Philip Marlowe, un romantico con la pistola
Ci sono, in letteratura, dei titoli che, da soli, valgono il romanzo che introducono, che vivono di vita propria, adattandosi a circostanze estranee, a cronache lontane dal tempo in cui sono stati creati, diventando persino dei modi di dire. Il lungo addio di Raymond Chandler (del 1953) è uno di questi. Basta sfogliare i giornali nazionali e internazionali dello scorso settembre, quando, all’annuncio della morte della Regina Elisabetta II, redattori con la fantasia al minimo sindacale ci hanno inondati con una valanga di titoli banali e scontati. È stato tutto un florilegio di: “A very long goodbye to the Queen”, “U.K. Begins Long Goodbye to Queen Elizabeth II”, “Il lungo addio da Balmoral a Londra”, “Le très long adieu des Londoniens à leur reine”, e via andare.
E dire che il titolo di lavorazione che Raymond Chandler aveva dato a quel sesto (e penultimo) romanzo – unanimemente considerato il suo capolavoro e che la Crime Writers’ Association ha inserito nella lista dei migliori cento romanzi gialli di tutti i tempi – doveva essere Summer in Idle Valley (“Estate nella valle dell’ozio”): certo non avrebbe avuto la stessa forza e impatto mnemonico.
Ne parliamo perché Il lungo addio torna oggi sui banchi delle librerie ritradotto (in modo esemplare) da Gianni Pannofino, e ristampato – dopo Il grande sonno (2019), e Addio mia amata (2020) – da Adelphi nella collana Fabula, che vanta un catalogo animato ormai da quasi quattrocento volumi, inaugurata, come molti probabilmente ricorderanno, da L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera, altro titolo spesso saccheggiato da giornalisti in vena di facile citazionismo letterario.
Los Angeles, o cara
La storia di Il lungo addio, uscito contemporaneamente negli Stati Uniti e in Inghilterra nel 1953, si svolge, come in (quasi) tutti i romanzi di Chandler, a Los Angeles. Le uniche eccezioni geografiche a cui lo scrittore, ormai avanti con gli anni e l’alcol, si lascerà tentare, si troveranno in Playback (romanzo del 1958, il suo ultimo) che vede il detective Philip Marlowe indagare nella città immaginaria di Esmeralda, ovvero La Jolla, al tempo non ancora la metropoli che è oggi, al confine col Messico, in cui, nel 1946, dopo aver lavorato con Billy Wilder alla sceneggiatura di Double Indemnity (in cui interpreterà un cameo alla Hitchcock) e di parecchi altri film per la Paramount, lo scrittore si era definitivamente ritirato in una casa di fronte all’oceano, ai piedi di un basso dirupo («Una casa migliore di quella che uno scrittore pulp disoccupato possa aspettarsi»). Ma anche in Poodle Springs Story, un abbozzo di romanzo (di cui aveva scritto solo 31 pagine, ovvero quattro brevi capitoli) interrotto dalla sua morte avvenuta nel 1959 – che sarà terminato da quel Robert B. Parker autore di una ventina di romanzi gialli di grande successo, e dell’amata serie televisiva Spenser – sullo sfondo della cittadina immaginaria di Poodle Springs (dove i poodle, appunto, quei nevrastenici cagnetti da salotto si sprecano) che, poi, non sarebbe altro che Palm Springs, fascinosa enclave nell’area desertica a nord di Los Angeles, buen retiro di divi di Hollywood e multimilionari in pensione.
«Marlowe doveva cambiare: basta cinismo e sarcasmo»
Il lungo addio, da molti critici definito “crepuscolare”, si differenzia profondamente dalle altre opere di Chandler per un capovolgimento strutturale della “poetica marlowiana”: il protagonista, Terry Lennox, muore improvvisamente in uno dei capitoli iniziali e «noi lettori, Marlowe, il romanzo e il suo intrigo, dobbiamo continuare senza di lui, con i nuovi clienti che compaiono nella particolare desolazione di questa definitiva assenza» (Fredric Jameson).
