Speciale

Speciale ’77. Il passo del Gorilla

20 Marzo 2012

Lunghe discussioni in venti, in una stretta stanza d’albergo, fino alle tre del mattino. Teatro in bar minuscoli o in grigie palestre scolastiche. Incontri nelle case, davanti a un bicchiere di vino. Scalate a montagne con violini, flauti, bandiere e un gigante dall’abito azzurro svolazzante, il Gorilla Quadrùmano.

 

 

Era il 1974. Un anno abbastanza lontano ormai dal 1968 e vicino al 1977. Le città erano state percorse da cortei e lo sarebbero state ancora, fino agli omicidi delle Brigate Rosse, fino al rapimento di Aldo Moro e all’uccisione della sua scorta, il pieno degli anni di piombo, l’inizio del “riflusso”. A quei tempi la politica guidava le nostre vite di studenti universitari: una “politica” che provava a fuggire dalla burocrazia e sognava e tentava di realizzare parole come partecipazione, comunicazione, gestione dal basso. In quei mesi l’Italia introdusse, con un vittorioso referendum, il divorzio; di lì a poco la sinistra sarebbe andata al governo nelle più importanti città italiane e si sarebbero aperti nuovi scenari di speranza e anche nuovi conflitti, nuove ferite sanguinose.

 

 

Al Dams di Bologna, il primo corso di laurea dove si studiavano arti, musica e spettacolo, sotto la guida di Giuliano Scabia una ventina di studenti con interessi diversi si ritrovò a lavorare a una ricerca sulla cultura dei padri e dei nonni, iniziata con la messa in scena di commedie che si rappresentavano a fine Ottocento nelle stalle della bassa reggiana, Il Gorilla Quadrumàno e Il brigante Musolino. Un esperimento che iniziò come gioco dentro una vecchia favola e come indagine sulle mitologie del brigante per ingiustizia subìta e che si trasformò presto in interrogazione sulle radici della contemporaneità, sulla produzione di cultura dal basso e sui modi della socialità in età pre-industriale, sulle possibilità di diversa comunicazione nel presente. Alle spalle c’era un’idea che circolava molto in quegli anni, del teatro come ricerca continua capace di ribaltare i ruoli, come espressione del vissuto attraverso maschere, come gioco e avventura, scoperta, partecipazione, festa. Andavamo in cerca dei reperti della cultura popolare sopravvissuti all’omologazione del boom economico, alla perdita di memoria della prima società dei consumi e della televisione, per vedere quanto erano vivi ancora e quali strade potevano indicare per nuovi rapporti, in cui l’individuo non fosse solo un esecutore ma un protagonista di processi creativi, con i suoi bisogni, i suoi sogni.

 

 

Con un grande gorilla di gommapiuma e un gigante di polistirolo effigiante il brigante Musolino, con bandiere multicolori, musica e pupazzi percorremmo paesini di montagna e periferie industriali in cerca di racconti, di persone che erano state protagoniste di intense storie politiche, civili e culturali in territori lontani dalle grandi città o ai loro margini, per “inventare insieme le nostre storie vere di oggi e di domani”, come recitava un verso del cantastorie del Gorilla, un telone dipinto dove si illustrava la nascita del magico animale dei boschi, acculturato nelle corti, capace con l’astuzia di fuggire per tornare nelle sue foreste, senza dimenticare i benefici ricevuti da chi lo aveva aiutato durante la schiavitù. Era una favola semplice, scritta in versi a volte malfermi, in italiano e in dialetto.

 

 

Fu il “pre-testo” di un viaggio teatrale proposto da Scabia, al quale ci affidammo all’inizio con sentimenti contrastanti, la curiosità per il gioco, la diffidenza per quella commedia naif, pre-industriale, quando allora gli scontri ci sembrano essere tutti nelle metropoli e nelle fabbriche. Lo scoprimmo come testo rivelatore, test, come aveva scritto in altre occasioni Scabia per commedie usate per scandagliare l’immaginario di varie comunità, non trame di azioni concluse una volta per tutte, ma tracce per mettere alla prova l’individuo, la socialità e le crisi che attraversavano.

Quella commedia e successivamente l’altra del Brigante Musolino e varie azioni progettate all’interno dell’università e subito proiettate fuori dalle sue mura rassicuranti, in ambienti diversi, divennero il viatico per un teatro esploso, non contenuto su un palcoscenico ma dilatato a azione di lunga durata, nel tempo, nello spazio, negli incontri.

 

 

La prima uscita avvenne in un tour di dieci giorni in piccoli paesini del’alto Appennino reggiano, un palcoscenico di 2500 chilometri quadrati, come scrivemmo nel libro collettivo che narrava l’esperienza, in un continuum in cui recitazione, ricerca antropologica, incontro umano, animazione culturale, presa di coscienza di sé, scoperta, studio, azione politica si connettevano in modo inestricabile.

Quelli erano anni in cui il teatro provava a riscoprire le tradizioni popolari e dilagava nelle strade, esaltando la sua natura di comunicazione diretta, rinunciando, a volte, alle proprie sottigliezze e raffinatezze per arrivare in molti luoghi, per riaprire la discussione attraverso la presenza, l’atto semplice che credeva di dimostrare come la cultura potesse fare a meno di grandi apparati.

