Roberto Andò / Thomas Bernhard, Piazza degli eroi
Il teatro oggi si vede solo su schermi, ed è una tragedia. L’ha detto Romeo Castellucci (qui, per esempio) e lo ripetono in molti: manca quella esperienza unica che è il respiro di un palco e di una platea dal vivo. Ma in assenza di altro l’opera ben girata, con un’idea televisiva, può suscitare emozioni e aiutare a rivelare il testo, specie se questo non è mai stato rappresentato. È avvenuto per una mirabile, emozionante edizione dell’ultima pièce di Thomas Bernhard, Heldenplatz, in traduzione italiana Piazza degli eroi, che speriamo di vedere presto anche in palcoscenico.
È stato allestito dal Teatro di Napoli con la regia di Roberto Andò e trasmesso in versione televisiva firmata da Barbara Napolitano il 23 gennaio su Rai5, nell’ambito delle manifestazioni per il Giorno della memoria. E ci è sembrato un modo particolarmente efficace di celebrare questa ricorrenza, perché il testo non parla solo di nazismo storico, ma soprattutto di xenofobia, antisemitismo, razzismo risorgente, di nazionalsocialismo che si insinua nelle società democratiche attraverso la mentalità cattolica confessionale più retrograda, quella piccoloborghese, populista e socialista, di un socialismo affaristico attento solo al benessere particulare. Insomma Piazza degli eroi, pubblicato nel 1988 e rappresentato tra le polemiche nel mese di novembre di quell’anno al Burgtheater di Vienna, assediato da ‘patrioti’ che accusavano l’autore di essere antinazionale, ritrae non tanto e non solo la capitale austriaca che accolse Hitler con l’annessione (Anschluss) del marzo 1938 e non ricorda solo il comizio del Führer in quella piazza centrale di Vienna. Sottolinea piuttosto i nuovi venti che stavano spirando nel paese alpino in quella fine anni ottanta grazie al partito nazionalista, xenofobo di Jörg Haider, Alleanza per il Futuro dell’Austria, incunabulo, con la Lega Padana di Umberto Bossi, di tutti i populismi che negli anni successivi hanno marchiato di paura, discriminazione e infamia l’Europa.
D’altra parte più passano gli anni più il complesso dell’opera, narrativa, teatrale, saggistica, di Bernhard appare come incisa a scavare i traumi del novecento, e quindi quelli da noi ereditati (leggi su “doppiozero” Thomas Bernhard. Una diffamazione). Proprio di recente, della sua immensa produzione, composta in meno di sessanta anni, ogni tanto viene tradotto un inedito in italiano: ultimamente Crocetti ha pubblicato la giovanile raccolta di poesie Sulla terra e all’inferno, grido contro la bolla della poesia naturale, arcadica del nonno nel quale era cresciuto, contro la distruzione di un paesaggio e di una civiltà; le edizioni Portatori d’acqua hanno mandato in libreria Una conversazione notturna, intervista con il critico Peter Hamm del 1977, dove discute in modo spesso provocatorio di autobiografia, di amore per Artaud e per il suo metodo ‘decostruzionista’, di giustizia ingiusta e oppressiva, braccio del potere, di forma e contenuto, di narrativa, di compassione, di teatro come baraccone per marionette, di morte e solitudine.
Piazza degli eroi, testo estremo del veggente autore austriaco, che sarebbe morto il 12 febbraio 1989, era stato pubblicato in Italia da Garzanti nel 1992 nella traduzione di Rolando Zorzi, ma mai portato in scena nel nostro Paese (e neppure ripubblicato). Viene ora riproposto nella nuova smagliante versione di Roberto Menin, e subisce di fatto un destino simile, a causa dell’emergenza sanitaria: avrebbe dovuto debuttare in dicembre al teatro Mercadante di Napoli, ma per il momento si è visto solo in televisione.
Su “doppiozero” ho ampiamente raccontato il dramma in un articolo uscito in una serie dedicata ai fascismi risorgenti (leggilo qui), e il pezzo sarà ripubblicato in febbraio in un e-book contenente una parte degli articoli da me scritti per la rivista online. Qui mi concentro sullo spettacolo televisivo che, come sempre avviene nella messa in scena di un testo, aggiunge qualcosa, idee, volti, suoni, colori, sensi, che sulla pagina erano contenuti in potenza.
La storia narra del professor Schuster, ebreo con un cognome che potremmo tradurre "Calzolaio". Si è suicidato perché ossessionato dalle voci che la moglie sentiva dalle grandi finestre sulla Heldenplatz, le urla della folla acclamante il discorso di Hitler del 1938. Sempre in Bernhard si gioca sulla trasposizione, sulla proiezione e spesso sull’assenza. Di Josef Schuster si parlerà tutta la pièce, ma lui, ossessionato dalle voci che ossessionavano la moglie, è assente, morto, ridotto a fantasma, per cui parlano prima le sue cose, abiti, scarpe, camicie, poi le figlie e il fratello Robert, infine la moglie, con il suo trasalire alle urla montanti. Perché Andò, con quel genio di Hubert Westkemper come creatore del suono, quelle grida odiosamente festanti le materializza, durante i primi due atti come brusio, suono bianco, stridore improvviso che sale di tanto in tanto, poi come marea montante, come flusso inarrestabile che invade la scena e travolge i personaggi.