Più che l’intreccio lo scrittore approfondisce il concetto di amicizia che, in questo caso, nasce per solidarietà alcolica (fra i personaggi e lo stesso autore); un’amicizia che, con lo scorrere delle pagine, si rivelerà sempre più elusiva e ambigua, piena di colpi di scena: ma rassicuratevi, non faremo nessuno spoiler, diciamo solo che, apparentemente, il romanzo sembra composto da due storie diverse che, però, neanche dirlo, finiranno per ricomporsi in un unico puzzle. Spiegherà Chandler: «Sapevo che il personaggio di Marlowe era cambiato, e pensavo che dovesse cambiare perché, dopo tanto tempo, quel suo cinismo e sarcasmo non poteva non apparire una posa».
Già nel maggio del 1942 Chandler inviava all’allora sua agente, Bernice Baumgarten, «l’abbozzo di una storia che ho intitolato The Long Good-Bye. Non ho neppure riletto». Chiarirà che si tratta non proprio di «una storia di azione costante, perché si diventa grandi, complicati e insicuri, i dilemmi morali cominciano a interessarci più di quanto ci interessi sapere chi ha dato una botta in testa a chi. Comunque ho scritto questa cosa come volevo, perché ormai posso farlo. Non mi importava se l’enigma non sussisteva, m’importava della gente, di questo strano mondo corrotto in cui viviamo, e del fatto che ogni uomo che cerchi di essere onesto, appare, in fondo, sentimentale o semplicemente sciocco».
Nella prima parte, dunque, Marlowe, qui, più di sempre, nella parte di “romantico con la pistola”, incontra, fuori da uno dei tanti night-club di Los Angeles, questo tale Terry Lennox («La faccia era giovane, ma i capelli erano bianchi come ossa»), ubriaco fradicio, a bordo di una Rolls Royce Silver Wraith, al fianco di una ragazza con «i capelli di una deliziosa sfumatura rosso scuro, un sorriso distante e sulle spalle un visone azzurro che faceva quasi sembrare la Rolls Royce un’auto qualunque».
Di lì a qualche pagina, la ragazza, Sylvia – che scopriremo essere la moglie di Terry e secondogenita del multimilionario Harlan Potter, proprietario di una catena di giornali (l’ombra “editoriale” del wellesiano Charles Foster Kane di Quarto potere, del 1941, avrebbe influenzato l’immaginario collettivo di scrittori e cineasti hollywoodiani per anni a venire) – sarà assassinata, il marito ricercato come potenziale omicida, e Marlowe sospettato di favoreggiamento per aver accompagnato in Messico quel Terry Lennox, di cui era diventato amico. Quest’ultimo, anche lui, per non essere da meno della moglie, verrà ritrovato cadavere. Suicida, garantisce la poco credibile polizia messicana.
Ma nell’indagine qualcosa non torna. «Il caso Lennox lo stanno insabbiando, caro mio». dice un reporter a Marlowe. «Un caso come questo avrebbe fatto vendere una marea di copie. Il processo avrebbe attirato giornalisti da ogni angolo del paese. Solo che non ci sarà nessun processo. Grazie al fatto che Lennox se ne sia andato prima che il processo potesse iniziare. I giornali appartengono tutti a gente ricca. E i ricchi fanno tutti parte dello stesso club. Chissà, magari è stato semplicemente un po’ aiutato a suicidarsi».
Certo è che, al di là della trama, è l’affresco dei personaggi, dei luoghi, delle situazioni a fare di Il lungo addio il capolavoro letterario che ha incantato, e continua a incantare, generazioni di lettori – che siano storici Baby Boomers, o di recenti progenie: X, Y o Z. Ecco come Chandler descrive l’incontro tra Marlowe e Harlan Potter: «Era enorme, poco meno di due metri di altezza e una stazza in proporzione. Indossava un completo di tweed grigio senza imbottiture. Le sue spalle non ne avevano bisogno. Aveva una camicia bianca, una cravatta scura e niente pochette. Dal taschino spuntava una custodia per occhiali. Era nera, come le scarpe. Anche i capelli erano neri, senza la minima traccia di grigio. Erano pettinati di lato, con un riporto alla MacArthur. La sensazione era che sotto ci fosse soltanto il cranio pelato. Le sopracciglia erano folte e nere. La sua voce sembrava arrivare da molto lontano. Beveva il tè come se lo detestasse».
