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Fare insieme / Ritorno a scuola. Ogni volta, l'inizio di un mondo

17 Settembre 2018

Per moltissime persone di diverse età che vivono e lavorano a scuola il vero capodanno è a settembre. Settembre ritorna sempre con la sua portata di novità. A volte radicale, come un cambio di ciclo scolastico o di sede di lavoro; a volte meno intensa, ma comunque con un anno in più sulle spalle – visto dalla parte dell'adulto – e una nuova stagione di vita che si dischiude – visto dal lato studente.

 

Ho iniziato a insegnare, ventisettenne e fresco di preparazione, nel 2001. Per essere più precisi il mio primo giorno di scuola è stato il 12 settembre 2001. Ricordo la camicia stirata e gli appunti per la Prima Grande Lezione di Filosofia, che provavo da tempo, e, come questa fosse diventata un'altra cosa, non senza sgomento, per quanto accaduto il giorno prima. Dopo aver visto crollare le torri (in televisione), da insegnante ho sentito il peso della ricerca delle parole per quello che avrei dovuto saper dire il giorno dopo e per quello che mi avrebbero chiesto. Qualcosa che aveva a che fare con la contestualizzazione dei fatti, ma anche con la catastrofe, nel suo significato etimologico di 'rivolgimento'. L'idea di futuro si faceva maceria e rovina proprio mentre iniziava la fase adulta e professionale della mia vita, collassata sull'illusione di un modo irenico e pacificato. 

 

Oggi le studentesse e gli studenti più giovani a cui insegno storia e filosofia sono nate proprio nel 2001. Non sono più il “giovane collega” pendolare: ho avuto un percorso molto fortunato, ho cambiato scuole e indirizzi, è migliorata la mia qualità della vita per indirizzo di studi, vicinanza con la residenza e sintonia con le attività e gli orientamenti dell'istituto di insegnamento. Banalmente, ho accumulato esperienza e professionalità.

Re-inizio quest'anno, dopo un periodo di distacco dalle lezioni frontali e di ricerca didattica, in una scuola nuova. Nuovi i luoghi, il curriculum di studi, i colleghi, gli studenti, le pratiche da imparare. Cominciare a insegnare significa riunioni di programmazione, password diverse, scrutini di riparazione, procedure burocratiche di vario ordine. Ogni scuola è un'istituzione – leggi, regole, processi, persone, relazioni, scambi – di estrema complessità che ha bisogno di estrema sensibilità, stretto coordinamento e manutenzione continua.

Anche per questo rileggo una serie di interventi pensata per chi inizia a insegnare e che può essere di interesse per altri.

 

Ph Steve McCurry.


Fare questo lavoro, e continuare a farlo, significa provare una certa felicità nell'insegnare a qualcuno più giovane le cose che piacciono e che si conoscono bene, perché le hai amate e le ami. Perché rientrano in un'idea di trasmissione intergenerazionale dei saperi e di una visione generale del mondo e della cultura. Perché hanno a che fare con l'idea di futuro e di felicità pubblica. Perché lo hai scelto e perché ti è stato dato di poterlo fare. Il che, va detto, per molti non è possibile da tempo per questioni che hanno a che fare con arruolamento, età media del corpo docente, disinvestimento generale sull'istruzione e sulla cultura. Continuano a essere tante e troppe le mancanza di una politica dell'istruzione degna di questo nome e capace di venire incontro ai bisogni della popolazione scolastica nel suo insieme (studenti, docenti, genitori, lavoratori della scuola).

 

Ma non è di questo, del nuovo ministero e dei primi rumors (esame di stato, alternanza scuola lavoro, etc) che voglio scrivere. Mi interessa la tonalità affettiva con cui ho iniziato la scuola, trovando al mio rientro un microcosmo di persone che non coincide in alcun modo con la realtà degradata, rancorosa e violenta che leggo nella descrizione della realtà sociale che la mediasfera e la mia filter-bubble digitale mi ripropone costantemente.

Non intendo essere così naif da ignorare o minimizzare una situazione generale di crisi sistemica, ma la questione è molto diversa e più complessa di quanto non appaia nella sua rappresentazione mediatica, come ho sostenuto spesso su queste pagine (ad esempio qui).

 

Voglio però raccogliere le parole recenti del maestro Franco Lorenzoni: chiunque insegni dovrà prepararsi innanzitutto a ripensare profondamente il senso del suo lavoro a fronte di esigenze urgenti e non derogabili che riguardano la sfera politica e sociale e il ruolo che la scuola ha nella costruzione della cittadinanza.

 

Per farlo si tratterà di porre molta attenzione a temi e contenuti, pratiche e azioni concrete della nostra attività quotidiana, prima fra tutti il contrasto agli abbandoni, alla dispersione e all'infelicità diffusa tra gli studenti. Senza dimenticare quanto conti in tutto questo la nostra felicità e il significato che diamo al nostro insegnare in questo momento di profonda crisi della democrazia rappresentativa e della fiducia verso le istituzioni e tra le persone.

Leggi qui l'articolo.

 

Mentre scrivo queste parole ascolto Radio3 e sento le testimonianze di bambine e bambini che ottanta anni fa le leggi razziste fasciste hanno espulso da scuola. È un tema doloroso al centro dell'agenda pubblica delle realtà con cui lavoro, in primis la scuola; molte scuole stanno reagendo scavando nei propri archivi per farne attività didattica, per ricordare i propri studenti e docenti di allora, vittime di una ingiustizia burocratica che colpisce dove fa più male, con l'esclusione dal proprio contesto e con la persecuzione dei diritti. L'anticamera della persecuzione della vite e della violenza fisica

 

Come insegnante della scuola italiana e studioso di storia contemporanea penso che occuparsi del passato significhi avere più strumenti per comprendere i nodi del presente e fornire strumenti per provare a scioglierli. Ricordare la vergogna delle leggi razziali fasciste del 1938 significa affrontare la violenza del discorso razzista, colonialista, patriarcale e vederne il funzionamento e l'uso dentro la società totalitaria, imperiale e bellicista di allora; significa allo stesso tempo avere più strumenti per comprendere i razzismi e le forme di esclusione di oggi. Per  problematizzare la nozione di “identità”, il mito del XXI secolo, e contrastare  culturalmente i suoi effetti tossici. Per insegnare il rapporto e confronto con la diversità, ogni forma di diversità, senza che questa si percepita come alterità estranea. Per promuovere l'idea, così poco diffusa, che ognuno è quello che è in relazione a quello che i suoi altri sono.

Inizio il nuovo anno trovandomi vicino a chi è nato quando ho insegnato a insegnare. Vorrei potessimo sentire mormorare le voci flebili che arrivano dal passato e che questo ci sia guida per qualcosa che faremo insieme nel presente.

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