 

 

Il gesto del Gorilla si situò in quel movimento, con una grazia poetica peculiare, che consisteva nel privilegiare all’esibizione l’ascolto, delle persone incontrate, di luoghi e condizioni diverse, per interrogare a fondo noi stessi che facevamo le domande, per provare a diventare re e regine saggi (o gorilla) da principini pasticcioni (o studenti chiusi nelle gabbie dell’astrazione) che eravamo (come raccontava la favola), con un pensiero al Gorilla che, invece di rimanere a corte come potente consigliere del giovane Ferdinandino divenuto sovrano, preferisce tornare nel bosco, a governare le fiere.

Attenzione al bosco esterno, alle sue mille specie, e a quello interiore, che si correva il rischio di dimenticare ogni giorno tra impegni universitari, assemblee politiche, progetti per cambiare il mondo.

 

 

La virtù principale del Gorilla fu portarci a “studiare” fuori dall’università, in una montagna spopolata dal boom economico, in un territorio rapinato, dove chi rimaneva era in grado solo di rievocare con nostalgia o di sognare la fuga verso la città; oppure in periferie industriali sempre più estese, in antichi territori contadini che si trasformavano in hinterland della megalopoli diffusa. Scabia lo scrisse, sempre in quell’impudente libretto Feltrinelli della fine del 1974, picaresco come la Vita di Scaramouche di Angelo Costantini, con lo sguardo rivolto anche al trionfo della monocultura profetizzato nei Tristi tropici di Levi Strauss e alle peregrinazioni formative del Wilhelm Meister di Goethe: itinerario di conoscenza verso l’interno di sé e verso mondo.

 

 

Durò due anni quel viaggio, al suono della grancassa e del flauto, con stendardi, manifesti disegnati dai bambini delle scuole in cui andavamo a annunciare l’arrivo del Gorilla, incontri, spettacoli in ogni luogo, perfino davanti al futuro presidente della Repubblica Francese François Mitterand al festival di Nancy, sempre sotto l’ala dei nostri totem giganti, proiezioni dell’immaginario che sfidavano il grigio uniforme dei quartieri industriali e la bellezza abbandonata della campagna, le zolle dove fu catturato il brigante Musolino a Acqualagna, nelle Marche, e il manicomio criminale dove fu rinchiuso, a Reggio Calabria, nel settembre del 1974 in basagliana trasformazione.

 

 

Non eravamo attori. Nessuno di noi avrebbe fatto quel mestiere professionalmente, ma allora non lo sapevamo. A qualcuno sarebbe piaciuto; ma in fondo non ci saremmo mai adattati alla routine e alla disciplina della scena, con quei presupposti. Scabia ci aveva insegnato che il teatro andava dilatato, doveva essere una domanda aperta, una sonda, un processo continuo, un intrecciare socialità. Il teatro che sognavamo non nasceva nell’istituzione teatrale: era una richiesta di diversi rapporti, di altre profondità culturali e conoscitive. Utopia, di quegli anni, illusione, assemblearismo o semplicemente un altro metodo di studiare all’università, allargandosi all’ambiente intorno e alle sue (e nostre) contraddizioni?

 

 

Scabia era un incantatore. Trasportava, noi studenti, in un altro mondo, costringendoci a fare, sospendendo il nostro modo di essere, la formazione ideologica, le sicurezze, la fiducia e la difesa nel logos. Ci costringeva a impiastricciarci con la cartapesta, a faticare per tirare fuori ricordi a un vecchio, a sgambare per salite e discese chiedendo: cosa ricordate della cultura di un tempo, davanti a usci che a volte si chiudevano, a volte rivelavano mondi sorprendenti (come un poema in ottava rima sulla Resistenza nell’alta valle del Secchia, scritto da un merciaio ambulante di Vaglie, frazioncina di Ligonchio). Ci stimolava a esercizi di precisione e di apertura. Ci faceva vivere in gruppo, a volte portandoci a dimenticare cosa eravamo singolarmente.

 

 

Avremmo poi dovuto faticare, quando dopo non molto il gruppo-madre si sciolse, per ritrovare una strada individuale, per liberarci dall’aria protettiva che in quegli anni si cercava in vari modi. Non ci aveva formato in un modo preciso, professionale, quell’esperienza. Per seguirla avevamo abbandonato a volte lo studio degli altri esami, usando il Gorilla per sostituire vari programmi universitari (all’epoca si poteva). Ci aveva reso aeree anime belle e a qualcuno, dopo, sembrò così di aver sprecato gli anni della formazione. Poi ci saremmo divisi in fazioni, come spesso avviene a chi ha intrapreso un cammino comune molto forte, e poi persi di vista. Alcuni concetti su cui avevamo lavorato (non solo noi), le radici, la riscoperta della comunità, del corpo, del dialetto, della microrelazione sociale, sarebbero poi stati recuperati e stravolti dalla destra più retriva e xenofoba.

 

 

Certo è che quell’incanto, la necessità di cantare insieme, di ascoltare, di andare indietro per saltare avanti da qualche parte sono germinati e, almeno a chi scrive, il teatro non è più sembrato mai lo stesso (e così molte altre cose). Mai una scatola con regole fisse che si può solo guardare: piuttosto una voce, uno stimolo, un impulso per mettere in moto le gambe e attraverso quelle il corpo e il cervello. E andare. Perché quello che si può scoprire è sempre più di ciò che ci aspettiamo.

 

 

(Le fotografie delle avventure del Gorilla Quadrùmano sono di Enrico Scuro).

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