Un buon detective non si sposa mai
Apparentemente, dunque, il capitolo Lennox è chiuso e Marlowe può dedicarsi ad un altro incarico: fare da baby sitter a uno scrittore di best seller, tale Roger Wade (molto alter ego dello stesso Chandler), che non riesce a finire il suo ultimo romanzo per le sempre più frequenti crisi alcoliche (le stesse preoccupazioni patite dagli editori di Chandler, Hamish Hamilton e Houghton Mifflin: il loro autore, infatti, non sfornava un libro dai tempi di La sorellina, del 1949). Senza dimenticare che Marlowe deve, di concerto, vegliare sull’incolumità di Eileen, la moglie di Wade, che ad ogni crisi alcolica diventa il bersaglio preferito della violenza del marito.
È a questo punto che la trama accelera, e i colpi di scena si sprecano. Diremo solo che è qui che Marlowe incontrerà il personaggio di Linda Loring, quello che riprenderà nell’incompiuto Poddle Springs Story, facendola – udite, udite – sposare al detective. Mossa apparentemente azzardata da parte dello scrittore che, in appendice agli Appunti sul romanzo poliziesco, aveva scritto come «l’elemento “amore” indebolisce quasi sempre un romanzo giallo perché introduce un tipo di suspense che contrasta con gli sforzi del detective di risolvere il problema e confonde le carte. L’unico tipo di amore efficace è quello che crea un certo rischio per il detective. Un buon detective non si sposa mai». E allora quale sviluppo della trama avrà avuto in mente Chandler? Avrebbe fatto morire Linda come il suo amico Ian Fleming avrebbe fatto, dieci anni più tardi, con il personaggio di Tracy Draco che, in Al servizio segreto di Sua Maestà, sposa James Bond? Non lo sapremo mai, e poi questa è un’altra storia.
«A Cissy avevo detto addio da tempo»
Nella primavera del 1953 Raymond Chandler finisce di scrivere (su una macchina per scrivere Corona) Il lungo addio, mentre le condizioni di salute della moglie Cissy – nata Pearl Eugenia Hurlburt Pascal (1870-1954) di 18 anni più grande di lui, tanto amata quanto tradita – peggiorano a causa di una irreversibile fibrosi polmonare. E lui non è che sia proprio in gran forma. Da un po’ di tempo si lagna di essere dimagrito, di aver aggiunto due nuovi buchi alla cintura, di stancarsi facilmente, soprattutto di non bere per poter stare dietro alle necessità della moglie scossa da una tosse cronica che solo certe medicine calmano. Chandler si occupa delle faccende di casa, una casa grande, molto impegnativa. Soprattutto cucina: «Come cuoco, nelle cose rapide, me la cavo abbastanza bene. Posso fare bistecche, cotolette e verdure migliori che al ristorante». Finisce che gli rimane poco tempo per concentrarsi sulla scrittura. E poi, «basta che lavori un poco, scriva qualche lettera d’affari, e sono da buttare via», informa il suo ex insegnante di materie classiche al Dulwich College con cui era sempre rimasto in contatto epistolare. «La mia memoria non è più quella di una volta, devo prendere appunti e fare elenchi. A volte nomi più che familiari mi sfuggono e rimangono sulla punta della lingua, per saltare poi fuori, indisponentemente, all’improvviso».
