Roma, Largo Spartaco / Paesi e città
Largo Spartaco, e il territorio che si sviluppa attorno, tra il lungo nastro della via Tuscolana e quello della via Appia, tra il Quadraro e Cinecittà, è un nodo di memorie. Lo rivedo in una domenica d’inizio febbraio dall’aria tersa che mette in risalto le geometrie e i volumi degli edifici dell’Ina-Casa, a partire da quello degli architetti Muratori e De Renzi che sovrasta il Largo. Appaiono davvero come gli “altari della gloria popolare”, di cui parla Pierpaolo Pasolini in una poesia del 1975: Vengono Mamma Roma e suo figlio, verso la casa nuova, tra ventagli di case, là dove il sole posa ali arcaiche: che sfondi, faccia pure di questi corpi in moto statue di legno, figure masaccesche deteriorate, con guance bianche bianche, e occhiaie nere opache – occhiaie dei tempi delle primule, delle ciliegie, delle prime invasioni barbariche negli ‘ardenti solicelli italici’.
Fra il 1961 e il 1962, subito dopo Accattone, la cui vicenda si sviluppava tra la via Casilina e la Prenestina, al Pigneto, Pasolini ha girato a Largo Spartaco una parte significativa di Mamma Roma. Il sogno di una vita nuova dell’ex-prostituta interpretata da Anna Magnani e del figlio Ettore parte di qui. Poi degrada in tragedia. La “nuova casa” era in questo lungo palazzo, che raccoglie, come un emblema, l’ultimo scuotimento della progettazione urbanistica della città, il residuo impeto di un’utopia del buon abitare. Farà seguito la replica speculativa, devastante, mortifera, della via Tuscolana e del reticolo di vie che vi confluiscono. Un’autentica agonia dello spazio urbano. La città sembra soffocare prima di distendersi un po’ nei più larghi spazi di Cinecittà, almeno la Cinecittà storica, quella fascista edificata nel ’37, gli stabilimenti cinematografici, l’Istituto Luce, il Centro Sperimentale. La sua monumentalità prevedeva orizzonti più ampi, sguardi più lunghi. Nel giro di un ventennio, ma l’apice drammatico è negli anni cinquanta e sessanta, il vuoto della campagna romana, che qui si dilatava, da un lato, fino ai Castelli e, dall’altro, verso il mare, viene riempito, mentre gli spazi si restringono al minimo vitale. Tra via Valerio Corvo e via Stilicone, sull’altro versante della Tuscolana e il quartiere Don Bosco, manca il respiro, l’immaginazione fa collasso.
Nella sua quiete domenicale Largo Spartaco è una nicchia: panni colorati sono stesi al sole come un’inusitata variazione rispetto al fondo rosato dei mattoncini; un ragazzo sui pattini scivola leggero sul marciapiede in una danza silenziosa e solitaria; anche la disposizione delle auto in sosta sembra ispirata a un suo ordine, ed è cosa assai rara a Roma; qualche vecchio, tutt’altro che “masaccesco”, fende lo specchio del Largo, ma non è diretto al Centro Anziani, che qui è molto attivo e la domenica fa riposo. Semplicemente passeggia, e, parrebbe, senza fretta. Passeggia guardandosi attorno con un certo agio, con una posa apparentemente riflessiva. Pare il centro di un paese, piuttosto che un lato della città di Roma. Collocato più in alto rispetto all’asse della via Tuscolana, il Largo non si disturba neppure a contemplare i suoi sfregi.
Fino a quarant’anni fa qui c’era una frontiera. Da questa parte la città, oltre uno spazio selvaggio, indocile. Appena dietro la linea del palazzo di Muratori e De Renzi, verso l’Appia, dove oggi si estende il Parco degli Acquedotti, con i suoi archi slanciati, fino agli inizi degli anni Settanta si allargava, proprio fra gli archi e tutt’attorno, una delle baraccopoli più ampie di Roma. Un disagio tenuto nascosto sotto il tappeto della città per decenni. Ed è quantomeno curioso che la più limpida utopia della “casa popolare”, quella di Libera, Muratori, De Renzi, la misura del suo spazio geometricamente ordinato, siano così a lungo convissute con l’agglomerato indistinto e ribollente delle baracche. Due mondi, a poche centinaia di metri l’uno dall’altro. In mezzo un invalicabile spartiacque, una barriera sociale e temporale, che molti, da un certo in poi, quando il tempo si è fatto più esigente, hanno preso il gusto di valicare. Allora le baracche dell’Acquedotto Felice (nome che in un luogo come questo suona come una vendetta) sono diventate una palestra di vita civile. Qui sorgeva la “Scuola 725” (dal numero della baracca che la ospitava) di don Roberto Sandrelli, un prete coraggioso che, sfidando l’autorità della Chiesa, viveva in mezzo ai baraccati condividendone la precarietà. La “725” seguiva le tracce della Scuola di Barbiana di don Milani e ha dato senso alle vite di molti bambini e ragazzi chiuse fra gli archi dell’Acquedotto.
Un nodo di memorie, un intreccio di sequenze temporali assai diverse fra di loro, una sorta di bricolage di storie ed esperienze vissute. Forse Roma è poi questo, e forse ogni città lo è.
Poco più in là rispetto al Largo Spartaco, verso San Giovanni e il centro storico, c’è un vecchio insediamento abitativo. Villette modeste, piccoli giardini, qualche orto per il consumo familiare, strade strette, e un certo degrado difficile da fronteggiare. Il Quadraro si è formato nel primo ventennio del Novecento, con l’arrivo degli immigrati – vecchia storia – del nostro Sud, ma non soltanto, che speravano di trovar lavoro nella nuova edilizia. Al Quadraro il 17 aprile del 1944 i nazisti ordinarono un rastrellamento di 1000 uomini, poi deportati come “schiavi” nei campi di lavoro tedeschi. Una ferita profonda nella memoria del quartiere. Ma una ferita che si sta chiudendo, mentre via via, nell’incalzare del tempo, si spengono le voci di chi ne ha tenuto in vita il racconto.
Se le voci si spengono, ed è fatale che accada, deperisce anche il senso degli spazi che abitiamo. Diventano in conoscibili, indecifrabili, oscuri. Questo probabilmente era il manto di quiete che avvolgeva Largo Spartaco nella limpida domenica di inizio febbraio in cui lo ho attraversato. Era silenzio. Delle voci e dei racconti.