Artpod / Tom Sachs, "The Choice (Ghetto – Sculpture Park)", 2001-2002
Certo, è un gioco, forse il più paradigmatico dei giochi, il circuito, ma i giochi sono degli esercizi mentali, il circuito è una circonvoluzione del cervello, l’immagine del percorso che fa il pensiero. Dunque tu giri e lungo il percorso incontri sorprese e ostacoli, imprevisti e probabilità. Se non c’è un obiettivo da raggiungere o una competizione tra diversi partecipanti, il percorso risulta chiuso su sé stesso e tu sei sua preda, non puoi far altro che continuare a girare, in loop. Il circuito diventa allora il luogo e il simbolo della ripetizione senza differenza, della chiusura autoreferenziale, del labirinto senza uscita, della simulazione senza resto. Erano, questi, i temi del dibattito non solo artistico del periodo in cui Tom Sachs ha iniziato, gli anni ’80, anni del postmodernismo, della Picture Generation, dell’appropriazione, dell’arte come doppio. Lui però ha esordito nel decennio seguente e questo naturalmente cambia le cose, non solo perché sono cambiate le condizioni storiche ma anche perché chi viene dopo vuole sempre direttamente o indirettamente rispondere diversamente da chi è venuto prima.
Ecco dunque The Choice (Ghetto – Sculpture Park), che è del 2000-2001, un’opera emblematica perché affronta direttamente quelle questioni. Il titolo è talmente singolare, inatteso, non descrittivo, che si dimostra subito rivelatore: la risposta è la “scelta”, ciò che rompe la ripetizione e la chiusura è la scelta. Ma in che senso? A quale scelta siamo di fronte?
Facciamo dunque il giro. Il percorso è lungo e composito, attraversa due paesaggi separati e diversi, evidentemente contrapposti, che saranno perciò le due opzioni della scelta; poi ha due raccordi simmetrici che presentano due curiose rotonde di cui non si comprende d’acchito l’utilità.
Uno dei paesaggi è una scena urbana che si scopre abbandonata e degradata: è il “ghetto”, una di quelle periferie di tante metropoli dove è relegata la popolazione più povera. Si guardino i dettagli: cassonetti, mobili e ogni sorta di oggetto sono rovesciati sul circuito, dicono sia l’incuranza sia la reazione di chi, come si suol dire, non sta al gioco, ma anche la sua impotenza. Il circuito diventa la metafora della condizione sociale. In termini di scelta, qui sembra negata ogni possibilità.
L’altro paesaggio è un parco delle sculture, un luogo di relax e insieme di cultura, proprio l’opposto del ghetto. Vi si riconoscono delle famose opere storiche, un condensato della storia della scultura: ci sono la tavola con le sedute e la Colonna senza fine del parco di Târgu Jiu di Constantin Brancusi, un maestoso Stabile di Alexander Calder, una altrettanto monumentale Mother Piece Mark De Suvero, un Cubo di David Smith e il Mickey Mouse di Claes Oldenburg. Mentre nel ghetto il circuito è un rettilineo dove sfrecciare, qui si sviluppa in curve e volute che allungano il piacere del passaggio.
La scelta dunque sembra chiara, ma, di nuovo, come si sceglie in un circuito chiuso? Sembra comunque obbligatorio passare per entrambi i paesaggi e dunque scegliere si ridurrebbe a preferire l’uno all’altro, da uno fuggire veloci, nell’altro indugiare felici. Forse è la funzione delle due rotonde ai lati del circuito? Lì infatti si può invertire la direzione e tornare sui proprio passi, quindi scegliere di restare in uno solo dei due luoghi e escludere l’altro. Ma questo non fa che chiuderci nella nostra scelta, che creare un altro circuito altrettanto chiuso? Dove sta la differenza in cui consiste la scelta?
A ripensarci ci si accorge che le opere del parco della scultura descrivono di fatto solo una parte della storia della scultura, quella modernista che arriva fino alla Pop Art, con un Oldenburg che è a sua volta geometrico e appoggiato a terra come una delle altre sculture. Allo stesso modo l’architettura del ghetto è tutta di quel genere modernista stereotipato, anonimo, da geometri. Che la prima venga di fatto denunciata come causa della seconda, e del suo degrado? Allora la scelta risulterebbe fittizia e di nuovo il circuito chiuso, le rotonde laterali delle pure illusioni che moltiplicano invece i cerchi così come l’impossibilità.
Ebbene, la differenza di Sachs rispetto alla generazione precedente credo sia quella che mentre essa, seguendo soprattutto la versione simulazionista, presentava delle scene ricostruite alla perfezione o fotografate in modo da apparire reali per dire come la separazione tra realtà e finzione era saltata, come le due si scambiassero o facessero ormai solo una, lo spettacolo, l’indecidibilità, la sparizione, Sachs invece ha sempre esibito la fattura approssimativa dei suoi manufatti, che non si possono minimamente scambiare per gli oggetti che riproducono, sono realizzati spesso con materiali di recupero, montati in visibile stile bricoleur.
Ebbene, non si può immaginare di passeggiare tra queste strade, non si può neanche immaginare di giocare in questo parco, né su questo circuito, niente macchinine a disposizione per fare il giro; in fondo l’invito sembra essere piuttosto quello a non giocarlo, questo gioco, che siamo inevitabilmente chiusi nella realtà che esso rappresenta, ma che non per questo dobbiamo accettarla. Questo circuito non è un gioco, è una scultura.
Legge Alessandro Renda del Teatro delle Albe.