Questo stato di cose lo porterà, in Il lungo addio, a non accorgersi di una serie di incongruenze, a partire da un’apparentemente importante “valigia di pelle di maiale” (pigskin suitcase) che compare in apertura del romanzo, e da cui ci si aspetta grandi colpi di scena, ma che, poi, misteriosamente scompare dalla trama, nel senso che non se ne parla più, così come il colore dei capelli di un personaggio che prima era biondo diventa castano scuro o, ancora, il calibro dell’arma del delitto che, nella prima edizione inglese è una Mauser .63 modello PPK, mentre poco dopo diventa una calibro 7,65. Queste, e numerose altre piccole discordanze che gli editor cercano di rimediare, porteranno a un ritardo di due mesi nell’uscita di Il lungo addio negli Stati Uniti rispetto all’Inghilterra. Comunque sia, il New York Times parlerà del romanzo come di un capolavoro, e il critico di Harper’s, Bernard De Voto, mai tenero verso gli autori di narrativa “Hard-Boiled”, descriverà il libro awesome, eccezionale, magnifico.
Il successo sarà però offuscato dalla morte di Cissy, avvenuta il 12 dicembre 1954 alla Scripps Clinic di La Jolla. Scriverà Chandler al suo editore londinese: «È stata in permanenza sotto una tenda a ossigeno, ma la scostava di continuo per potermi tenere la mano. Domenica, poco dopo mezzogiorno, l’infermiera venne ad avvertirmi che stava malissimo. Quando entrai nella stanza avevano portato via la tenda di ossigeno e lei stava distesa lì, con gli occhi socchiusi. Il medico le teneva lo stetoscopio sul cuore e auscultava. Dopo un po’ si ritrasse e scosse il capo. Io le chiusi gli occhi, la baciai e andai via. In un certo senso, le avevo detto addio da tempo». Se si somma quest’ultima frase al rimpianto di non aver mai dedicato un libro alla moglie – ne parla nelle sue “confessioni” (Parola di Chandler, Milano Libri, 1976) – ecco, forse, chissà, spiegato il nuovo titolo: da Estate nella valle dell’ozio (di cui dicevamo all’inizio) a Il lungo addio.
Un balordo tentativo di suicidio
Due mesi dopo la morte di Cissy, Chandler, sotto l’effetto dell’alcol, in vestaglia, pigiama e ciabatte, tentò di mettere in atto «il più balordo tentativo di suicidio mai sperimentato», commentò un amico, e che gli stessi agenti, accorsi a casa dello scrittore, cercarono di minimizzare perché: «Ray era un mito, uno dei migliori». Il capitano Bruce Weston si limitò a dire ai giornalisti che lo scrittore aveva sparato due colpi al soffitto, sottintendendo “per sbaglio”. Nonostante ciò la notizia fece il giro del mondo, ma Chandler non se ne curò, anzi non si faceva scrupolo di parlarne a chiunque gliene chiedesse conto. Scrisse al suo editor Roger Machell: «Non so dirti se avevo davvero intenzione di farla finita, oppure se il mio subconscio ha messo in scena un dramma penoso». Guarda caso, in Il lungo addio anche lo scrittore Roger Wade fa un balordo tentativo di suicidio. Dice: «È solo un colpo partito verso il soffitto. Nessuno si è fatto male».
Chandler, a quel punto, sente il bisogno di cambiare temporaneamente aria e vende la casa di La Jolla. «Ho finito ieri l’angosciante impresa di portar via tutti i mobili della casa e chiuderla, in attesa dell’arrivo del nuovo compratore». È intrigato dal viaggio a Londra progettato a bordo del Mauretania, il più moderno transatlantico della Cunard-White Star, varato nel 1938, che aveva ripreso il nome dal primo, leggendario Mauretania che aveva collegato Gran Bretagna e Stati Uniti sin dal 1906. Partirà il 12 aprile 1955. A bordo lo raggiungerà il cablogramma che gli annunciava che la MWA (Mystery Writers of America) l’aveva insignito del prestigioso premio Edgar, in pratica l’Oscar del giallo.
