Tommaso Besozzi, inviato speciale
Ha tratti leggendari la vita di Tommaso Besozzi, secondo Oreste del Buono “il più grande e il più moderno degli inviati speciali del dopoguerra”, per Enzo Biagi “cuore tormentato e buono”, “incapace di furbizie e adattamenti”.
Nel 1926, poco più che ventenne, Besozzi entra al “Corriere della Sera”. Qui comincia la sua strada. Nel 1945, Arrigo Benedetti, che dieci anni dopo fonderà “L’Espresso”, lo vuole a “L’Europeo”, laboratorio di un nuovo giornalismo, capace di tagliare la coltre di nebbia in cui il fascismo ha avvolto il paese.
Quando Besozzi, nel luglio del 1950, arriva a Castelvetrano per la morte di Salvatore Giuliano non è disposto a celebrare la liturgia della versione ufficiale, secondo la quale il bandito sarebbe stato ucciso nel corso di un conflitto a fuoco con i carabinieri. Esamina le “incongruenze”, i “punti oscuri”, accumula dubbi. Buca, a fatica, il muro di silenzio che schiaccia il paese, cerca chi ha visto e sentito, raccoglie i bisbigli, i mormorii, i rumori soffocati delle figure in movimento nella notte afosa in cui il bandito è stato ucciso. Pochi dormivano, e molti, nelle case, dietro le finestre socchiuse, stavano in ascolto, senza sapere esattamente che cosa stesse accadendo.
A lungo Besozzi osserva il corpo massiccio di Salvatore Giuliano riverso nel cortile di una casa del paese, scruta i fori nella canottiera bianca. C’è un segreto in quei fori, una realtà obliqua e scomoda, e per questo celata. E più Besozzi osserva, più elabora la convinzione che la verità predicata dai carabinieri è “camuffata”. Come in un lacunoso “puzzle”, i pezzi non s’incastrano, e gli interrogativi spezzano il filo della versione ufficiale malamente apparecchiata, “reticente”, “imprecisa”.
“Di sicuro c’è solo che è morto”, è il titolo del pezzo dell’inviato Tommaso Besozzi pubblicato su “L’Europeo” il 16 luglio 1950, dieci giorni dopo la morte di Salvatore Giuliano. Farà scalpore, in Italia e oltre. Così Tommaso Besozzi entra nella leggenda del giornalismo internazionale. Anche perché non si accontenta di ricomporre la meccanica dei fatti, tornando ad allineare i pezzi del “puzzle”. La posta in gioco è più alta. Non si tratta di sapere soltanto chi lo ha davvero ucciso, e come (si arriverà poi a individuare in Gaspare Pisciotta, luogotenente di Giuliano, l’esecutore del delitto), ma per conto di chi, e in virtù di quali accordi. Besozzi comincia allora a vedere chi si è mosso dietro la scena del cortile di Castelvetrano, dove giace il corpo di Salvatore Giuliano crivellato di colpi. In quel cortile, Besozzi scorge l’ombra tentacolare della Mafia, quella stessa Mafia agraria che, tre anni prima, il 1° maggio del 1947, aveva commissionato la strage di Portella della Ginestra. I contadini, allora, stavano alzando la testa, cominciavano a organizzarsi. Gli agrari non lo potevano consentire. Ci voleva una lezione. E c’era chi gliela poteva dare: la banda di Salvatore Giuliano, che, sparando sulla folla, lascerà sulla spianata di Portella undici morti e decine di feriti. Doveva essere un giorno di festa collettiva e di lotta il 1° Maggio del ’47 a Portella della Ginestra, sarà invece sconfitta e lutto. Ma servirà a prendere le misure del proprio nemico, a riconoscerlo.
Ma, alla svolta degli anni cinquanta, non c’è più spazio per scorribande di banditi. La presenza della banda Giuliano risulta ingombrante. Roba da rotocalchi. E fa troppo rumore. La Mafia, ora, mira ad altro: vuole entrare in società per accaparrarsi il cospicuo volume di affari della prima “speculazione edilizia”. Comincia il saccheggio delle città, e non basta un gruppo di sbandati per governarlo.
Che piega prende la vita di Tommaso Besozzi dopo aver smascherato la costruzione di menzogne sulla morte del bandito Giuliano? Nel 1950 ha 47 anni, ed è all’apice della sua notorietà. Va in Africa e a Parigi, intervista Jean Gabin e Georges Simenon. Ma è irrequieto, insoddisfatto, come se non fosse riuscito a capitalizzare nulla della sua affermazione professionale. È riconosciuto come uno dei grandi reporter italiani, ma sembra non accorgersene. Ripiegato su se stesso, non insegue più le storie che offre il mondo, non trova più il gusto di raccontarle, e comincia ad aver difficoltà a scrivere.
Ha moglie e figli, ma, a Milano, vive in un modesto albergo in via di ristrutturazione, murato nell’isolamento. È solo, e vulnerabile. In balia di se stesso. D’altra parte non chiede protezione, e neppure conforto. Non chiede nulla. “Gli dobbiamo – ha scritto Franco Nasi – l’esempio di questa sua vita crudele, questo lungo dramma vissuto senza mai chiedere pietà. Come chi si sacrifica camminando sull’orlo del baratro e precipitando, perché gli altri cerchino un’altra strada”.
Tommaso Besozzi, il brillante inviato, poco a poco frana in una pietrosa regione di dolore senza parole. Poco a poco l’ammirazione che il suo nome aveva suscitato fino a quel momento sfuma in distanza. Fatica persino a trovar lavoro, nonostante la sua fama, e, a partire dal 1958, va in “penoso pellegrinaggio fra i giornali”. Si trasferisce a Roma, in una bella via residenziale che da Trastevere sale verso il colle del Gianicolo. Ha con sé la famiglia, ma, per giorni, per settimane, ne ignora la presenza, facendosi lasciare un po’ di cibo su un tavolino fuori dall’“antro del mago”, un curioso “laboratorio”, dove Besozzi, che ha una certa abilità manuale e qualche nozione di chimica, ha accatastato “arnesi, alambicchi, barattoli, vernici”. Per farne che cosa? Lo si scoprirà qualche settimana più tardi. Nel frattempo, la famiglia non trova altra soluzione che il ricovero in una clinica, con camicia di forza e scosse elettriche. Besozzi è irriconoscibile. In una foto di qualche anno prima appare elegante, seduto alla scrivania, la pipa in bocca, lo sguardo aperto. Non è più così: vive nascosto, quasi fosse vergognoso di sé. E, chiuso nel suo “antro”, cova un terribile progetto. Per settimane fabbrica l’arma con cui il 18 novembre del 1964 si ucciderà: una sorta di rudimentale “cannone” caricato con una polvere preparata apposta, un miscuglio di carbone, zolfo e salnitro. Lo passa al setaccio, infine lo fa seccare con aria calda. Una lunga, meticolosa introduzione alla propria morte. La miscela preparata con cura da Besozzi provoca una forte deflagrazione, che risuonerà in tutto il quartiere, si penserà a un attentato. Viene giù un muro della casa. Fra i calcinacci i familiari troveranno questo biglietto: “Chiedo perdono. Non posso più sopportare la vita”.
Sono passati quattordici anni dalla gloria del luglio 1950.
Fonti:
Tommaso Besozzi, “Di sicuro c’è solo che è morto”, in “L’Europeo”, 1950.
Francesco Rosi, Salvatore Giuliano, 1962.
Enrico Mannucci, I giornali non sono scarpe. Tommaso Besozzi, una vita da prima pagina, Milano 1995.
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