La profonda regia legge nel testo un personaggio dominante per atto, come spesso nelle opere teatrali di Bernhard, che possono essere definite monologhi dialoganti. E li sviscera, li porta in primo piano, in questa ricerca per indizi del morto Josef e di una sua (im)possibile verità. Nel primo atto siamo nel guardaroba della casa che la famiglia, già prima del suicidio, si apprestava a lasciare per tornare in Inghilterra, lontano da quella Heldenplatz e dall’antisemitismo risorgente. Sono protagoniste la matura governante, Frau Zittel, dura, vestale della memoria del professore anche nei dettagli più banali, come il modo di stirare le camicie, e la giovane cameriera Herta, svagata, persa a guardare l’aria opaca oltre i finestroni da cui il professore ha spiccato il volo fatale. Andò fa calcare alla brava Imma Villa la recitazione: all’inizio sembra fuori dalle righe, poi a poco a poco capisci che qui siamo in camere della tortura, e che ogni volta c’è un carnefice, interno o esterno, qualcosa che rode, scava, ferisce, massacra. Così lei tortura Herta, come il professor Josef torturava lei, la persona a lui più vicina, torturandosi. Qui lo sperdimento di Herta (Valeria Luchetti) nel suicido del professore è martellato dalle parole della signora Zittel. Mentre sul davanti del guardaroba sono allineati (e lo rimarranno per tutto lo spettacolo) decine di paia di scarpe, una passione del professore, ma anche una metafora delle fughe cui è stato costretto. Un professore che riappare, oltre che come evanescente, invisibile fantasma in quegli occhi puntati fuori dalla finestra degli sguardi smarriti di Herta e nelle parole di Frau Zittel, nel pianista (Vincenzo Pasquariello), che suona Bach o Schubert o Chopin in proscenio, come stacchi tra le diverse parti, nel buio, e poi si alza, circola invisibile alle donne sul palcoscenico.
Nel secondo atto siamo su due panchine nel giardino in fondo alla Heldenplatz, verso il Burgtheater. Protagoniste sono prima le due figlie (Silvia Ajelli e Francesca Cutolo) del professore (una qualche giorno prima ha ricevuto sputi in faccia in quanto ebrea), poi il fratello di Schuster, professore di filosofia (Josef era matematico e filosofo), Robert, uno strepitoso, addolorato, rallentato Renato Carpentieri. Lui si è ritirato nella tenuta di campagna della famiglia, minacciata dal passaggio di una strada che corre il rischio di distruggere una piantagione di meli e di alterare irrimediabilmente il paesaggio, con una citazione, bellissima, del Giardino dei ciliegi di Čechov. Quanto Josef era ansioso, sempre in movimento, tanto Robert si appoggia a due bastoni, lento, ritirato in una vita intima, minacciata come l’altra, ma ferma, in attesa della morte.
Carpentieri dà corpo a un Robert simile, come lo immagina Bernhard, a un re Lear spodestato e rassegnato, e si fa tramite delle parole dure dell’autore, materializzandocele davanti, porgendole con lucidità epica che le trasforma in sassi, in uno sconsolato sguardo verso la morte, individuale e di un mondo, che ci fa pensare a come, mentre l’autore scriveva quelle parole contro una società in disfacimento sociale e politico, sentiva che la malattia respiratoria che lo affliggeva da anni lo stava consumando. Smarrimento esistenziale, che rende più duro ancora quello politico, il ritrarsi da un mondo che sta distruggendo tutto, i valori, i sentimenti, la stessa umanità. Un mondo che sembra un teatro impazzito, con migliaia di voci che gridano, in un paese teatro, dove idioti furiosi, sei milioni e mezzo, reclamano un capo. Impressionante. Ho parafrasato il testo, che a sua volta richiama uno dei punti più scuri di una delle tragedie più nere di Shakespeare, il finale del Macbeth. Ma tutta l’Europa è un palcoscenico in rovina. Nella nuova traduzione Menin, a un certo punto, usa la parola “sovranista”, avvicinandoci ancora di più questo testo che Carpentieri rende come vox clamantis in deserto, con ragionata follia e disgusto, sciamano impotente che guarda e vede oltre, spesso con gli occhi rivolti verso l’alto: non si può fuggire tutta la vita, anche rifugiandosi nella poesia e nella musica – ci ucciderebbero anche oggi se potessero, nelle camere a gas – tutto è capire qual è il momento giusto...
Gli alberi sospesi, che troneggiavano metaforici in aria con i loro fusti troncati nel secondo atto, ritornano fuori dalle finestre nel terzo e ultimo. Pranzo, in una casa ormai vuota. Arrivano a poco a poco altri personaggi, la commedia si avvia verso la conversazione, e ancora di teatro, e della sua inattualità, delle sue menzogne si parla (doppio, o triplo era l’atteggiamento di Bernhard nei confronti della scena: sempre in dubbio sulla verità, sulla realtà, e sulle possibilità di conoscerle e dirle).
Il centro dell’azione, questa volta, sarà la moglie di Herr Josef, Hedwig, detta Frau Professor, una magnetica, dolente Betti Pedrazzi, rinchiusa in un fazzoletto che le fascia la testa. Mentre le grida esterne salgono, le luci (belle, come le scene, entrambe di Gianni Carluccio), che prima si erano concentrate a disegnare un primo piano del professor Robert, sempre di più staglieranno lei in freddi quadri, muti. Le parole, sia quelle disincantate di Robert, sia quelle ansiose di lei, saranno dette in playback, come pensieri ingovernabili, cavalli selvaggi che attraversano mente e anima, paure che diventano sensazioni fisiche. Con le labbra serrate parla in luce ghiaccia, Frau Professor. Fino a che lo sciame selvatico delle urla, quelle dell’Anschluss e quelle amplificate del brontolio rombante del presente, non la schiacciano, in un urlo muto, sul piatto.
Il pianoforte suona, non ha mai smesso di essere un fantasma sonoro, che cerca di ridare consistenza poetica a un mondo livido.
Gli attori si sollevano e si dirigono a ringraziare la sala del teatro, vuota. Applaudono le ombre. Titoli di coda.
Le fotografie sono di Lia Pasqualino