Raymond Chandler Superstar
Dal momento del suo sbarco a Southampton, sette giorni più tardi, Chandler si cala nel nuovo ruolo di scrittore superstar («In Inghilterra mi considerano un “autore”. Negli Stati Uniti sono solo uno scrittore di gialli»), consolidando altresì la sua vena di gran bevitore e quella, per dirla con Andrea Camilleri, di gran “femminaro”. La sua nuova vita si annunciò con un neanche tanto criptico telegramma, inviato dalla sua più che elegante cabina di prima classe (che sul Mauretania veniva indicata come “Cabin Class”), a Roger Machell che avrebbe dovuto andare ad accoglierlo a Southampton: «Don’t meet. Have woman with much luggage» (in pratica gli diceva “Non ti scomodare di venire a prendermi. Sono occupato con una signora che viaggia con molto bagaglio”). La signora in questione era la passeggera Jessica Tyndell, quarantenne, alto funzionario della banca d’affari irlandese Guinness Mahon.
In Inghilterra, la pubblicazione di Il lungo sonno aveva fatto di Chandler una star la cui fama e visibilità era paragonabile a quella di un divo del cinema. Le richieste di interviste, a cui lui non era abituato, si sprecavano, sue foto apparivano così spesso sulle pagine dei giornali che finì per essere regolarmente riconosciuto ovunque andasse. Se dapprima tutte queste attenzioni gli apparivano “esotiche”, cinque giorni dopo il suo arrivo a Londra prese a lamentarsene con il suo editore americano: «I am not happy. The racket here is just too intense» (Il clamore, qui intorno, è insopportabile, non mi piace per niente).
Il cocco degli intellettuali britannici
Chandler era sceso al Connaught, a Mayfair, l’albergo a così tante stelle che poteva vantare ospiti illustri come “Bertie”, il figlio della Regina Vittoria, Principe di Galles e futuro re Edoardo VII, come il Generale de Gaulle quando attraversava la Manica o, ancora, come Cary Grant, uno degli attori preferiti da Chandler che lo avrebbe voluto veder recitare nella parte di Philip Marlowe, ma non fu mai accontentato, e a Hollywood mal gliene incolse. A parte la scelta azzeccata di Humphrey Bogart in Il grande sonno, diretto da Howard Hawks, in seguito, per la parte del detective, sarebbero stati scelti attori sbagliati come James Garner e Robert Mitchum o, peggio, il pessimo Elliot Gould diretto da un altrettanto pessimo Robert Altman in vena di arie da intellettuale europeo, che con la stampa si vantava, quasi orgogliosamente, di non aver nemmeno finito di leggere il romanzo. Ma il cinema non fa per lui. «Chandler si considera uno scrittore», notava sul Corriere della Sera il critico Ranieri Polese. «Pensa in termini di pagine, di parole, di frasi da lavorare fino alla perfezione».
Al Connaught, Chandler fece conoscenza con Ian Fleming che restò colpito dalla gentilezza del collega scrittore, dai complimenti fatti a 007 e al suo Casinò Royale, pubblicato lo stesso anno di Il lungo addio, e dal fatto che Chandler non parlasse d’altro se non della perdita della moglie, «in modo così disarmante da mettermi in imbarazzo e, allo stesso tempo, rendendomelo estremamente amabile. Mi mostrò una foto di lei: una signora attraente seduta all’aperto».
La crème della società londinese faceva a gara per organizzare delle serate dove Chandler sarebbe stato l’ospite d’onore, ma il fatto era che quando alzava troppo il gomito diventava taciturno, scontroso e soprattutto confuso. Pare aver apprezzato molto il party organizzato dalla moglie di George Orwell, Sonia, che lo aveva incantato dicendogli che era “the darling of British intellectuals”, il cocco degli intellettuali britannici, che poeti e scrittori “deliravano” per lui, e che persino la “divina” poetessa Edith Sitwell, membro di spicco del gruppo di Bloomsbury, sacerdotessa del modernismo, leggeva i suoi romanzi con passione, rigorosamente seduta a letto.
