Oh Mexico
It sounds so sweet with the sun sinking low
The moon's so bright like to light up the night
Make everything all right
(James Taylor)
Messico e nuvole, il tempo passa sull'America
il vento insiste con l'armonica,
che voglia di piangere ho
(Enzo Jannacci)
Da qui il Messico è parte dell'America, quella latina. E non è dove si parla il latino, come incautamente dichiarava, convinto, il vice di George Bush padre, che si scusava, non ricordo in che luogo, appunto, dell'America latina, per non saper parlare il latino. Come noto ai non-repubblicani Nord-americani, in Messico si parla spagnolo o, come si scriveva un tempo, la lingua spagnuola. Insomma, il castigliano; in una variante, diversa da quella della madrepatria, dall'argentino, dal cubano, dal colombiano, dal cileno, dal portoricano, ecc.
Qui la differenza consiste nella presenza dell'azteco, con tutte quelle t e tl: Náhuatl, Toltechi, Teotihuacan. Così mi dicono i miei ospiti Ricardo Rosas e Gerardo Residenz che, peraltro, parlano anche un bellissimo italiano. Quando ti rendi conto che è la prima volta, nel Nord-America, che si può fare completamente a meno dell'inglese, un senso di liberazione ti pervade.
Il Messico, rispetto ad altri luoghi dell'America del Nord, possiede un immaginario molteplice e contrastante che lo rende simile all'America del Sud. Qui però c'è dell'altro, si incontrano il barocco seicentesco, con le sue pieghe, la cultura azteca, con le sue piramidi, lo schiavismo, le rivoluzioni di Villa e Zapata, il troskismo di Diego Rivera, lo stalinismo di David Alfaro Siqueiros, le donne: Frida Kahlo, Tina Modotti, Nahui Olin, Maria Izquierdo, Elena Garro, e tante altre. Il libro Las siete cabritas, di Elena Poniatowska, racconta la vita e il genio di sette di loro.
La storia di queste persone, uomini e donne, è la configurazione molteplice della storia intellettuale messicana. Passioni e amori, attentati e assassinii, intrighi politici; tra gli altri l'assassinio di Lev Trockij, e l'attentato antecedente condotto da Siqueiros, la misteriosa scomparsa di Tina Modotti, fotografa e attrice di origine italiana. Chi volesse cercare i cadaveri nell'armadio del “socialismo reale”, non ha che da recarsi là. Nel 2007 fu trovato in Messico un cappotto pieno di rullini della guerra civile di Spagna, le cui foto (Robert Capa, Gerda Taro e David Seymur ne sono gli autori) furono esibite nel 2011 presso l'International Center of Photography di New York.
La visita a quell'esibizione dava una certa sensazione d'essere “fuori posto”, non sembrava New York, pure era piena di newyorkesi per nulla infastiditi nel sentire le musiche rivoluzionarie che accompagnavano l'esposizione fotografica. Se a New York, e anche da noi, parlare di queste storie di rivoluzione crea un certo imbarazzo, rievoca e presentifica l'intrigo e il tradimento dentro la rivoluzione, che si disvela, più che come atto eroico del popolo, come faida, resa dei conti delle fazioni interne (questo fu, in primo luogo, lo stalinismo: nient'altro che resa dei conti), in Messico si assiste, nonostante tutto, alla commemorazione continua di situazioni così contrastanti. In una sintesi: Rivera e Siqueiros.
Il palazzo del Governo è pieno di murales di Diego Rivera con il volto di Lenin, Trockij e altri rivoluzionari in primo piano. Insomma, i cugini ricchi del Nord sembrano avere tra i loro miti iconografici gli eroi della guerra d'indipendenza, dell'abolizione dello schiavismo, della liberazione e della costituzione, dal diritto alla felicità al libero mercato delle idee fino all'habeas corpus, da Washington e Lincoln fino ai Kennedy. Invece in Messico i padri spirituali messicani, oltre a Zapata e Villa, sembrano venire dall'orizzonte rivoluzionario comunista, Cuba qui è un buon vicino di casa, non dico amico, ma stimato e rispettato. Qualsiasi governo governi il Messico, destra, sinistra, centro, quelle sono le icone e le ideologie di riferimento.
Al Messico si possono incontrare locali tipici dell'alta intellettualità borghese parigina, anziani hippy californiani, favelas da far apparire quelle di Rio piccoli quartieri residenziali, chiese del Cinque-Seicento e palazzi del Settecento, grattacieli nipponici, università eccellenti, crimini di massa; come quello del rapimento di quarantadue studenti deportati, uccisi e sepolti in fosse comuni nei giorni in cui ero là, notizie quotidiane. Perché? Perché protestavano, si ispiravano all'iconografia governativa, hasta siempre la revolucion. Perché fu a Città del Messico che il Che incontrò i fratelli Castro nel 1955.
Un'altra storia interessante riguarda Cuernavaca. Anni Sessanta, pontificato di Paolo VI, un gruppo di Benedettini comincia a pensare alla psicoanalisi come mezzo per valutare l'autenticità della propria vocazione religiosa, al convento s'incominciano a fare seminari di studio della psicoanalisi, alcuni psicoanalisti della vicina università di Città del Messico vengono invitati a fare interventi. In breve la psicoanalisi viene, letteralmente, adottata come metodo di analisi e di cura della psyché, termine che rimanda all'anima. Una traslazione di significati che inquieta la chiesa di Roma. Oggi il luogo è un istituto psicoanalitico, la chiesa non ha potuto mantenere i locali in virtù di una legge messicana che recita, per parafrasare Cavour, “libero stato in libera chiesa”. In un paese quasi interamente cattolico, tra tanta complessità sociale, sincretismo artistico, confusione urbana, una cosa è certa: il potere temporale e quello spirituale sono separati. Avrei voluto approfondire l'argomento, ma le nostre guide per Cuernavaca non si sono più fatte vive.
Che meraviglia il Messico! La migliore rappresentazione del Messico è forse quella della biblioteca centrale del campus. Un edificio interamente dipinto da Juan O'Gorman. Sulla facciata principale il sistema tolemaico accanto a quello copernicano, come dire: qui i massimi sistemi sono ancora in dialogo. Tutto intorno un meraviglioso caosmos. Forse, quando Borges descrisse la Biblioteca di Babele o l'Aleph, aveva in mente il Messico.