. Il punto è che il “cattivo pensiero” di mettere mano agli squilibri della società a partire dal suo ventre molle costituito dai vecchi, non è affatto una novità. In una catastrofe globale anche economica in pieno svolgimento, sentir parlare di “toccare le pensioni” dei vecchi (vedi il direttore dell’INPS, Pasquale Tridico, che nel pieno della crisi, a metà marzo, non si sa con quale scopo e con quale fondamento dichiara che i soldi per le pensioni ci sono probabilmente solo fino a maggio) fa pensare che il “siero” della selezione abbia effettivamente ripreso a infettare a sua volta la società. Così la pandemia diventa la tremenda immagine della stessa vecchiaia: una pandemia, appunto, una realtà completamente condizionata al diffondersi di un virus letale che non perdona. Vorresti fuggire, ovunque, cambiare vita, affrontare avventure inaudite pur di scampare a quel virus, ma niente, non c’è verso, tu sai che quel nemico ti catturerà. Altro che vaccino!
Saggiamente, e con crudeltà, Swift mostrava l’orrore di una vita senza fine e senza dignità. Alla metà del Settecento, quando la popolazione globale non raggiungeva gli ottocento milioni di individui, l’economista Thomas Robert Malthus ragionò sugli squilibri demografici in rapporto alla ricchezza disponibile nella società introducendo un vero e proprio filone di teoria economica. Poi arrivò il sistema capitalistico. Quasi tre secoli dopo gli abitanti della terra sono circa sette miliardi (la cifra è per difetto). Segno che gli uomini hanno saputo trovare di che nutrirsi e vivere più a lungo. Lo sfondo in cui noi viviamo oggi è quello dei sistemi socio-economici globalizzati e altamente tecnicizzati, le coordinate di spazio e di tempo sono state ampiamente modificate e ogni aspetto della vita è stato in qualche modo ricodificato. Una “vecchiaia seriore”, quella delle persone che si collocano tra i novanta e i cento e oltre anni di età, è ormai una precisa faccia della nostra società, e qui in Italia in modo particolare. Con una certa grossolanità possiamo dire che gli struldbrug non sono poi una così grande sciocchezza. Ora un imponderabile virus smaschera le culture, i modi di vivere scoprono la loro diversa consistenza (già: to gain, happiness, performance!). Davanti alla “morte collettiva” della pandemia, la sensibilità umana sembra regredire a uno sguardo primordiale, quello delle necessità di specie. E gli individui molto vecchi, i nostri struldbrug, sembrano messi in discussione (abbiamo forse investito male il nostro progresso?), occupano uno spazio eccessivo, sottraggono troppe risorse.
In un romanzo (che è realtà) la percezione di un pericolo rimane materia di elaborazione psico-culturale, ma nell’immediato della bio-esistenza l’individuo deve concentrarsi con serietà (e relativa serenità) sul suo decorso, uno scalino dopo l’altro, preparando le specifiche “tecniche” di sopravvivenza che ogni fase prevede e consente (un po’ di tempo fa ho parlato della vecchiaia come di “una guerra” in Che vecchio potrei essere?). Si comincia a invecchiare, poi si invecchia il più a lungo possibile, poi si smette. C’è una gradualità naturale, fatta di crescenti difficoltà, che comunque, in qualche modo, siamo stati educati ad accettare (e questo non vuole dire esattamente che sia né accettabile né accettata). Ciò che entra violentemente in conflitto con questa visione “naturale” del corso della vita è che gli uomini, in una pandemia, al pari di tutti gli esseri biologici, devono misurarsi con le leggi quantitative della specie. Ma probabilmente, e fortunatamente, così non è. Perché le ragioni dell’equilibrio biologico non possono non intersecarsi con quelle del legame umano, che è affettivo. Questo è il punto.
Gli umani hanno a disposizione armi molto sofisticate. I loro legami non ce la fanno a soggiacere sic et simpliciter alle istanze del “bios”. Nella dinamica generazionale ci sono certo le quantità, le proporzioni oggettive, demografiche ed economiche, ma ci sono anche i legami individuali affettivi. È vero che dal secondo dopoguerra non sempre le generazioni, nei paesi industrializzati almeno, hanno agito in nome di una armonia di crescita economica (i giovani di oggi hanno diversi motivi per protestare e recriminare verso le generazioni che li precedono), ma di fronte alle urgenze di un momento storico extra-ordinario, non si possono invocare, per affrontarlo, le “piccole” ragioni di un malgoverno trascorso. Ora, costretti a riflettere in una sorta di nudità psicologica, il rapporto generazionale si ripropone nella sua archetipicità: il senex vede in sé il puer e il puer proietta sé nel senex. Puer/senex è una diade, un legame assoluto.
La materia, va da sé, è assai complessa, e andrebbe pulita dalle tante impurità con cui le diverse discipline la appesantiscono e la confondono. Parlare di “conflitto di generazioni” è roba per chi di ragionare in profondità non ne vuol sapere. Le “rottamazioni” sono sempre operazioni molto molto rischiose. E trovo particolarmente disturbante che a ogni passo ci sia qualcuno che rispolvera questo ferro vecchio che ha fatto l’orrore dei regimi totalitari del passato. Semmai si tratta di considerare, in una prospettiva ben altra, il semplice fatto che tutti i fenomeni hanno un’origine, una provenienza, una spiegazione, non la vita. A noi non rimane che prenderne atto. E pensare che, come dice la giovane ricercatrice Giovanna Miolli nel suo blog: “La fragilità dei nostri padri è la nostra, la vulnerabilità delle nostre madri è la nostra. Ma anche la loro saggezza, la loro guida, la lunga vista che a noi manca. Nelle nostre radici c’è la pietas. E la pietas legittima un solo pensiero: l’unica salvezza è salvarsi insieme” (Non senza mio padre, 31 marzo 2020, qui).