Ben presto si sparse la voce che Chandler teneva corte nei vari ristoranti del West End, coinvolgendo non solo i propri ospiti, ma anche gli ignari avventori dei tavoli vicini. L’avvocato londinese Michael Gilbert racconta di una colazione a Le Jardin des Gourmets, a Soho, durante la quale Chandler, con l’aiuto di bicchieri, saliere e quant’altro avesse sotto mano, si mise a illustrare in dettaglio come Marlowe si sarebbe liberato di due assalitori. Alla fine della dimostrazione, ricorda Gilbert, tutti i camerieri del ristorante erano intorno al loro tavolo a occhi sbarrati, trattenendo il respiro.
Lady Natasha e lo “shuttle service”
Chiunque Chandler incontrasse dava per scontato che i suoi momenti di grande depressione e i demoni dell’alcol fossero conseguenza della recente scomparsa della moglie e di quella, concomitante, dell’amato gatto. Fu così che Lady Natasha Spender, pianista, scrittrice, componente di spicco del circolo letterario che comprendeva vati del calibro di W.H. Auden, T.S. Eliot, Isaiah Berlin, decise di organizzargli, a rotazione, quello che chiamò uno “shuttle service”, ossia una serie di impegni sociali informali, con la presenza a turno di più amici, in cui, di volta in volta, una diversa signora non solo lo avrebbe intrattenuto socialmente, ma che si sarebbe tenuta disponibile per rispondere alle sue eventuali telefonate ventiquattro ore su ventiquattro. «Il telefono ha un che di impellente», filosofeggiava Marlowe in Il lungo addio. «L’uomo iperaccessoriato della nostra epoca lo ama, lo detesta e ne ha timore, ma lo tratta sempre con rispetto, anche in stato di ebbrezza. Il telefono è un feticcio».
Chandler apprezzò molto l’iniziativa finendo però per innamorarsi di tutte le signore dello “shuttle service”, così come di qualsiasi altra donna incontrasse sulla sua strada. Meglio se bionda, come quelle descritte in Il lungo addio: «Ci sono bionde e bionde. Tutte le bionde hanno i loro pregi, tranne forse le platinate, che sono bionde come uno zulu in candeggina. C’è la biondina graziosa che trilla e cinguetta, e c’è la biondona statuaria che ti tiene a distanza con un’occhiataccia azzurro ghiaccio. C’è la bionda che ti guarda dall’alto in basso e ha un buon profumo ed è uno splendore e ti tiene sottobraccio ed è sempre tanto, tanto stanca quando la riaccompagni a casa. C’è la bionda tenera e disponibile e alcolizzata che non bada a quello che indossa, purché sia di visone. O a dove si va, purché ci sia tanto champagne. C’è la biondina briosa, che è un po’ maschiaccio e vuole pagare per sé. C’è la bionda pallida, pallidissima, con un’anemia di un tipo non fatale ma incurabile: è languida e ombrosa e parla con una voce morbida che non si sa da dove esca. Per finire c’è la sontuosa bionda da esposizione che sopravvive a tre boss della malavita e poi sposa un paio di milionari per un milione a testa e va ad abitare in una villa rosa pallido a Cap d’Antibes».
Dal Connaught al Ritz a Belgravia
L’eccessivo uso di alcol (di “veri” Gimlet, metà gin e metà succo di limone marca Rose’s che battono il Martini a mani basse, come era solito spiegare Chandler alla sua claque adorante), le relative intemperanze, le signore che lo visitavano in camera finirono col farlo cacciare dal Connaught (l’episodio è descritto nel racconto Do You Terribly Mind Being Seduced?). Lui non fece una piega e si trasferì al Ritz, a Piccadilly, mentre lo scrittore Eric Ambler lo iscrisse, come proprio ospite, al Garrick Club, uno dei più vecchi gentlemen’s club al mondo, che aveva visto passare in quelle sale ovattate scrittori come Charles Dickens, H.G. Wells, J.M. Barrie, A.A. Milne. E ora lui, un esponente di spicco della “scuola dei duri”. Chi l’avrebbe mai detto.
L’interesse della stampa londinese per lo scrittore americano dall’accento inglese sembrava senza fine. I giornalisti, abituati all’austera riservatezza degli autori in stile Bloomsbury, erano entusiasti dalle risposte non preconfezionate e fuori dagli schemi che Chandler offriva loro a seconda di come gli “girasse” in quel momento, dal fatto che, per tutto il tempo dell’intervista lo scrittore bevesse whisky come fosse acqua, continuamente interrotto da cacciatori di autografi. Un articolo del Daily Mirror strillava: “I soldi servono solo per uscire con donne attraenti, dice il maestro del mistero”, sottotitolo: “Lusso, Bellezza e Whisky”.
Dal Ritz, stanco della vita d’albergo, Chandler passò a un appartamento in affitto nell’esclusivo quartiere di Belgravia, al 116 di Eaton Square, una delle più belle residenze georgiane della città, a un centinaio di metri dall’abitazione di Ian Fleming, e dell’agente letteraria Helga Green che lo prenderà come cliente, e non solo. In quel periodo Chandler si sforzerà di restare sobrio il più possibile dopo che ben tre differenti medici gli avevano fatto presente che tutti i suoi guai di salute, soprattutto il suo colorito giallognolo, erano dovuti a un preoccupante eccesso di alcol. Lui stesso se ne rendeva perfettamente conto. In una lettera all’amico William Townend, confessò che «dal momento che ho messo piede in Inghilterra non c’è stato giorno che sia stato sobrio». E come dice il suo personaggio-alter ego, lo scrittore Roger Wade in Il lungo addio, tutto sommato «è veramente faticoso rimettersi da una sbronza di quattro giorni».
Epilogo
Nell’autunno del 1955, con il visto di soggiorno in scadenza, e per evitare che, a causa della sua lunga permanenza, scattasse la clausola fiscale che lo avrebbe obbligato a dichiarare i redditi anche in Gran Bretagna, Chandler prenotò il viaggio di ritorno in America a bordo della Queen Elizabeth, affranto dall’idea di una traversata annaffiata solo da acqua e soda, e di condividere gli spazi esclusivi di prima classe con grassi uomini d’affari americani e pingui signore in vena di esibire ogni sera una pelliccia diversa. Annoterà al rientro: «La traversata è stata un inferno. Me ne sono sempre stato seduto in un angolo rifiutandomi di parlare, o di avere qualcosa a che fare con gli altri passeggeri: la cosa non è sembrata procurare loro nessun dispiacere».
In tutto quel tempo trascorso a Londra, Chandler non riuscirà mai a mettere mano al suo nuovo romanzo, Playback, come aveva ottimisticamente previsto di fare e come aveva scritto a un suo editor, Hardwick Moseley, prima di salpare, nel marzo del 1955: «Parto per l’Inghilterra. Ho con me metà libro già scritto e spero di finirlo lì. È ambientato a La Jolla e un giornalista locale ha già sparso la voce, e la cittadinanza è divisa esattamente in due partiti: mettermi alla gogna o più semplicemente abbattermi con un colpo di balestra. Sfortunatamente per tutti loro, la polizia locale è dalla mia parte».
Bibliografia essenziale, testi consultati
Frank MacShane, The Life of Raymond Chandler, Penguin, 1976;
Tom Hiney, Raymond Chandler. A Biography, Vintage, 1998;
The Raymond Chandler Papers: Selected Letters and Nonfiction, 1909-1959, edited by Tom Hiney and Frank MacShane, Grove Press / Atlantic Monthly Press, 2002;
Parola di Chandler, a cura di Dorothy Gardiner e Kathrine Sorley Walker, Milano Libri, 1976;
Fredric Jameson, Raymond Chandler. L’indagine della totalità, Cronopio, 2018;
John Paterson, A Cosmic View of the Private Eye, The Saturday Review, 1953;
Ed McBain, Philip Marlowe Is Back, and in Trouble, The New York Times, 1989;
Department of Special Collections, Collection 638. Chandler, Raymond, 1888-1959, Manuscripts, The Library University of California, Los Angeles.